1. Lady Macbeth e L’inganno: due racconti di prigionia domestica dall’Ottocento
Coperto da un diafano velo nuziale, il volto di una giovanissima donna appare attraversato da un’espressione di ansiosa vulnerabilità. Durante la celebrazione del matrimonio, il suo capo si muove nervoso, sotto la superficie serica del tessuto, col chiaro intento di scrutare lo sposo al proprio fianco. Ma poiché l’uomo è momentaneamente e strategicamente relegato nel fuoricampo, le occhiate furtive della fanciulla risultano vane [fig. 1].
Su questa emblematica immagine di condizionamento dello sguardo femminile si apre Lady Macbeth, pellicola diretta dal britannico William Oldroyd nel 2016. Grazie all’imprescindibile apporto della sceneggiatrice Alice Birch, Oldroyd trasferisce sullo schermo una celebre novella di Nikolaj Leskov guidato essenzialmente da due slanci. In primo luogo, colpisce l’atteggiamento di audace disinvoltura nei riguardi del testo letterario di partenza. Già fonte di ispirazione per Dmítrij ŠostakóviÄ in ambito lirico e per Andrzej Wajda in quello cinematografico, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk (1865) è qui usata come modello narrativo da cui trarre solo alcune linee fondamentali, quelle maggiormente prossime alla potenza del mito.
Non a caso, Antonija Primorac definisce il film nei termini di una riappropiazione piuttosto che di un semplice adattamento (Primorac 2021, pp. 148-152). Benché sfrutti fin dal titolo il fantasma della sanguinaria eroina di Shakespeare, Leskov sceglie di calare il proprio racconto nella torpida provincia russa dell’Ottocento. Similmente regista e sceneggiatrice, pur mantendo la stessa centralità assegnata a una protagonista capace di ogni efferatezza, spostano l’azione in un contesto culturalmente loro più familiare come l’Inghilterra vittoriana. La rielaborazione leskoviana della figura universalmente nota di Lady Macbeth diventa dunque punto di partenza per una nuova rielaborazione, in cui il confronto con illustri testi preesistenti subisce l’inevitabile influsso delle tendenze in auge nella cinematografia odierna. Il risultato finale è un’opera che, al pari di altre pressoché coeve, si inscrive nel solco del cosiddetto neo-Victorian cinema, proponendo l’ennesima vicenda di insubordinazione femminile a un sistema socio-familiare integralmente maschilista. Del resto, il panorama accademico anglosassone ha spesso evidenziato la natura eversiva della sexual politics al centro di molti fra i prodotti ispirati al lungo regno di Vittoria (Kohlke e Gutleben 2011; Primorac 2018; Tomaiuolo 2018). In secondo luogo, colpisce come proprio questa torbida vicenda di rivolta muliebre non si esprima soltanto attraverso l’involucro pulsante del corpo, dell’eros, ma anche attraverso una progressiva, seppur aberrante, conquista dell’abitazione del suocero e del marito. A proposito della capacità del gender di porsi quale principio organizzativo in campo architettonico, Lynne Walker afferma che «sebbene la casa vittoriana venisse […] continuamente definita “il regno per eccellenza della donna”, di fatto si trattava di uno spazio fortemente patriarcale in termini di territorio, controllo, e significato» (Walker 2002, p. 826). In tal senso, ben si comprende la specularità istituita dal film fra il prepotente desiderio sessuale del personaggio femminile e la sua concomitante ricerca di un dominio sul perimetro domestico.