1. Donne e spazio domestico: la tradizione gotica e la ghost story
Come è noto, quello della casa infestata è un motivo ricorrente in tutta la letteratura gotica. Dalle sue origini (intorno alla seconda metà del Settecento) il tòpos del castello infestato da spettri (Punter 1996, p. 5) si è evoluto fino a giungere, attraverso reinterpretazioni successive, alla contemporaneità. Tuttavia, la sola presenza di dimore isolate al cui interno si manifestano eventi soprannaturali non basta a rappresentare pienamente questa specifica tradizione letteraria che, da sempre, ha prestato un particolare riguardo verso i personaggi femminili. Non sarebbe infatti esagerato affermare che è il gotico (più di ogni altro genere) a «testimoniare immancabilmente il legame intimo tra un soggetto femminile e la casa» (Hock Soon 2015, p. 4).
Se, nel contemporaneo, scrittrici come Angela Carter, Margaret Atwood, Emma Tennant e Joyce Carol Oates hanno riattualizzato il genere arricchendolo con una prospettiva di genere e femminista (Wisker 2016, p. 207), prima di loro è stata certamente Shirley Jackson ad averne rielaborato metodicamente gli aspetti fondanti, tanto da diventare un vero e proprio modello per quello che in seguito è stato definito «gotico femminile» (Arnold 2013; Barton 2020; Rubenstein 1996). Nello specifico, rientrano sotto questa etichetta quelle narrazioni scritte da donne e incentrate su personaggi femminili in cui gli elementi tradizionali del gotico vengono rielaborati in maniera peculiare, ad esempio, sondando travagliati rapporti madre-figlia o narrando la prigionia delle protagoniste in case che riflettono i loro fragili stati emotivi e mentali (Rubenstein 1996, p. 312). In questo scenario, Jackson rappresenta senz’altro un precedente da cui è impossibile prescindere: attraverso le sue opere, e in particolare con The Haunting of Hill House pubblicato nel 1959, l’autrice ha riscritto le regole del gotico, utilizzando il motivo della casa infestata per riflettere sulla vita delle donne tra gli anni Cinquanta e Sessanta (Barton 2020), in bilico tra domesticità e desiderio di evasione. Nel romanzo la scrittrice mette a tema il potere delle case di intrappolare e rendere inoffensive le proprie abitanti (Hague 2005, p. 83): nel suo riproporre il motivo gotico dell’ingabbiamento (Barton 2020), Jackson in realtà si concentra sulla «solitudine e la frammentazione identitaria dei suoi personaggi femminili, sulla loro incapacità di relazionarsi con il mondo esterno e allo stesso tempo di vivere autonomamente, e sul loro confronto con un vuoto interiore che spesso sfocia nella malattia mentale» (Hague 2005, p. 74).
In questo senso il testo di Jackson, riprendendo la lezione di Henry James (The Turn of the Screw, 1898) e di Charlotte Perkins Gilman (The Yellow Wallpaper, 1892), si inserisce in quella tradizione di ghost stories in cui la dimensione propriamente soprannaturale risulta inscindibile dall’inconscio tormentato della protagonista. Nella storia di Eleanor Vance e del suo rapporto simbiotico e sinistro con Hill House, nonostante siano presenti alcuni classici elementi orrorifici di una casa infestata (scritte raccapriccianti sui muri, rumori dietro le pareti e le porte, correnti inspiegabili di aria gelata), il vero orrore risiede in gran parte nello spazio tra la mente di Eleanor e il mondo esterno (Ashton 2018, p. 269). Probabilmente è proprio questa influenza reciproca tra lo spazio della casa e la coscienza traumatizzata della protagonista a rendere The Haunting of Hill House un caso emblematico di gotico femminile. Tuttavia, l’ambiguità psicologica non è l’unico elemento rilevante ai fini del nostro discorso, a proposito delle innovazioni che Shirley Jackson ha apportato alla narrativa sulle case infestate. Con il suo romanzo, la scrittrice americana ha infatti contribuito a riscrivere quello che Stephen King definisce l’archetipo del «brutto posto» (King 1981, p. 294), ovvero quello di una casa che è, per sua stessa natura, maligna. Hill House non è sana: tutti gli angoli non sono esattamente retti ma variano di una frazione di grado; i vani, leggermente scentrati, non permettono a nessuna porta di rimanere aperta da sola; la struttura labirintica della pianta si basa su anelli concentrici, di conseguenza molte stanze non hanno finestre ma sono circondate da altre camere. La casa è «un capolavoro di depistaggio architettonico» (Jackson 1959, p. 103) ed è quanto più lontana possibile dalla concezione umana di come dovrebbe essere costruita una abitazione. È, allo stesso tempo, non solo senziente ma capace persino di modificare aspetto e dimensioni allo scopo di far perdere il senno ai propri visitatori. Per queste ragioni, si è ritenuto fondamentale partire da Shirley Jackson prima di soffermarsi sull’analisi di due narrazioni cinematografiche contemporanee riconducibili al gotico femminile. A partire dalle osservazioni condotte finora, nei prossimi due paragrafi verranno approfondite due pellicole dirette da donne che recentemente hanno indagato, in maniera personale e con esiti particolarmente felici, l’orrore domestico odierno.
2. The Babadook. L’orrore materno e il mostro nello scantinato
Come anticipato, le narrazioni connesse al gotico femminile risultano particolarmente attuali e, recentemente, sono soprattutto quelle cinematografiche ad aver portato le tematiche di cui si è parlato ai risultati più estremi. Anche in questo caso, infatti, la casa è il fulcro di questo tipo di storie, che diventano dei «ricchi esempi di gotico domestico, in cui la promessa e la sicurezza della casa, del focolare e della famiglia si rivelano un incubo opprimente» (Wisker 2015, p. 208) ma in cui, allo stesso tempo, viene lasciata aperta la possibilità di una eventuale sovversione della domesticità tradizionale.
Il primo caso su cui intendiamo soffermarci è The Babadook, primo lungometraggio di Jennifer Kent, del 2014. Sul film, acclamato fin da subito dalla critica, è stato scritto molto; in questa breve analisi ci si concentrerà dunque soltanto sugli aspetti più strettamente connessi all’orrore domestico, sulla scia delle considerazioni svolte finora. The Babadook racconta la storia di Amelia, giovane madre vedova che, non essendo riuscita a superare la tragica morte del marito, cerca di destreggiarsi nell’arduo compito di crescere un figlio di sette anni, Samuel, particolarmente esigente e in costante (seppure legittima) ricerca di attenzioni. In questo già complesso quadro familiare, un mostro agghiacciante comincia a perseguitarli nella loro abitazione, nel tentativo di rompere un equilibrio di per sé estremamente fragile.
Dalla fine degli anni Novanta, molti horror si sono concentrati sul racconto di madri single che tentano, nonostante le difficoltà, di crescere i propri figli nel modo migliore possibile (Harrington 2018, p. 201); tra questi, The Babadook è senz’altro quello che tematizza questa variante contemporanea di «orrore materno» (Arnold 2013) nel modo più compiuto. Lungo tutto il film Amelia lotta inutilmente per adeguarsi a quelle aspettative che il senso comune attribuisce a una ‘buona madre’, e che si rivelano tuttavia irrealizzabili. La protagonista, provata da un terribile lutto mai elaborato e da un evidente stato depressivo, porta con sé i segni di una persona che, esausta, è costretta a mettere la cura degli altri al primo posto: in famiglia bada al figlio, mentre al lavoro si occupa dei pazienti di una casa di riposo. Non è solo il suo aspetto a evidenziarne la spossatezza – Amelia è sempre spettinata, ha il volto pesantemente segnato, per quasi tutto il film indossa alternativamente la divisa da infermiera e una camicia sovramisura [fig. 1] – ma anche la casa riflette il suo stato emotivo. Sotto questo aspetto la scenografia è particolarmente significativa: in un ambiente spoglio, asettico, con le pareti di un mesto colore tra l’azzurro e il grigio, la stessa presenza di un bambino sembra inconcepibile. Niente, in quella casa, è accogliente e questa sensazione viene enfatizzata da una fotografia freddissima e incredibilmente cupa [figg. 2-3]. Anche gli elementi che canonicamente rimandano alla domesticità qui sono ribaltati: la cucina è costantemente in disordine, il lavello trabocca di piatti sporchi e mancano le provviste [figg. 4-5].
Com’è risaputo, il «mostruoso materno» è tipico dell’horror e si basa, canonicamente, su una relazione madre-figlio orrorifica, caratterizzata da una madre castrante, possessiva e psicotica (Creed 1993, p. 139). In The Babadook, tuttavia, l’orrore materno non deriva da una madre particolarmente dominante ma, piuttosto, da una madre che è incapace (come qualsiasi madre) di conformarsi alle rigide pretese di una genitorialità perfetta (Pisters 2002, p. 140). Amelia viene giudicata come una cattiva madre in numerose occasioni e da diverse persone: dal preside della scuola, dalla sorella, dagli assistenti sociali. Il suo essere una madre «abietta» deriva quindi dal mancato rispetto dei confini e delle regole (Creed 1993, p. 8) che la società le impone. Tutt’altro che oppressiva, la protagonista è vittima del suo stesso trauma, ovvero quello della morte del marito, deceduto in un incidente mentre la accompagnava in ospedale per dare alla luce Samuel. Il Babadook, l’uomo nero che nasce nello scantinato in cui Amelia custodisce gli oggetti che appartenevano al compagno, altro non è se non il rancore, mai riconosciuto e mai affrontato, verso il bambino. Il vero lascito spaventoso del film, quello che non abbandona gli spettatori quando termina la visione, non dipende tanto dalle terrificanti apparizioni del mostro – il cui aspetto si ispira a quello di Lon Chaney in London After Midnight (T. Browning, 1927) – quanto dalle dinamiche strazianti del rapporto tra Amelia e Samuel, dalla loro quasi totale incomunicabilità.
Il finale, unico nel suo genere e piuttosto atipico nel contesto horror, è paradigmatico se si guarda a quanto detto finora sul gotico femminile. Nell’ultima parte del film si assiste a un disturbante climax in cui i protagonisti affrontano il mostro senza tuttavia ucciderlo, e l’ultima sequenza rivela come il Babadook sia tenuto prigioniero nello scantinato. Così come il lutto, la rabbia e il dolore non possono essere eliminati del tutto, allo stesso modo il Babadook non può sparire ma deve, al contrario, essere custodito e nutrito, seppure in un angolo remoto della casa. Quello di The Babadook, nonostante l’amarezza, può comunque essere considerato un lieto fine in cui Amelia, accettati i propri sentimenti negativi e scesa a patti con la consapevolezza di non poter essere una madre perfetta, può finalmente permettersi di godere della relazione con il figlio.
3. Relic. Lo spazio materno e il ripostiglio della memoria
Il secondo film preso in esame ha molto in comune con la pellicola di Jennifer Kent: anche in questo caso opera prima di una regista australiana, Relic (2020) di Natalie Erika James si pone in stretta continuità con The Babadook. Entrambi i film – in un’operazione affine a quella compiuta in The Haunting of Hill House – usano la tradizione della ghost story per dare vita a dei racconti orrorifici fortemente drammatici in cui gli elementi del gotico vengono utilizzati in funzione di una riflessione sulle paure di soggetti femminili.
Qui le protagoniste appartengono a tre diverse generazioni: Edna, sua figlia Kay e sua nipote Sam. Il contesto è, anche stavolta, meramente familiare: Kay e Sam si trovano costrette ad alloggiare nella casa di Edna dopo che quest’ultima è inspiegabilmente scomparsa. L’anziana, che ricompare dopo qualche giorno senza dare spiegazioni, si comporta in modo inquietante e appare molto diversa dalla madre e dalla nonna che Kay e Sam conoscevano.
Il film, che appunto si sviluppa su una linea narrativa semplice, ruota attorno ai temi della memoria, della cura e della perdita. La casa di Edna, come si vedrà più avanti, è anch’essa protagonista: a partire dall’incipit, in cui è vuota ma allo stesso tempo traboccante (grazie agli oggetti di uso quotidiano) della personalità della sua proprietaria, fino all’ultima parte del film, in cui cercherà coscientemente di trattenere dentro le sue mura figlia e nipote.
Se, come in The Babadook, la fotografia è estremamente cupa e in linea con un’estetica tipicamente horror, in Relic l’ambiente domestico è tuttavia diametralmente opposto [fig. 6]. Stracolma, la casa di Edna è sua stessa emanazione, e ‘vive’ solo attraverso la memoria degli oggetti che custodisce, come rivela l’anziana stessa alla nipote: «Da quando tuo nonno se n’è andato questa casa sembra diversa: più grande, se vuoi. È l’unica cosa che mi rimane… Ci sono i miei ricordi». In questo senso è la casa – e Edna di conseguenza – a ricoprire la funzione di una vera e propria reliquia: ora che l’anziana è sola le restano solo i ricordi, distorti tuttavia dalla demenza senile. Anche in questo caso vengono impiegate alcune «strategie convenzionali delle storie di fantasmi» (Wisker 2016, p. 216), come incubi rivelatori, rumori inspiegabili che provengono dalle pareti, un’inquietante muffa che contamina l’ambiente e, lungo la prima metà del film, «un’atmosfera di terrore opprimente e non identificabile» (Wisker 2016, p. 216). Se nel caso precedente la stanza in cui si concentrava il nucleo degli eventi soprannaturali era lo scantinato, qui è senza dubbio il ripostiglio a svolgere questa funzione. Non a caso, si tratta del luogo comunemente adibito ad ospitare gli oggetti che non vengono usati quotidianamente, per poi essere accumulati e dimenticati. Il ripostiglio, carico di scatoloni e di post-it, non solo rappresenta alla perfezione la paura di Edna di essere abbandonata dai suoi cari, ma diventa anche la materializzazione della sua mente ormai confusa e tormentata. Il ripostiglio è anche al centro del climax finale in cui, in una sequenza angosciante e dal fortissimo impatto visivo, Kay e Sam scoprono dell’esistenza di una casa parallela, a cui si accede proprio dallo sgabuzzino. La copia maligna della casa di Edna riprende quella originale ma, contestualmente, riporta tutti i segni di una stortura – è buia, ammuffita, zeppa di scatoloni ricolmi di cianfrusaglie – ma soprattutto, riprendendo nel modo migliore l’archetipo del «brutto posto», è senziente e capace di modificare la propria struttura architettonica per ingabbiare le protagoniste [fig. 7]. Con le pareti che si restringono, le porte che non conducono a nessun luogo e la deformazione aberrante di ambienti conosciuti e familiari, la casa parallela si configura come un luogo della memoria distorto e spaventoso: la concretizzazione della solitudine di Edna e del suo timore di morire abbandonata dalla famiglia.
In Relic il finale è ugualmente positivo, seppure dolceamaro: Kay sceglie di non fuggire dalla casa materna e di accudire Edna durante il raccapricciante deterioramento del suo corpo, in una scena esplicitamente body horror. Sam, ugualmente, si stende sul letto vicino alle due donne con la consapevolezza che ciò che sta capitando alla nonna si ripeterà anche con la madre [fig. 8].
Per concludere, entrambi i film si configurano come casi esemplari di gotico femminile contemporaneo. Come nell’opera di Shirley Jackson, lo spazio domestico non viene utilizzato come semplice ambientazione ma risulta, anzi, strettamente connesso all’inconscio delle protagoniste. Allo stesso modo, seguendo quella specifica tradizione di ghost stories di cui si è parlato, gli elementi orrorifici non si limitano a essere una metafora del turbamento psichico delle protagoniste: le manifestazioni paranormali sono tangibili poiché «lo spazio gotico femminile è intrinsecamente sia soprannaturale sia psicologico» (Barton 2020, p. 16). The Babadook e Relic dimostrano come l’estetica e i canoni dell’horror possano essere impiegati per dare vita a una «narrazione profondamente complessa e commovente del lutto, del dolore, della cura e dell’elaborazione» (Pisters 2020, pp. 140-141). Entrambi tematizzano in modo personale paure ataviche e universali: il terrore di non essere una buona madre e, viceversa, quello di non essere amato dalla propria madre; il venire a patti con la malattia e la perdita di un genitore anziano e la paura, in età matura, di essere dimenticato dai propri cari. È significativo che anche i finali seguano la medesima tendenza e che si prospettino principalmente come positivi: votati entrambi al superamento di un trauma e all’accettazione del dolore, sembrano voler mettere in luce, attraverso le azioni delle protagoniste, il valore inestimabile della relazione.
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