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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Il testo teatrale La voix humaine (1930) di Jean Cocteau è un atto unico con un solo personaggio femminile parlante al telefono rinchiusa tra le pareti domestiche. L’opera è un monologo disperato di una donna che parla con l’uomo che la sta abbandonando, ovvero un dialogo simulato in cui il pubblico partendo dalle parole di lei deve immaginare le parole e l’essenza di lui. Il testo è stato ed è ancora oggi uno degli spettacoli più rappresentati e più volte oggetto di riscrittura e adattamento. Nell’introduzione Cocteau definisce il progetto come risposta alle lamentele da parte delle attrici che le sue opere erano troppo dominate dallo scrittore/regista, non lasciando spazio per dimostrare la capacità artistica di chi recita. Col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione, la grande prova attoriale per tante grandi interpreti che volevano dimostrare la propria bravura tramite le tante sfumature offerte da un testo puntato sugli aspetti dolorosi dell’amore. In questo saggio prendo in considerazione tre adattamenti cinematografici di La voix humaine che mettono alla prova tre grandissime attrici, partendo dal film di Rossellini con Anna Magnani, passando dall’adattamento di Edoardo Ponti con la madre Sophia Loren, fino ad arrivare alla versione recentissima di Almodovar con Tilda Swinton. In modi diversi e sovversivi, le trasposizioni cinematografiche indagano e sfruttano l’originale, amplificano il tempo e lo spazio spoglio di Cocteau, focalizzando sulla complessità dell’autorappresentazione della protagonista e del suo rapporto con gli oggetti e con gli spazi domestici in cui vive: spazi di sofferenza e assenza ma anche di agency e dignità.

Jean Cocteau’s theatrical text La voix humaine (1930) is a one-act play featuring a sole female character speaking on the phone trapped within the confines of the domestic space. The work is a monologue or more precisely a simulated dialogue of a desperate woman speaking with her lover who is leaving her. From her words, the audience is meant to imagine the words and the essence of the man. Still today the text is a widely staged work, often rewritten and adapted for the stage and screen. In the introduction, Cocteau defines the project as a response to actresses’ complaints that his works were all too often dominated by the writer/director leaving little space for the display of the artistry of the actress. With the passage of time, the text has become practically a manual for acting, a great challenge for actresses who wanted to demonstrate their versatility thanks to the many nuances offered by a text focused on the painful aspects of love. In this essay, I look at three cinematic adaptations of La voix humaine that put three great actresses to the test: Rossellini’s early version featuring Anna Magnani, Edoardo Ponti’s version featuring his mother Sophia Loren, and most recently Pedro Almodovar’s version starring Tilda Swinton. In distinctive and subversive ways, the adaptations explore and exploit the original, expanding the time and space of Cocteau’s text and focusing on the complexity of the self-representation of the protagonist and of her relationship with the objects and the domestic space that she inhabits: spaces of sufferance and absence but also of agency and dignity.

Nell’introduzione al suo testo teatrale La voix humaine (1930), Jean Cocteau definisce il progetto come una risposta alle lamentele da parte di quelle attrici che lo avevano accusato di far risaltare, nelle sue opere, più la voce dello scrittore/regista che non la capacità artistica di chi recita. Il testo di Cocteau nasce quindi come un esperimento a partire da alcuni elementi basilari: è un atto unico, c’è un solo personaggio femminile in una camera da letto spoglia in cui spicca l’accessorio di ogni dramma moderno, il telefono, un’invenzione che ha cambiato definitivamente il modo di concepire e rappresentare le relazioni. Il monologo è un dialogo simulato in cui, tramite le parole della protagonista, dobbiamo immaginare le parole, le reazioni e il carattere di chi sta dall’altra parte della cornetta. Il dramma infatti consiste in una lunga telefonata, più volte interrotta, tra una donna che sta parlando al telefono – probabilmente per l’ultima volta – con l’uomo che la sta lasciando dopo un rapporto sentimentale durato cinque anni. Si tratta di uno spettacolo che è stato fatto più volte oggetto di riscrittura e adattamento, e col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione per tante grandi attrici che volevano dimostrare la propria bravura a partire da un testo basato sugli aspetti dolorosi della fine di un amore.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Il caso dell’attrice che scrive rientra senz’altro a pieno titolo nell’ampia e sfaccettata categoria del «doppio talento», che solo recentemente è stata presa in considerazione dalla critica letteraria nell’ambito degli studi di cultura visuale (Cometa 2014) anche se in relazione alle figure degli scrittori-artisti o degli artisti-scrittori. Provare ad applicare tale categoria all’eterogenea produzione letteraria firmata dalle attrici, per saggiarne in tal modo la fecondità ermeneutica, significa innanzi tutto interrogarsi sugli oggetti di studio implicati (produzioni doppie, filmiche e letterarie), sulle convergenze (o sulle divergenze) fra l’immagine attoriale rappresentata dall’autrice nella propria esperienza performativa e quella contenuta nel testo letterario, sui riverberi e sulla dimensione metatestuale che la scrittura produce rispetto allo stile recitativo e alla star persona. Per quanto, però, si provi a tradurre le tipologie individuate da Michele Cometa in riferimento agli scrittori-pittori («opere doppie», «concrescenza genetica», «critica e commento», Cometa 2014), la traslazione dalle arti figurative a quelle performative impone un adeguamento dello sguardo critico ad un codice più complesso e sfuggente. Non bisogna però desistere di fronte alla serie di questioni poste da tale nuova prospettiva: quali sono i media coinvolti dalla recitazione? Il corpo e/o la complessa macchina del dispositivo filmico? quali sono i confini della performance? Come è possibile comparare l’oggetto-libro, i cui limiti e materialità tangibile appare evidente con l’esperienza attoriale che risulta allo stato attuale degli acting studies di difficile definizione? (deduco alcune di queste domande dallo stimolante e problematico invito a «guardare il cinema dalla parte degli attori» da parte di Mariapaola Pierini, 2017). Del resto, le ricerche sul doppio talento si trovano in una fase germinale, e tuttavia impongono un’apertura interdisciplinare che costituisce la premessa urgente e imprescindibile per lo studio di artiste come Goliarda Sapienza o Elsa de' Giorgi, che hanno affiancato alla formazione e all’esperienza attoriale la vocazione letteraria e romanzesca, e le cui opere sono state fino ad ora ingiustamente trascurate anche per l’incapacità di comprendere e apprezzare la «doppia vocazione» (Cometa 2014) espressa dal loro anticanonico percorso artistico. Quel che è certo è che tracciare una prima mappa delle diverse modalità di interazione fra performance e scrittura, che tenti di inquadrare figure ed esperienze in cui si incontrano la recitazione e la letteratura (dalle apparizioni di Elsa Morante e Natalia Ginzburg nei film di Pier Paolo Pasolini al caso di Sapienza e de' Giorgi), è una sfida ardua e affascinante al tempo stesso. Il primo passo in tale direzione mi pare possa essere l’individuazione delle costanti che emergono dalla ricognizione nel contesto italiano dalla seconda metà del ‘900 agli anni zero. Se è indubbia una prevalente predilezione delle attrici per la scrittura dell’io, è interessante notare che i libri firmati dalle ‘stelle italiane’ disegnano una parabola che dalla narrazione autobiografica (Sophia Loren e Monica Vitti ma anche Moana Pozzi) giunge alla scrittura finzionale e al romanzo (Elsa de' Giorgi oltre Goliarda Sapienza), passando per le tappe intermedie delle ‘memorie delle personagge’, di testi cioè che mettono in racconto frammenti di vita di una figura creata dall’attrice (Franca Valeri, per esempio, ma anche Laura Betti). Per segnare le linee generali di una ‘cartografia dell’attrice che scrive’ provo qui a indentificare alcune categorie paradigmatiche, che mettano in risalto le convergenze di questo eterogeneo corpus di testi, senza tralasciare alcuni casi di studio particolarmente originali.

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