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«Tutto è santo», declama il saggio Chirone nella Medea di Euripide da cui è tratto l’omonimo film di Pier Paolo Pasolini (1969). Da questa battuta è stato derivato il titolo complessivo delle tre mostre Pier Paolo Pasolini. Tutto è santo, nate dalla collaborazione tra Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Barberini e MAXXI di Roma e visitabili da ottobre 2022 a febbraio 2023. Il titolo comune apre a tre diversi sottotitoli che affermano la centralità del corpo, rispettivamente Il corpo poetico, Il corpo veggente e Il corpo politico; per questo verrebbe da pensare che le mostre piuttosto ci dicano che ‘tutto è corpo’.

Sebbene le intenzioni della tripartizione siano chiare – la prima mostra è dedicata al Pasolini autore (letterario, cinematografico, teatrale), la seconda a Pasolini come artista figurativo e la terza alla sua figura di intellettuale militante –, si nutre l’impressione che i discorsi su Pasolini – e quindi anche sul suo corpo – siano impossibili da suddividere in aree tematiche nettamente distinte, e che una riflessione su un certo aspetto si insinui anche là dove non era prevista, ripresentandosi a tradimento in una esposizione piuttosto che in un’altra. Più utile sembra allora proporre un itinerario trasversale rispetto ai tre spazi espositivi, attraverso il quale affrontare alcuni dei materiali inediti e delle feconde questioni che emergono dalla mostra nel suo complesso: il corpo come ‘struttura organica’ e come ‘verbo’.

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Abstract: ITA | ENG

Nato dalla volontà di Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), del disegnatore Stefano Ricci e del contrabbassista Daniele Roccato di lavorare a un progetto comune, Madre ha debuttato nell’ottobre 2020 al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Al centro del poemetto scenico scritto da Marco Martinelli, un dittico per due voci che non si incontrano, che consumano nel soliloquio l’impossibilità di un dialogo: una madre precipitata dentro a un pozzo profondo e un figlio che non riesce o non vuole salvarla. Un cadere, un precipitare che ha come messo in crisi l’idea stessa di creazione e di generazione che la madre incarna. La scena diviene allora il luogo nel quale poter ripensare dal suo grado zero la modalità stessa di approcciarsi al mondo e al reale attraverso la capacità di mettersi in ascolto e in vera relazione con esso. Un ribaltamento di paradigma, come direbbe Roberto Barbanti: da quello distaccato e monodimensionale del retinico e dell’immaginario, a quello relazionale e polifonico dell’acustinario. Madre sembra essere, allora, proprio il campo d’azione di una simile sfida, nella quale tutti siamo chiamati a sostituire quel figlio incapace di sentire e a metterci in ascolto del mondo e della sua invocazione d’aiuto, prima che sia troppo tardi.

Arose from the will of Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), the illustrator Stefano Ricci and the double bass composer Daniele Roccato to work on a common project, Madre made its debut in October 2020 at the Primavera dei Teatri festival in Castrovillari. Core of Marco Martinelli’s scenic poem is a diptych for two voices that do not meet and consume in a soliloquy the impossibility of a dialogue: a mother fallen to the bottom of a deep well and a son who cannot or does not want to save her. A fall that has somehow put in crisis the very idea of creation and generation embodied by the mother. The scene becomes, this way, a place in which the very modality of approaching the world can be rethought from its ground zero, through the ability to listen to it and to be in true connection with it. As Roberto Barbanti would say, a real overturning of the paradigm: from the retinal one, that is detached and one-dimensional, to the acoustic one, which is relational and polyphonic. Madre therefore seems to be precisely the field of action of such a challenge, a field in which we are all called to replace that son unable to listen to the world’s cry for help, before it’s too late.

 1. «Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»: quel che viene prima

Nell’ottobre del 1995, a una manciata di settimane dalla sua morte, Heiner Müller riversa in parole le immagini di un proprio allucinato sogno notturno, dando vita al breve scritto che andrà sotto il titolo di Traumtexte. Nel sogno – e nel testo – Müller cammina faticosamente sullo stretto bordo di una gigantesca cisterna: da un lato la conca d’acqua in cui rischia di precipitare, dall’altro un’alta e impraticabile parete di cemento che lo separa dalla superficie e dal resto dell’umanità. Sulle spalle, dentro a una cesta di bambù, la sua bambina di due anni, motivo d’ulteriore intralcio e apprensione, così come la nebbia che nasconde alla vista ciò che si trova lassù, nel mondo lasciato in cima, oltre la parete. Una nebbia che, diradandosi e mostrandogli quella vita ormai negata e che seguita a scorrere senza di lui, aggraverà il suo smarrimento, la sua sensazione di definitivo abbandono e perdita. Di lì a poco, la caduta nell’acqua senza fondo dalla quale non riuscirà più a riemergere, un’angoscia che si acuirà al pensiero che la bambina possa venir fuori dalla cesta rimasta sul bordo della conca e tentare di raggiungerlo.

Ed è questo Traumtexte di Müller ad aver riunito il disegnatore Stefano Ricci, il contrabbassista Daniele Roccato e il Teatro delle Albe – nello specifico Marco Martinelli ed Ermanna Montanari – nel progetto comune di portarlo sulla scena. O, meglio, di renderlo scena possibile per luoghi non convenzionali, al di là da quelli specificamente teatrali. Scena per musei e spazi espositivi, soprattutto, in grado di conciliare la rigorosa ricerca vocale di Montanari, quella sulle possibilità sonore del contrabbasso di Roccato e la sperimentazione di Ricci sul disegno e le potenzialità dell’immagine in scena con l’esigenza di scomporsi e assottigliarsi al punto da poter raggiungere gli spettatori altrove – piuttosto che farsi raggiungere da essi solo in teatro. Proprio come un sogno che, nella sua urgenza, piombi addosso quando e dove meno lo si aspetta.

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  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

 

Come spostando pietre:

geme ogni giuntura! Riconosco

l’amore dal dolore

lungo tutto il corpo. […]

Vandalo in un’aureola

di vento! Riconosco

l’amore dallo strappo

delle più fedeli corde

vocali: ruggine, crudo sale

nella strettoia della gola.

Riconosco l’amore dal boato

dal trillo beato –

lungo tutto il corpo!

Marina Cvetaeva

 

Armonica, simmetrica, barocca, neoclassica, pura,

brillante, luccicante, in scarpe con i tacchi alti, erotica,

sconvolgente, nasona, culona, et voilà: Abramović!

Marina Abramović

 

Disegno su foglio. Due profili elementari si fronteggiano nello spazio vuoto della pagina bianca. Speculari e rovesciati in una simmetria proiettiva arbitraria: a connettere le loro labbra rosse, languidamente socchiuse, un fascio di raggi scuri (voce? Respiro? Luce? Materia?) che sembrano tendersi e fungere da interlinea per le parole che vi galleggiano al di sopra e al di sotto: «Vibrations of the single cell can make universe vibrating and expanding». [fig. 1] È questa la ‘risposta d’artista’ che la performer Marina Abramović fornisce qualche mese fa al settimanale Vanity Fair nelle pagine di un numero speciale diretto da Paolo Sorrentino, in cui il regista immagina un’ipotetica Fase 4 post-pandemia che possa costituire il secondo atto ri-mediatizzato di La grande bellezza (2013) – film in cui la figura di Abramović viene grottescamente evocata attraverso il personaggio della body artist, Talia Concept, nella scena ambientata all’acquedotto romano: la donna, completamente nuda e con il volto velato di bianco, corre a schiantarsi contro un muro, per poi rialzarsi dolorante e concludere la sua performance al grido di «Io non vi amo!». [fig. 2] Nella scena successiva, Jep Gambardella-Tony Servillo si reca a intervistare Talia nell’antro semioscuro della sua tenda d’artista e, annoiato dalla prosopopea autoreferenziale della sua interlocutrice (abituata a parlare di sé in terza persona), le chiede cosa intende dire quando afferma di vivere di vibrazioni extrasensoriali, mandandola completamente in crisi: la sua tragicomica disfatta si consuma in una serie impietosa di primi piani – il luogo privilegiato della malinconia applicata al femminile nel cinema di Paolo Sorrentino (Tognolotti 2019, pp. 47-48) – che ce la riconsegnano in una cornice di estrema mestizia, come maschera lacrimosa compresa tra un buffo zuccotto di lana rossa e gli spasmi buccali da fumatrice compulsiva. «Non lo so che cos’è una vibrazione, Jep Gambardella, non lo so! Sei un ossessivo del cazzo!», conclude con la voce strozzata di pianto.

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  • Arabeschi n. 15→

Ne La delicatezza del poco e del niente Roberto Latini legge una selezione di poesie di Mariangela Gualtieri, lasciando che queste scorrano una dopo l'altra, in una sequenza articolata in voce, suoni e respiri. Su un palco minuscolo, al centro di una scena nuda, l'attore vestito di bianco sta solo con il leggio, le aste e i due microfoni dentro una chiazza di luce. Così in un'essenzialità che odora di sacro, di antico, ma anche di accoglienza e di partecipazione, si snodano i singoli testi provenienti da diverse raccolte, come se si trattasse di un'unica poesia.

La limitatezza dello spazio impone un confine dello sguardo, ed è da questo luogo ristretto, controllabile in quanto fatto di margini materiali, che la poesia di Mariangela Gualtieri si smargina nella voce di Roberto Latini e nel paesaggio sonoro costruito da Gianluca Misiti, mentre la semplicità del disegno luci di Max Mugnai rimanda all'essenza primaria del teatro, ovvero al corpo dell'attore che in purezza si offre allo sguardo altrui.

L'inizio con il Monologo del Non so (da Parsifal) immette su una strada maestra che è quella del legame fortissimo della parola con il teatro, attraverso il personaggio che si presenta alla scena e dice 'io', sebbene sia sempre un io che afferma di non sapere, di non capire. Nel dichiarare i propri limiti, l'attore apre un dialogo con lo spettatore, dichiara di sapere poco, ma quel 'poco' lo rivolge ad un altro che ascolta, lo porge come un atto e una richiesta di comunicazione. Più ci si abbandona all'ascolto, lasciandosi guidare dal suono e non dal senso delle parole, più la strada maestra si biforca in sentieri diversi, percorsi possibili in cui l'io di Parsifal diventa il 'voi' del Sermone ai cuccioli della mia specie, assieme predica e preghiera, adorazione e implorazione rivolta agli adulti che siamo e ai bambini che un tempo siamo stati. Il contrasto è molto forte, soprattutto per chi conosce la versione audio pubblicata dal Teatro Valdoca nel 2012; la voce della poetessa che nel Sermone guarda 'da una quasi nausea' il mondo dei grandi e prova pietà, nel timbro maschile di Latini si nutre di nuovi slittamenti di persona, di genere, di numero. Gli aggettivi al femminile come 'piccola' e 'lontanissima' restano credibili e rinnovano, nella loro indicazione di un tempo e di uno spazio che appartengono all'indeterminatezza dell'infanzia, il ricordo di quando ognuno di noi, prima di diventare una persona grande, dal buio provava ad allontanare la paura recitando parole magiche, inventando la propria 'formula che salva'.

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Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951) incarna una delle figure più interessanti e affascinanti di poetessa, drammaturga e attrice. La sua avventura artistica è legata a doppio filo a quella di Cesare Ronconi: insieme a lui, dopo la laurea in Architettura conseguita da entrambi allo IUAV di Venezia, fonda nel 1983 la compagnia Teatro Valdoca, che ancora oggi si conferma tra le esperienze più avanguardistiche e peculiari della scena internazionale.

Fin dall’inizio Ronconi ha esplorato il ruolo della regia secondo una rigorosa linea pedagogica, con cui ha guidato (e continua a guidare) i numerosi attori che in tutti questi anni sono passati dalle produzioni della Valdoca. Gualtieri, invece, scopre la sua vocazione poetica e drammaturgica soltanto dopo i primi tempi in cui prende parte agli spettacoli come attrice. Il primo lavoro della compagnia, Lo spazio della quiete (1983), è un’opera che già contiene in sé la tensione creativa che alimenterà la ricerca della compagnia. Si tratta di uno spettacolo privo di una drammaturgia verbale e segnato dall’interazione tra i linguaggi della danza, della performance e del teatro inseriti in un’atmosfera visiva lontana da forme di rappresentazione realistica dell’esistenza umana.

Nel successivo Atlante dei misteri dolorosi (1986) l’elemento verbale si palesa tramite i versi poetici di Paul Celan, Eschilo e Milo De Angelis. Proprio l’incontro dal vivo con quest’ultimo fa nascere all’interno della Valdoca una Scuola di Poesia attraverso la quale la Gualtieri ha l’occasione non solo di confrontarsi con alcune delle più importanti voci poetiche di quel periodo, quali Fortini, Luzi, Bigongiari, Loi, Rosselli e Merini, ma anche di sperimentare la scrittura poetica.

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Noosfera Lucignolo (2007) è la prima delle quattro parti che compongono il progetto Programma Noosfera di Roberto Latini: quattro performance che tentano di esplorare, attraverso i mezzi del linguaggio teatrale contemporaneo di Latini, quella sfera immaginaria che comprende l’intera coscienza collettiva e il frutto del pensiero umano, che Pierre Teilhard de Chardin definì appunto noosfera. Latini afferma che Noosfera Lucignolo diviene «riflessione sulla rappresentabilità dei testi e sui processi per la rappresentazione», quindi il presente saggio tenta di gettare uno sguardo sul modo in cui questa prima fase del Programma Noosfera trasforma il personaggio di Lucignolo in una sorta di campo di forze nel quale l’io, il linguaggio, la coscienza, la cultura e il teatro stesso attendono che arrivi la notte per tentare l’affondamento definitivo nell’oceano dell’indicibile e dell’irrappresentabile.

Noosfera Lucignolo (2007) is the first of the four parts that form Roberto Latini’s project Programma Noosfera: four performances that try to explore, by the means of Latini’s contemporary theatrical language, that imaginary sphere which comprehends the whole collective consciousness and the figment of the human thought, that Pierre Teilhard de Chardin called noosfera indeed. Latini says that Noosfera Lucignolo becomes a «reflection about the representability of texts and processes of representation», so this essay try to observe the way this first step of Programma Noosfera transforms the character Lucignolo in a sort of force field in which the self, language, consciousness, culture and theater itself wait for the night to come to definitively sink in the ocean of unspeakable and irrepresentable.

 

 

Pinocchio voleva partire «domani all’alba»: che era partenza impetuosa, liberatrice, per fare «la vita del vagabondo»; Lucignolo si sottrae alla «città» in una mezzanotte sommessa e furtiva, e va ad «abitare» in quel mirabile «lontano». C’era protervia in Pinocchio, c’è un’ombra di disperazione in Lucignolo.

Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo

 

 

Romeo è un nome che, nell’etimo, riporta alla figura del pellegrino, dunque a colui che lascia tutto, si sottrae alla città, al quotidiano, alla civiltà, per partire verso un luogo idealizzato come sacro, verso un altrove capace di imprimere una sterzata a un presente vissuto come limite, come condizione da superare. Romeo nell’etimo significa pellegrino e, sempre nell’etimo, pellegrino è colui che sceglie di farsi straniero, il forestiero che va ‘per gli altrui paesi’ in vista di un più o meno cosciente e consapevole miglioramento della propria vita, legato più alla sfera spirituale o esistenziale che a quella pratica e materiale. E Romeo è il vero nome, nel Pinocchio di Collodi, del ragazzino conosciuto da tutti come Lucignolo, soprannome affibbiatogli a causa del suo aspetto «asciutto, secco e allampanato, tale e quale come un lucignolo nuovo di un lumino da notte».[1]

Lucignolo, Romeo, è anche colui che Roberto Latini (una delle figure cardine del teatro italiano contemporaneo) sceglie nel 2010 per inaugurare un progetto in quattro fasi che mira a indagare, attraverso il linguaggio teatrale, quattro possibili frammenti chiave della cosiddetta Ê»noosferaʼ. Tale termine è utilizzato dal pensatore mistico Pierre Teilhard de Chardin per designare una sorta di ‘coscienza collettiva’ o ‘coscienza universale’ degli esseri umani, generatasi grazie all’avvento del pensiero e della capacità umana della riflessione, a seguito dello sviluppo del mondo inorganico (geosfera) e di quello organico (biosfera).[2] Quasi fosse un luogo, una rete che collega e comprende tutti i fenomeni del pensiero e dell’intelligenza, dando vita a una sorta di sfera capace di contenere simultaneamente lo scibile umano e il modo in cui questo si è sedimentato nelle coscienze, nell’immaginario, nel subconscio collettivo, modificandolo e ricostituendolo in un costante lavorio.

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D: Come nasce l’idea di dedicare un film a Nada?

R: Il punto d’origine del documentario Il mio cuore umano è stata la partecipazione alla presentazione dell’omonimo romanzo di Nada alla Feltrinelli di Roma, alla quale ricordo partecipò anche Monicelli – con cui ebbi modo di parlare a lungo del mio film L’isola...

In quell’occasione scattò subito il desiderio di raccontare quello che possiamo definire ‘il buco nero’ della biografia di Nada, cioè il nodo della sua infanzia. Il libro di Nada, infatti, racconta un’epoca lontana: Nada bambina in Maremma tra genitori semplici e contadini, suore affettuose e zie petulanti, viali assolati e lunghe camminate nei campi bui per sfidare la paura. E poi un tarlo, una ferita aperta: la madre malata di depressione che nei momenti in cui stava bene voleva a tutti costi che la figlia valorizzasse la voce potente facendole frequentare un maestro di canto, che nei ricordi di Nada, naturalmente, era segaligno e antipatico. Il racconto finisce su un treno, lo stesso che portò Nada bambina a diventare diva inconsapevole, pronta ad attraversare i tempi e le epoche della canzone italiana con la forza della propria incoscienza.

Leggendo il libro ho subito capito che mi sarei divertita a trovare i percorsi visivi e sonori per il ‘suo’ cuore umano. Dopo averla incontrata ed essere riuscita a conquistare la sua fiducia, ho scritto un canovaccio già diviso in tre parti, che lasciava intravedere la struttura narrativa che il film di lì a poco avrebbe assunto. La narrazione procede infatti per canzoni e intreccia le tre età di Nada. Racconto Nada oggi alla luce della bambina che fu, rivivendo con lei suggestioni e ricordi.

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87 parole distribuite in dieci enunciati che esprimono in un moto oscillatorio l’errare senza meta da interno a esterno, da sé a non sé, da luce a ombra per arrivare a una «dimora indicibile» che dice tutto e niente. Questo il ‘libretto’ di Neither che Samuel Beckett scrisse nel 1976 su richiesta del compositore Morton Feldman per una nuova ‘anti-opera’ senza trama, scenografia, protagonisti, ma neppure parole.

Il testo di Beckett, infatti, affidato agli acuti vocalizzi di una voce sopranile, non è intellegibile: la parola viene negata al canto, divenuto qui mera sostanza sonora inserita in un tessuto orchestrale che si declina in varianti paratattiche che si ripetono senza possibilità di sviluppo. Una musica sempre al limite di dire o tacere, ma che in definitiva né dice né tace. Né l’uno né l’altro.

Neither va in scena per la prima volta a Roma nel 1977 e sebbene si tratti di una composizione atipica e di difficile fruizione è stata oggetto di una recente riproposta nell’ambito di festival dedicati alla musica contemporanea; prima al Festival d’Automne di Parigi nel 2007, ora alla Ruhrtriennale.

Romeo Castellucci firma una nuova produzione scenica destinata all’affascinante Jahrunderthalle, la monumentale ex acciaieria di Bochum che con le sue arcate di vetro e metallo ha l’impatto di una cattedrale postindustriale. Castellucci sfrutta le potenzialità dell’ambiente illuminandolo dall’alto con fasci di luce lattigginosa che esaltano la verticalità dello spazio e delle serie musicali creando l’atmosfera di un nonluogo.

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La stagione cinematografica si è aperta nel segno della letteratura con due film dedicati a Pasolini e Leopardi, che tanto hanno fatto discutere data la peculiarità dei personaggi e il punto di vista attraverso cui la loro opera (e il loro destino) vengono raccontati. A distanza di qualche mese, ma ancora nel vivo del dibattito, dedichiamo ai film di Ferrara e Martone una serie di zoom nel tentativo di ‘distillare’ la temperatura emotiva e le direzioni di sguardo di due opere controverse ed espressive.

 

Scoppia la voce della Callas (l’aria di Rosina, dal Barbiere: «Una voce poco fa») e sale, su nel cielo piombo, sale sopra il cadavere, sul fango, sul sangue, sugli stracci. Pasolini è morto. Abel Ferrara decide di riscattare l’atrocità del cadavere con la voce della Callas. E forse conosce i versi meravigliosi di Trasumanar: «La lietezza esplode / contro quei vetri sul buio / Ma tale lietezza, che ti fa cantare in voce / è un ritorno dalla morte». Così quella morte sembra avvolta da molteplice pietas femminile: Callas, fuori, la cugina Graziella, la madre Susanna, l’amica Laura in casa. Quella voce della Callas potrebbe riscattare la morte. Sale nel cielo. Non capiamo bene il perché dell’aria di Rosina: casualità? allusività («lo giurai, la vincerò!»)?, ma quel che importa è la voce: c’è la voce della Callas, non c’è, nel film, la voce di Pasolini. Ci manca. Era forse inevitabile: sarebbe stato caricaturale, fasullo, kitsch, riprodurre quella voce un po’ strozzata, dolce, educatissima, con il lieve accento emiliano. Dafoe parla con un’altra voce. E qui Pasolini ‘ci’ manca. Ma non basta la voce della Callas per confortare gli amabili resti. Segue poi l’inquadratura azzurra del cielo dell’EUR, il palazzo fascista, la statua virile dello Stadio (già comparsa all’inizio del film). Uno squarcio di azzurro nel buio piombo dell’ultima notte e dell’alba successiva. Il cielo azzurro e le nuvole. Come Totò e Ninetto, che vedono le nuvole nel cielo, capitombolati nei rifiuti (Che cosa sono le nuvole?) e scoprono la «ineguagliabile bellezza del creato». Le nuvole e il cielo, guardati però da terra, in mezzo ai rifiuti, nella discarica: e così Ferrara fa vedere il cielo (a noi spettatori) mentre il cadavere di Pasolini, rivolto a terra, il braccio di traverso sul petto, non può vederlo. Cielo azzurro, marmo bianco, EUR: cioè fascismo. In un gioco perverso, il regista lega insieme virilità e luce. Come a dire che anche Pasolini (e in effetti fu così) si era confrontato col fascismo, lo aveva vissuto, attraversato, riassunto nell’ultimo anno di vita come metafora del Nuovo Potere (Salò).

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