2.4. La casa-utero: riflessioni su Nathalie Granger (1972)

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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All’interno della filmografia di Duras, Nathalie Granger è un’interessante opera di transizione; film sull’amore materno, è anche una potente metafora del ruolo della donna nel cinema e nella società. Le due donne (Lucia Bosè e Jeanne Moreau) vivono in una casa (la stessa casa di Duras), ultima casa abitabile del suo cinema, che diventa estensione della loro femminilità: una casa-utero, spazio domestico sul quale hanno pieno controllo, luogo di rifugio e di cura. Lo spazio della casa è anche esclusione, volontaria prigione, rispetto all’esterno in cui vivono gli uomini che si allontanano e si vedono sparire inghiottiti dal mondo del lavoro e del linguaggio. Nella casa regna il silenzio, la musica (oppositiva rispetto alla verbalizzazione dei sentimenti), i gesti ripetitivi e lenti della cura domestica (sparecchiare, stirare, cucinare), le preoccupazioni mute di una madre per le intemperanze di una figlia bambina. Dal fuori arrivano le voci minacciose di una violenza diffusa e un venditore ambulante che cerca inutilmente di vendere alle due donne una lavatrice rivoluzionaria, senza ottenere nessuna risposta, se non la velata insinuazione dell’inutilità del proprio ruolo all’interno della società, della velleità di voler dare un nome ad ogni cosa. Il contributo vuole quindi approfondire l’idea dello spazio domestico come luogo del silenzio, un silenzio che diventa atto rivoluzionario, oppositivo del femminile nei confronti del verbo maschile. 

Within Duras’ filmography, Nathalie Granger is an interesting work of transition; a film about maternal love, it is also a powerful metaphor for the role of women in cinema and society. The two women (Lucia Bosè and Jeanne Moreau) live in a house (the same house of Duras), the last habitable house of her cinema, which becomes an extension of their femininity: a home-womb, a domestic space on which they have full control, a place of refuge and care. The space of the house is also exclusion, voluntary prison, compared to the outside in which all the men live moving away and seeing themselves disappear swallowed up by the world of work and language. In the house reigns silence, music (opposition to the verbalization of feelings), repetitive and slow gestures of domestic care (clearing, stretching, cooking), the mute concerns of a mother for the intemperance of a daughter. From the outside come the threatening rumors of widespread violence and a salesman who tries in vain to sell the two women a revolutionary washing machine, without getting any answer, if not the veiled insinuation of the futility of one’s role in society, of the desire to give a name to everything. The contribution aims to deepen the idea of domestic space as a place of silence, a silence that becomes a revolutionary act, opposing the feminine’s silence to the male verb. 

1. Nathalie Granger e il cinema della modernità

L’obiettivo primario di questo contributo è quello di riflettere sulla funzione simbolica che la dimensione domestica riveste nell’immaginario letterario e cinematografico di Marguerite Duras, partendo in particolare da un film, molto significativo, come Nathalie Granger: girato nella primavera del 1972, è interpretato da due dive come Lucia Bosè e Jeanne Moreau, e da un giovane attore alle primissime armi, Gérard Depardieu; fu presentato al Festival di Venezia dello stesso anno, ottenendo un riscontro piuttosto tiepido da parte della critica e del pubblico.

I temi del cinema di Duras sono gli stessi della sua narrativa, del suo teatro, dei suoi interventi saggistici e giornalistici. Nel cinema non è difficile identificare tre periodi ben distinti: da La Musica (1966) a Nathalie Granger (1972) siamo nel ‘cinema della modernità’, sotto l’influsso di Alain Resnais (con il quale Duras aveva collaborato alla sceneggiatura di Hiroshima, mon amour); da La Femme du Gange (1972-73) a Le Navire Night (1979) siamo nel ‘cinema delle voci’, in cui immagini e suono non sono più sincroni, ma viaggiano su piani temporali distanti e talvolta irraggiungibili, in cui il film e il testo percorrono binari paralleli, e le voci dialogano con le immagini; da Césarée (1979) a L’Homme atlantique (1982) siamo nel ‘cinema della voce sola’, poiché solo la voce di Marguerite Duras accompagna le immagini, monologando con esse.

Nathalie Granger, collocato nel primo periodo, quindi nel pieno del cinema moderno e delle sue soggettive espressioni estetiche, è un’interessante opera di transizione; film sull’amore materno, è anche una potente ed efficace metafora del ruolo della donna nel cinema e nella società. Le due donne (Lucia Bosè e Jeanne Moreau) vivono in una casa (la stessa casa di Duras), con un uomo, che si intravede appena all’inizio della pellicola, e con due bambine, Laurence e Nathalie. Quest’ultima è una bambina violenta che il mondo esterno vuole rigettare ed escludere dalla società, così come i due adolescenti assassini di cui parla la radio, latitanti nelle foreste dell’Yvelines e pronti ad essere acciuffati e condannati.

La casa che protegge le donne e le bambine diventa estensione della loro femminilità, una casa-utero: «The space of the house assumes the security, intimacy, warmth and safety of the nest; it belongs to the women and to their ways of being; they have control over this space, ad far as is possibile; it is a space of refuge, possibly even of cure» (Kaplan 1983, p. 99). Lo spazio della casa è anche esclusione volontaria, separazione, luogo di libertà, rispetto all’esterno in cui vivono gli uomini, in cui essi si allontanano e si vedono sparire inghiottiti dal mondo del lavoro e del linguaggio, inquadrati attraverso finestre sbarrate che delimitano il mondo di fuori come prigione e il mondo di dentro come espressione di una libertà emotiva e sentimentale che si materializza attraverso la musica e il silenzio.

Duras ha dichiarato di essersi avvicinata al linguaggio cinematografico, tra le altre ragioni, perché la letteratura non riusciva a dar conto del silenzio. «Il silenzio – dice Duras – è femminile. Si tratta di un’esperienza che la condizione femminile ha reso possibile» (Duras 2021, p. 483). Non un silenzio imposto, ma un altro tempo della parola, che diventa privilegio e che trova riparo e accoglienza tra le mura domestiche. Nella casa regnano il silenzio, la musica (oppositiva rispetto alla verbalizzazione dei sentimenti), i gesti ripetitivi e lenti della cura domestica (sparecchiare, stirare, cucinare), le preoccupazioni mute di una madre per le intemperanze di una figlia bambina, Nathalie, che appare sullo schermo solo per guardare e per suonare. Dal fuori arrivano le voci minacciose di una violenza diffusa e un rappresentante di commercio che cerca inutilmente di vendere alle due donne una lavatrice rivoluzionaria (per poi scoprire che è esattamente il modello che loro posseggono già senza esserne consapevoli), senza ottenere nessuna risposta, se non la velata insinuazione dell’inutilità del proprio ruolo all’interno della società, della velleità di voler dare un nome ad ogni cosa. Il film termina proprio con l’allontanamento dell’uomo dallo spettro visivo delle due donne, che lo guardano allontanarsi, dopo aver messo in crisi le sue certezze, di nuovo nel mondo esterno, invulnerabile preda della violenza sociale che non trova spazio all’interno del nido domestico. Nominare le cose è come rappresentarle, dar loro un’immagine: Nathalie Granger è l’ultimo atto del cinema illustrativo. Successivamente, la sparizione dei corpi e la rottura del legame tra la voce e l’immagine si faranno via via più radicali, l’idea del femminile espressa in questo film diventerà la forma del femminile attraverso la scomparsa dell’azione e la valorizzazione del racconto (esterno all’immagine): un «processo che inizia, effettivamente, con questo film anche se alcune tracce erano già presenti in Jaune le soleil e si fa sempre più pregnante, via via, in quelli successivi fino ad arrivare alla sparizione totale dei corpi, nei cortometraggi e all’immagine nera di L’homme atlantique» (Zemingnan 1994, p. 92). Duras maturerà la consapevolezza che l’immagine impoverisce l’immaginario riducendolo a una sola possibilità.

 

2. Una casa-utero

La casa in cui viene girato il film si trova a Neauphle-le-Château [fig. 1], a poche decine di chilometri da Parigi. Duras compra questa casa, che precedentemente apparteneva ad un facoltoso notaio della zona, nel 1958 con i soldi ottenuti dalla vendita dei diritti cinematografici de Le barrage contre le Pacifique. Insieme alla casa di Parigi e a Les Roches Noires in Normandia, rifugio degli ultimi anni e teatro dell’amore con Yann Andréa, è uno dei tre luoghi della geografia durassiana. Si tratta di una casa grandissima, di quattordici stanze, in cui la scrittrice vive con il figlio, Jean Mascolo, e poi da sola, con un giardino, che lei definisce ‘il parco’, e uno stagno. La casa diventa il set di Nathalie Granger: la troupe si trasferisce là per alcune settimane, condividendo con la scrittrice la vita quotidiana e il ménage domestico. Duras fa la spesa, riordina la casa, cucina, esprimendo sempre il massimo piacere per queste attività domestiche, nelle quali ripone uno dei privilegi della condizione femminile, ovvero la possibilità di creare un ordine esteriore in grado di anticipare e favorire l’ordine interiore. Non c’è soluzione di continuità tra la vita reale e il cinema, non c’è racconto perché la cronologia che il film propone non corrisponde alla vita reale, nella quale un’azione ha un prima che corrisponde alla causa, e un dopo che ne registra le conseguenze. La storia lineare è una semplificazione e quindi una menzogna, alla quale Duras si sottrae in tutto il suo cinema e in tutta la sua narrativa, dando forma a uno stato d’animo polifonico anche nel silenzio, molteplice e complesso anche negli spazi domestici, sghembi e contorti, sui quali sceglie di soffermarsi. Secondo Bachelard, la casa è il simbolo del mondo interiore: Duras riprende questa simbologia creando un ponte tra ordine interiore ed ordine esteriore. Il rappresentante di commercio viene messo in crisi dalle due donne, che lo guardano affannarsi, lasciando emergere attraverso il loro silenzio afasico tutta l’incertezza dell’uomo, tutto il suo disordine interiore [fig. 2]. L’impegno nelle faccende domestiche, che da alcuni critici è stato interpretato come la visualizzazione della noia, diventa invece nell’ottica durassiana il tempo dell’ordine, il tempo del piacere della risoluzione del problema (dopo questi tempi morti impegnati nel ménage domestico Isabelle Granger decide di non mandare più la figlia in collegio e di tenerla con sè).

In La vie materielle, Duras scrive: «Ho questo gusto profondo di gestire la casa» (Duras 1987, p. 61). Duras vive la casa come luogo della scrittura: nelle sue case non c’è biblioteca, tutto è sempre in ordine e non vi è neanche uno studio in cui relegare la scrittura, perché essa non è un lavoro, ed è la casa tutta a diventare il tempio generatore dei libri scritti e di quelli che non lo sono ancora stati. La scrittrice scrive in camera da letto, prevalentemente, ma prima di iniziare fa sempre il letto, come gesto di ordine interiore, come eredità borghese di una madre attenta al ménage dalla quale la giovane Duras dichiara di avere appreso tutto: «Nella vita quotidiana, non faccio nulla che lei non abbia fatto. Ad esempio, il mio modo di cucinare, di fare l’arrosto, lo stufato. Questo gusto di fare la spesa, che io ho così forte, anche lei lo aveva» (Duras 1993, p. 199). Una casa-utero per l’appunto, in cui la presenza maschile non è contemplata, anzi la presenza dell’uomo rende la vita domestica troppo razionale e quindi sostanzialmente e narrativamente insostenibile. La casa è un utero, appartiene alle donne ed è il centro del mondo, come nell’architettura delle abitazioni arabe, quadrate, con al centro un cortile e un giardino, aperto alle influenze celesti, evocazione diretta dell’Eden (come l’Eden Cinéma, luogo mitico dell’infanzia indocinese).

Duras non abita la casa ma è abitata dalla casa, come ha spesso dichiarato Luc Moullet, produttore di Nathalie Granger e suo grande amico. Una casa dalla struttura circolare che riprende – nelle modalità in cui viene filmata dall’operatore Benoît Jacquot – le forme distorte delle case di Escher, con un contrasto fra bianco e nero richiamato dalla dicotomia simbolica tra la donna bruna e la donna bionda e dal pavimento a scacchi inquadrato dal basso, quasi a riprendere nei movimenti delle donne una coreografia simbolica di alternanze cromatiche. Le donne si muovono nella casa in silenzio, come il gatto nero che, come loro, contempla dalla sua libertà il paesaggio esteriore, le strade, i prigionieri del lavoro e dei pensieri.

 

Bibliografia

M. Duras, La Vie matérielle, Paris, Gallimard, 1987.

M. Duras, Le Monde extérieur. Outside 2, Paris, P.O.L., 1993.

M. Duras, Le cinéma que je fais. Écrits et entretiens, Paris, P.O.L., 2021.

E. A. Kaplan, Women & Film. Both Sides of the Camera, New York, Methuen, 1983.

R. Zemignan, Introduzione al cinema di Marguerite Duras, Padova, Unipress, 1994.