6.1. Abramović, o l’incantesimo della voce

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Come spostando pietre:

geme ogni giuntura! Riconosco

l’amore dal dolore

lungo tutto il corpo. […]

Vandalo in un’aureola

di vento! Riconosco

l’amore dallo strappo

delle più fedeli corde

vocali: ruggine, crudo sale

nella strettoia della gola.

Riconosco l’amore dal boato

dal trillo beato –

lungo tutto il corpo!

Marina Cvetaeva

 

Armonica, simmetrica, barocca, neoclassica, pura,

brillante, luccicante, in scarpe con i tacchi alti, erotica,

sconvolgente, nasona, culona, et voilà: Abramović!

Marina Abramović

 

Disegno su foglio. Due profili elementari si fronteggiano nello spazio vuoto della pagina bianca. Speculari e rovesciati in una simmetria proiettiva arbitraria: a connettere le loro labbra rosse, languidamente socchiuse, un fascio di raggi scuri (voce? Respiro? Luce? Materia?) che sembrano tendersi e fungere da interlinea per le parole che vi galleggiano al di sopra e al di sotto: «Vibrations of the single cell can make universe vibrating and expanding». [fig. 1] È questa la ‘risposta d’artista’ che la performer Marina Abramović fornisce qualche mese fa al settimanale Vanity Fair nelle pagine di un numero speciale diretto da Paolo Sorrentino, in cui il regista immagina un’ipotetica Fase 4 post-pandemia che possa costituire il secondo atto ri-mediatizzato di La grande bellezza (2013) – film in cui la figura di Abramović viene grottescamente evocata attraverso il personaggio della body artist, Talia Concept, nella scena ambientata all’acquedotto romano: la donna, completamente nuda e con il volto velato di bianco, corre a schiantarsi contro un muro, per poi rialzarsi dolorante e concludere la sua performance al grido di «Io non vi amo!». [fig. 2] Nella scena successiva, Jep Gambardella-Tony Servillo si reca a intervistare Talia nell’antro semioscuro della sua tenda d’artista e, annoiato dalla prosopopea autoreferenziale della sua interlocutrice (abituata a parlare di sé in terza persona), le chiede cosa intende dire quando afferma di vivere di vibrazioni extrasensoriali, mandandola completamente in crisi: la sua tragicomica disfatta si consuma in una serie impietosa di primi piani – il luogo privilegiato della malinconia applicata al femminile nel cinema di Paolo Sorrentino (Tognolotti 2019, pp. 47-48) – che ce la riconsegnano in una cornice di estrema mestizia, come maschera lacrimosa compresa tra un buffo zuccotto di lana rossa e gli spasmi buccali da fumatrice compulsiva. «Non lo so che cos’è una vibrazione, Jep Gambardella, non lo so! Sei un ossessivo del cazzo!», conclude con la voce strozzata di pianto.

E, dunque, sette anni dopo quella caricatura irriverente, ci piace credere che Sorrentino decida di espiare le sue colpe d’autore interpellando Abramović in persona e chiedendole di rispondere alla fatidica domanda sulla vibrazione. Nel farlo l’artista serbo-montenegrina si trova ‘ancora una volta’ a valicare i confini di un contesto mediale diverso (di certo, a lei non estraneo), transitando idealmente da una tipologia di schermo a un’altra, (ri)presentificandosi attraverso un disegno che richiama alcune sue celebri performance del passato – ad esempio, Rhythm 4 (1974), Freeing the Voice (1975) e AAA-AAA (1978) – in cui, per certi versi, viene dato particolare rilievo all’aspetto della voce. Voce come passaggio fisico, veicolo metamorfico in grado di connettere regioni limitrofe altrimenti non comunicanti, salto energetico tra livelli di senso, di spazio e di tempo, ponte tra presenza e assenza (ma anche tra interno ed esterno, materiale e immateriale, presente e passato),espressione primordiale,incantesimo materico,catarsi liberatoria, sconfinamento identitario, superamento dei limiti.

 

Ancora oggi mi risultano insopportabili le persone che alzano la voce per la rabbia. Quando qualcuno lo fa, rimango completamente paralizzata. È come se mi iniettassero qualcosa: non riesco a muovermi. È una reazione automatica. Anche a me capita di arrabbiarmi, ma ce ne vuole prima che cominci a gridare. Occorre un’incredibile quantità di energia. A volte grido durante le mie performance. È un modo di esorcizzare i demoni. Ma è un’altra cosa rispetto a gridare contro qualcuno (Abramović 2016, p. 32).

 

Questa testimonianza comprova che, al di là delle implicazioni relative al pensiero artistico di Abramović, su cui torneremo a breve, la questione della voce – da intendersi soprattutto come estenuante processo di ricerca interconnesso all’impulso autobiografico – pertiene in maniera significativa al vissuto di Marina e alla sua femminilità multiforme, complessa, stratificata, (melo)drammatica, al fondo inclassificabile. Le urla a cui fa riferimento sono quelle dei suoi genitori, Vojin e Danica, agli occhi della società decorati eroi di guerra – cui il maresciallo Tito offre incarichi istituzionali prestigiosi – e nel privato coniugi bellicosi, perennemente coinvolti in litigi furibondi, provocati da odio e crisi di gelosia,che segnano profondamente l’infanzia e l’adolescenza della piccola, ‘goffa e infelice’ Marina, minandone il tessuto nervoso. In particolare, il rapporto con la madre – la cui indole marziale si manifesta in un’inguaribile ossessione per la disciplina, l’ordine e la ‘simmetria’– si rivela problematico fin dalla nascita, a causa del nome scelto dal marito per la figlia in ricordo di un suo antico amore (una soldatessa russa dilaniata da una granata davanti ai suoi occhi). Marina è il nome dell’‘altra’, di una donna morta, fatta a pezzi, ma anche della poetessa Cvetaeva (suicida), il cui carteggio triangolare con Rilke e Pasternak infiamma di passione la Abramović quindicenne. Il mondo le ha destinato un nome poco ‘anonimo’, incorporandola in una catena identitaria tragicamente eclatante – fatta di tante Marine (almeno tre solo dentro di lei, la ‘guerriera’, la ‘spirituale’ e ‘l’incasinata’) e un numero imprecisato di figure femminili significative, tra cui la madre, la nonna e, addirittura, Maria Callas –, mentre lei avrebbe bisogno di guadagnare una propria neutralità per proteggere se stessa e ripartire da zero, dalla propria voce. [fig. 3] ‘Che cosa è successo’, in seguito, alla spilungona silenziosa, vittima di misteriose emorragie e di potentissime emicranie, stipata in un’armatura precaria di sei-sette gonne (per ottenere l’effetto à la page della ‘sottogonna’ considerata fin troppo superflua dalla rigorosa socialista Danica) cui si aggiungevano le orrende scarpe ortopediche di pelle gialla, con rinforzo metallico a mo’ di ferro di cavallo, deputate alla correzione dei suoi piedi piatti?! Semplicemente, racconta, è ‘successa l’arte’. È l’arte a consentirle di cambiare pelle – non a caso, il serpente diventa per lei una sorta di presenza totemica rintracciabile in resoconti onirici, aneddoti di vita e come elemento all’interno delle performance – e di apporre una nuova firma sul quel mondo opprimente, pieno di divieti e di muri: un’enorme MARINA vergato in blu con cui autografa i suoi quadri all’accademia delle belle arti di Belgrado. Di lì a poco però abbandona la dimensione bidimensionale della tela con l’idea di fare del corpo (e dei suoi limiti, a cavallo tra reale e virtuale, tra paura e dolore) lo strumento principale della propria arte, assaporando in più di quarant’anni di attività,grazie alle sue celebri performance,una sensazione di libertà completamente sconosciuta,fino ad approdare a una modalità di racconto del sé che intreccia il teatro e le atmosfere di genere (dall’opera comica al melodramma) – Biography (1992), The life and death of Marina Abramović (2012) di Bob Wilson e l’ultimo Seven Deaths of Maria Callas (2020).[figg. 4-5]

 

Abramović comprendeva in maniera istintiva la forza e le allettanti potenzialità della Body Art. era un modo di concretizzare i processi mentali dell’Arte Concettuale che all’epoca dominava l’avanguardia, […] di caricare dei meri concetti della valenza fisica e mentale del sangue, del sudore e della paura. La performance andava oltre la teoria per sfociare nel campo dell’esperienza, diventando dolorosamente reale sia per gli artisti sia per il pubblico. Attraverso la presentazione di pericoli e sofferenze autentici, quest’ultimo si ritrovava di fronte a sfide etiche insolite. La Performance Art era uno strumento dai molteplici usi: un modo per mettere in scena traumi autobiografici o l’alienazione sociale o politica, raggiungere l’estasi e imporre la catarsi, il tutto senza ricorrere all’oggetto artistico tradizionale che poteva essere trasformato in un bene commerciale. Per Abramović la performance era soprattutto una via per accedere – ripetutamente a uno stato di coscienza più lucido. Le sue azioni erano traumi costruiti che fungevano da prove di morte e nello stesso tempo la facevano sentire molto più viva (Westcott 2011, pp. 87-88).

 

Volendo attenerci al discorso da cui siamo partiti, e quindi al coté ‘voce’, il disegno creato per Vanity Fair nel seguito della controversia cinematografica sulla vibrazione, sembra riproporre graficamente l’essenza strutturale di AAA-AAA, azione presentata per la prima volta in uno studio televisivo a Liegi e poi registrata ad Amsterdam (in entrambi i casi il pubblico non era presente) con lo storico compagno e partner artistico Ulay (il tedesco Frank Uwe Laysiepen) – il suo ‘gemello siamese’, con il quale vive negli anni un’intensissima simbiosi fisica e spirituale, creando un’unica personalità fusionale ribattezzata ‘Supercolla’, il frutto della perfetta simmetria tra maschile e femminile, una terza entità/esistenza in grado di generare energia vitale, il That Self (Abramović 2016, p. 131). La performance riformula in chiave duale alcuni lavori precedenti di Marina singola: [fig. 6] Rhythm 4 – in cui l’artista inspira fino a perdere i sensi il getto d’aria emesso da un ventilatore industriale sperimentando l’effetto invasivo di quella che si potrebbe definire una voce al contrario, una sorta di ‘anti-voce’ che proviene dall’esterno – e Freeing the Voice, che vede Marina sdraiata su un materasso, con la testa che penzola di lato, nell’atto di urlare fino a perdere completamente la voce. Il suo (capo)volto è l’effige dolorosa di tutta la frustrazione accumulata da ragazza:

 

L’azione processuale messa in atto per «liberare» la voce fa sì che tutto il corpo tenda verso una forma di liberazione, per quanto drammatica e dolorosa. Le corde vocali nel corso dello sforzo si rovinano, mentre la mente si svuota e perde energia. È interessante che Abramović non faccia alcun riferimento al corpo del pubblico o al medium-corpo a cui cede la propria voce dopo che il corpo-artista se ne è liberato. L’immagine sembra quindi avere una validità indipendente dal tempo dell’azione svolta nel presente ed essere l’unica reale, e al contempo virtuale, depositaria di quella materia/energia creata e liberata nel corso della performance e sottolineata da quel posizionarsi al rovescio del volto che scompagina l’idea e il ruolo dello sguardo spettatoriale tradizionale (Di Brino 2019, p. 135).

 

In AAA-AAA l’uomo e la donna sono inginocchiati l’uno di fronte all’altra e si urlano vicendevolmente dei suoni in bocca fino a perdere la voce: «Il tono iniziale è pacato. Il suono sembra quasi un respiro, ma nel corso della performance si trasforma gradualmente, accumula aggressività e alla fine, urlato a pieni polmoni, spossa i loro corpi determinandone l’uscita di scena uno dopo l’altro» (Di Brino 2019, p. 135). [figg. 7-8] L’emissione sonora muta con lo scorrere dei minuti, perdendo i connotati rassicuranti della primissima impostazione vocalica; ciò che fuoriesce dai loro corpi è già ‘altro’, una vibrazione sconosciuta, un gemito atavico, primordiale, che si espande verso l’esterno, scatenando le energie compresse di due corpi alla ricerca disperata di un contatto, di una ‘collisione’, di un dialogo di energie. E i loro volti, (tra)sfigurati dalla fatica, portano iscritti sulla pelle i segni di una sofferenza latente, come un luminoso palinsesto che a sua volta si rapprende sullo schermo del video in una polifonia fotogenica che finisce per includere l’osservatore in quella particolare dimensione di estasi. Tutto diventa vibrante, tutto risuona. In questo senso, ‘le vibrazioni della singola cellula possono fare vibrare ed espandere l’universo’:

 

[…] nella performance di Marina e Ulay la pelle del viso in primo piano, dilatata nello sforzo dell’urlo, segnata e quasi squarciata dall’emozione, diviene simile alle linee di un paesaggio che rivela all’improvviso il proprio volto; entrambi, il volto e lo schermo, sono allora superfici senzienti, super facies, ovvero facce esterne che separano e al contempo mettono in contatto (Tognolotti 2019, p. 130).

 

 

Bibliografia

M. Abramović, Attraversare i muri. Un’autobiografia, Milano, Bompiani, 2016.

M. Abramović, ‘Risposta d’artista’, Vanity Fair, nn. 20-21, 3 giugno 2020.

A. Di Brino, C. Tognolotti, Marina Abramović, The Cleaner, Arabeschi, 14, luglio-dicembre, 2019a, pp. 129-138 <http://www.arabeschi.it/marinaabramovi-the-cleaner-/> [accessed 31.08.2020].

C. Tognolotti, Malinconie. Volti di donne in primo piano, in A. Sainati (a cura di), Vero, falso, reale. Il cinema di Paolo Sorrentino, Pisa, ETS, 2019b, pp. 47-52.

J. Westcott, Quando Marina Abramović morirà, Milano, Johan&Levi, 2011.