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Quello della casa infestata è probabilmente il tòpos più rappresentativo di tutta la letteratura gotica. Se nel corso dei secoli il rapporto, a livello narrativo, tra donne e case infestate si è consolidato in maniera sempre più salda, nella contemporaneità è senza dubbio Shirley Jackson a rielaborarne gli aspetti fondanti, creando un precedente da cui è impossibile prescindere. Nel suo L’incubo di Hill House (The Haunting of Hill House, 1959) la scrittrice lega in maniera indissolubile l’inconscio della protagonista alle inquietanti manifestazioni di una casa intrinsecamente maligna. Allo stesso tempo, contribuisce a riscrivere quello che Stephen King definisce l’archetipo del ‘Bad Place’ sondando, forse più di chiunque altro, il terrore legato allo spazio domestico. Con questo articolo intendo indagare come tale modello venga reinterpretato in due recenti horror diretti da donne, The Babadook (J. Kent, 2014) e Relic (N. E. James, 2020), allo scopo di mostrare come tali narrazioni contemporanee si inseriscano nella tradizione del gotico femminile.

The haunted house is probably the most representative tòpos of the Gothic literature. Even if the relationship between women and haunted houses has considerably strengthened over the centuries on the narrative level, Shirley Jackson is undoubtedly the contemporary author who reworked its fundamental aspects, creating a precedent that cannot be disregarded. In her The Haunting of Hill House (1959), the writer inextricably linked the protagonist’s unconscious to the disturbing manifestations of an intrinsically evil house. At the same time, she contributed to the rewriting of what Stephen King calls the ‘Bad Place’ archetype by probing, perhaps more than anyone else, into the terror associated with the domestic space. With this paper, I aim to investigate how that model has been reinterpreted in two recent horror films directed by women, The Babadook (J. Kent, 2014) and Relic (N. E. James, 2020), in order to show how such contemporary narratives fit into the tradition of the female Gothic.  

1. Donne e spazio domestico: la tradizione gotica e la ghost story

Come è noto, quello della casa infestata è un motivo ricorrente in tutta la letteratura gotica. Dalle sue origini (intorno alla seconda metà del Settecento) il tòpos del castello infestato da spettri (Punter 1996, p. 5) si è evoluto fino a giungere, attraverso reinterpretazioni successive, alla contemporaneità. Tuttavia, la sola presenza di dimore isolate al cui interno si manifestano eventi soprannaturali non basta a rappresentare pienamente questa specifica tradizione letteraria che, da sempre, ha prestato un particolare riguardo verso i personaggi femminili. Non sarebbe infatti esagerato affermare che è il gotico (più di ogni altro genere) a «testimoniare immancabilmente il legame intimo tra un soggetto femminile e la casa» (Hock Soon 2015, p. 4).

Se, nel contemporaneo, scrittrici come Angela Carter, Margaret Atwood, Emma Tennant e Joyce Carol Oates hanno riattualizzato il genere arricchendolo con una prospettiva di genere e femminista (Wisker 2016, p. 207), prima di loro è stata certamente Shirley Jackson ad averne rielaborato metodicamente gli aspetti fondanti, tanto da diventare un vero e proprio modello per quello che in seguito è stato definito «gotico femminile» (Arnold 2013; Barton 2020; Rubenstein 1996). Nello specifico, rientrano sotto questa etichetta quelle narrazioni scritte da donne e incentrate su personaggi femminili in cui gli elementi tradizionali del gotico vengono rielaborati in maniera peculiare, ad esempio, sondando travagliati rapporti madre-figlia o narrando la prigionia delle protagoniste in case che riflettono i loro fragili stati emotivi e mentali (Rubenstein 1996, p. 312). In questo scenario, Jackson rappresenta senz’altro un precedente da cui è impossibile prescindere: attraverso le sue opere, e in particolare con The Haunting of Hill House pubblicato nel 1959, l’autrice ha riscritto le regole del gotico, utilizzando il motivo della casa infestata per riflettere sulla vita delle donne tra gli anni Cinquanta e Sessanta (Barton 2020), in bilico tra domesticità e desiderio di evasione. Nel romanzo la scrittrice mette a tema il potere delle case di intrappolare e rendere inoffensive le proprie abitanti (Hague 2005, p. 83): nel suo riproporre il motivo gotico dell’ingabbiamento (Barton 2020), Jackson in realtà si concentra sulla «solitudine e la frammentazione identitaria dei suoi personaggi femminili, sulla loro incapacità di relazionarsi con il mondo esterno e allo stesso tempo di vivere autonomamente, e sul loro confronto con un vuoto interiore che spesso sfocia nella malattia mentale» (Hague 2005, p. 74).

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All’interno della filmografia di Duras, Nathalie Granger è un’interessante opera di transizione; film sull’amore materno, è anche una potente metafora del ruolo della donna nel cinema e nella società. Le due donne (Lucia Bosè e Jeanne Moreau) vivono in una casa (la stessa casa di Duras), ultima casa abitabile del suo cinema, che diventa estensione della loro femminilità: una casa-utero, spazio domestico sul quale hanno pieno controllo, luogo di rifugio e di cura. Lo spazio della casa è anche esclusione, volontaria prigione, rispetto all’esterno in cui vivono gli uomini che si allontanano e si vedono sparire inghiottiti dal mondo del lavoro e del linguaggio. Nella casa regna il silenzio, la musica (oppositiva rispetto alla verbalizzazione dei sentimenti), i gesti ripetitivi e lenti della cura domestica (sparecchiare, stirare, cucinare), le preoccupazioni mute di una madre per le intemperanze di una figlia bambina. Dal fuori arrivano le voci minacciose di una violenza diffusa e un venditore ambulante che cerca inutilmente di vendere alle due donne una lavatrice rivoluzionaria, senza ottenere nessuna risposta, se non la velata insinuazione dell’inutilità del proprio ruolo all’interno della società, della velleità di voler dare un nome ad ogni cosa. Il contributo vuole quindi approfondire l’idea dello spazio domestico come luogo del silenzio, un silenzio che diventa atto rivoluzionario, oppositivo del femminile nei confronti del verbo maschile. 

Within Duras’ filmography, Nathalie Granger is an interesting work of transition; a film about maternal love, it is also a powerful metaphor for the role of women in cinema and society. The two women (Lucia Bosè and Jeanne Moreau) live in a house (the same house of Duras), the last habitable house of her cinema, which becomes an extension of their femininity: a home-womb, a domestic space on which they have full control, a place of refuge and care. The space of the house is also exclusion, voluntary prison, compared to the outside in which all the men live moving away and seeing themselves disappear swallowed up by the world of work and language. In the house reigns silence, music (opposition to the verbalization of feelings), repetitive and slow gestures of domestic care (clearing, stretching, cooking), the mute concerns of a mother for the intemperance of a daughter. From the outside come the threatening rumors of widespread violence and a salesman who tries in vain to sell the two women a revolutionary washing machine, without getting any answer, if not the veiled insinuation of the futility of one’s role in society, of the desire to give a name to everything. The contribution aims to deepen the idea of domestic space as a place of silence, a silence that becomes a revolutionary act, opposing the feminine’s silence to the male verb. 

1. Nathalie Granger e il cinema della modernità

L’obiettivo primario di questo contributo è quello di riflettere sulla funzione simbolica che la dimensione domestica riveste nell’immaginario letterario e cinematografico di Marguerite Duras, partendo in particolare da un film, molto significativo, come Nathalie Granger: girato nella primavera del 1972, è interpretato da due dive come Lucia Bosè e Jeanne Moreau, e da un giovane attore alle primissime armi, Gérard Depardieu; fu presentato al Festival di Venezia dello stesso anno, ottenendo un riscontro piuttosto tiepido da parte della critica e del pubblico.

I temi del cinema di Duras sono gli stessi della sua narrativa, del suo teatro, dei suoi interventi saggistici e giornalistici. Nel cinema non è difficile identificare tre periodi ben distinti: da La Musica (1966) a Nathalie Granger (1972) siamo nel ‘cinema della modernità’, sotto l’influsso di Alain Resnais (con il quale Duras aveva collaborato alla sceneggiatura di Hiroshima, mon amour); da La Femme du Gange (1972-73) a Le Navire Night (1979) siamo nel ‘cinema delle voci’, in cui immagini e suono non sono più sincroni, ma viaggiano su piani temporali distanti e talvolta irraggiungibili, in cui il film e il testo percorrono binari paralleli, e le voci dialogano con le immagini; da Césarée (1979) a L’Homme atlantique (1982) siamo nel ‘cinema della voce sola’, poiché solo la voce di Marguerite Duras accompagna le immagini, monologando con esse.

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