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Come spostando pietre:

geme ogni giuntura! Riconosco

l’amore dal dolore

lungo tutto il corpo. […]

Vandalo in un’aureola

di vento! Riconosco

l’amore dallo strappo

delle più fedeli corde

vocali: ruggine, crudo sale

nella strettoia della gola.

Riconosco l’amore dal boato

dal trillo beato –

lungo tutto il corpo!

Marina Cvetaeva

 

Armonica, simmetrica, barocca, neoclassica, pura,

brillante, luccicante, in scarpe con i tacchi alti, erotica,

sconvolgente, nasona, culona, et voilà: Abramović!

Marina Abramović

 

Disegno su foglio. Due profili elementari si fronteggiano nello spazio vuoto della pagina bianca. Speculari e rovesciati in una simmetria proiettiva arbitraria: a connettere le loro labbra rosse, languidamente socchiuse, un fascio di raggi scuri (voce? Respiro? Luce? Materia?) che sembrano tendersi e fungere da interlinea per le parole che vi galleggiano al di sopra e al di sotto: «Vibrations of the single cell can make universe vibrating and expanding». [fig. 1] È questa la ‘risposta d’artista’ che la performer Marina Abramović fornisce qualche mese fa al settimanale Vanity Fair nelle pagine di un numero speciale diretto da Paolo Sorrentino, in cui il regista immagina un’ipotetica Fase 4 post-pandemia che possa costituire il secondo atto ri-mediatizzato di La grande bellezza (2013) – film in cui la figura di Abramović viene grottescamente evocata attraverso il personaggio della body artist, Talia Concept, nella scena ambientata all’acquedotto romano: la donna, completamente nuda e con il volto velato di bianco, corre a schiantarsi contro un muro, per poi rialzarsi dolorante e concludere la sua performance al grido di «Io non vi amo!». [fig. 2] Nella scena successiva, Jep Gambardella-Tony Servillo si reca a intervistare Talia nell’antro semioscuro della sua tenda d’artista e, annoiato dalla prosopopea autoreferenziale della sua interlocutrice (abituata a parlare di sé in terza persona), le chiede cosa intende dire quando afferma di vivere di vibrazioni extrasensoriali, mandandola completamente in crisi: la sua tragicomica disfatta si consuma in una serie impietosa di primi piani – il luogo privilegiato della malinconia applicata al femminile nel cinema di Paolo Sorrentino (Tognolotti 2019, pp. 47-48) – che ce la riconsegnano in una cornice di estrema mestizia, come maschera lacrimosa compresa tra un buffo zuccotto di lana rossa e gli spasmi buccali da fumatrice compulsiva. «Non lo so che cos’è una vibrazione, Jep Gambardella, non lo so! Sei un ossessivo del cazzo!», conclude con la voce strozzata di pianto.

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Con questa doppia recensione su The Cleaner, la prima antologica italiana dedicata a Marina Abramovic – ospitata dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019 negli spazi di Palazzo Strozzi, a Firenze – vorremmo offrire un contributo che abbracci non solo la mostra in quanto tale, ma offra, altresì, una riflessione teorica e tecnica insieme, tesa a restituire una mappa ad ampio spettro della poetica dell’artista montenegrina e della relazione con i dispositivi visivi e audiovisivi in essa contemplati. In questo senso, il contributo di Chiara Tognolotti mette a tema la relazione tra performance e memoria attraverso uno snodo centrale della teoria del cinema, ovvero il pensiero sulla fotogenia. Il contributo di Andreina Di Brino rimette in gioco le stesse tematiche da una postura analitica, sondando, in particolare, il potenziale espressivo dell’azione performativa nel passaggio da «un’arte del corpo» a «un’arte del medium», dal ‘qui e ora’ a un tempo espanso.

 

Due volti, un uomo e una donna – Ulay e Marina – si affrontano, vicini. Seduti sulle ginocchia, vestiti di abiti di cotone leggero, sono inquadrati in piano medio. Lo spazio intorno a loro è vuoto, neutro. Le bocche si aprono ed emettono un suono lieve che diviene sempre più intenso con il passare dei secondi; la telecamera si avvicina lenta ai volti fino a riprenderli in primo piano. Lo sforzo dell’emissione vocale si disegna sulla pelle dei due: i nervi delle gole si disegnano netti, gli occhi si sgranano, il sudore e le lacrime rigano le epidermidi. Quando la performance si avvia alla fine, dopo quindici minuti, Marina e Ulay urlano uno nella bocca dell’altra e la telecamera è vicinissima, così da riempire lo schermo dei loro volti.

 

 

Il motivo del registrare e riprodurre in video le performance rimane per me uno degli snodi critici più ricchi di suggestioni delle sale di Palazzo Strozzi. Marina Abramović pone a centro radiante dei suoi lavori una fisicità forte e necessaria: «non potevo realizzare un solo lavoro senza la presenza del pubblico, perché questo mi dava l’energia affinché io riuscissi, attraverso un’azione specifica, ad assimilarla e a rimandarla indietro, a creare un vero campo energetico», ha affermato spesso.[1] Eppure la distanza che la ripresa video sembra instaurare non smussa l’effetto di presenza, giacché la camera non agisce da semplice testimonianza bensì stringe una relazione intensa con i corpi e gli spazi della performance non solo perché il tempo della performance coincide con quello della registrazione ma giacché, a me pare, le posture e le movenze dell’artista mediate dallo schermo non appaiono lontane nel tempo e nello spazio ma, al contrario, quello stesso schermo diviene una superficie porosa percorsa da un flusso di emozioni che mescolano chi guarda alle immagini, come disegnando un luogo abitato da entrambi. Così quando ho visto, nella prima sala della mostra fiorentina, il video di AAA−AAA − girato una prima volta a Liegi nel febbraio 1978 per la televisione e filmato di nuovo ad Amsterdam pochi mesi dopo, in giugno – non ho potuto fare a meno di andare con la mente, mentre sentivo il potere intenso di quelle immagini, alle teorie sul cinema degli anni Venti, e in particolare agli scritti di Louis Delluc, Jean Epstein e Béla Balász, innervate dai motivi della visione aptica e della trama di emozioni che intesse la superficie dello schermo, oggetto polimorfo, tessuto/specchio/pellicola che avvolge i corpi degli attori/performer, le loro immagini e il pubblico in un unico spazio percettivo e affettivo.

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Giulio Sodano, con l’intervento Le donne nell’età moderna, pone l’apertura dei lavori nel solco della ricerca delle coordinate storiche della problematica di genere, evidenziando, peraltro, come l’età moderna, in special modo prima del Concilio di Trento, abbia assistito a un forte protagonismo femminile indagato, nella relazione del docente, con una particolare attenzione rivolta alla vita religiosa delle donne. Un protagonismo che sembra dipanarsi secondo un duplice movimento, orizzontale, dall’ortodossia all’eterodossia, e verticale, dal più basso al più alto status sociale: dalla nobile Maria Lorenza Longo, fondatrice dell’Ospedale degli Incurabili, alle popolane che si occupano della cura e della pulizia degli spazi sacri; dalle adepte del circolo di Valdès (fra le altre, Isabella Colonna, Maria e Giovanna d’Aragona, Dorotea Gonzaga, Isabella Manriquez) alle dirimpettaie salernitane che discutono di questioni dottrinali eretiche.

Spostando in avanti le lancette del tempo, ma restando ancora nel solco di coordinate storiche, Carolina Castellano prende in esame Le donne nell’età contemporanea, concentrando le proprie riflessioni su quello che Hobsbawm ha definito «il secolo lungo». Emerge, dalla riflessione della studiosa, un costante intreccio tra i movimenti democratici e progressisti, eppure incapaci di declinarsi al femminile, e le rivendicazioni delle donne che, proprio all’interno di quei movimenti maschili, nascono. È il caso della giacobina Olimpe de Gouges che, provocatoriamente e specularmente rispetto alla Dichiarazione dell’agosto del 1789, scrive, nel 1791, la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. E ancora è il caso del movimento suffragista ed emancipazionista che nasce nel solco del movimento abolizionista. A indagare le ragioni di un radicamento così tenace, nelle istituzioni liberali, del principio di esclusione delle donne, Carolina Castellano esamina il primato della famiglia – ribadito nel Codice Napoleonico con il principio dell’autorizzazione maritale – intesa come spazio di intersezione tra dimensione pubblica, maschile, e dimensione privata, femminile; la famiglia, cioè, come istituzione composta da non eguali.

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Il 26 maggio del 2012 a Ragusa, nei locali dell'Ex Facoltà di Lingue e letterature straniere, la redazione di Arabeschi ha incontrato Mauro Covacich, che ha conversato con Mariagiovanna Italia per quasi quattro ore. Qui di seguito la trascrizione della conversazione.

«Guarda cosa è il mio corpo… guarda cosa ne faccio». Il rapporto con l’arte

D- All’interno della «pentalogia», esito di dodici anni di lavoro molto densi, le intersezioni tra scrittura, arte figurativa e arte performativa sembrano disporsi secondo quattro livelli: il primo è legato soprattutto alle opere A Perdifiato e Fiona, ed è il livello in cui l’arte figurativa viene utilizzata quasi come secondo termine di una analogia (è il caso di Fiona che va a messa vestita come Las Meniñas di Velázquez, della figurina di Chagall, della performance di Paul McCartney, della piazza di de Chirico). Perché il lettore viene immesso in questo universo iconico legato all’arte figurativa?

R- Intanto credo che io fossi in parte consapevole, nei primi due libri, del lavoro che avrei fatto, nel senso che la presenza dell’arte nella mia vita era molto forte già dall’inizio, perché io sin dai tempi dell’università, sempre da autodidatta (ad esempio non ho mai fatto un esame di storia dell’arte), ero molto interessato a questo ambito, pur non sapendo in che misura questo interesse e questa passione avrebbe potuto intervenire sul mio lavoro di scrittore. Era come una sorta di farmaco a lento rilascio che piano piano entrava dentro il mio organismo, come succede per un appassionato di cinema o di scacchi. A Perdifiato e Fiona sono ancora due momenti diversi; gli esempi a cui ti riferisci, se non ricordo male, sono tutti di Fiona, e non è un caso. In A Perdifiato io avevo cominciato a sentire che l’esperienza del corpo, così totalizzante per la mia scrittura, potesse anche dialogare in un modo più intenso con l’arte. Dalla scrittura di A Perdifiato in poi la presenza dell’arte nelle mie opere ha cominciato a essere non solamente una forma di espressione ma anche una specie di limite: come se potessi avere dall’altra parte, in un altro territorio, una forza d’attrazione che mi permettesse di uscire da un cul-de-sac, già dall’inizio, già mentre scrivevo A Perdifiato, però era una cosa che non avrei saputo razionalizzare.

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The article focuses on the works of the Italian contemporary writer Mauro Covacich and more particularly discusses issues related to autobiographical writing, autofiction, performance art and self-fashioning. The author aims to consider Covacich’s works – including even a video-performance – as examples of a new trend in Italian contemporary fiction, which challenges the end of Postmodernism and expresses the need to find out new forms of narrative consistency. Autofiction as a genre will be discussed against a wider theoretical backdrop and in comparison with autobiography, factual narrative and performance art. The author will show how Covacich, despite some ambivalences, tries to use a mixture of factual and fictional narrative as a critical tool for inquiring the self.

In un testo scritto in occasione del quarantesimo anniversario dalla fondazione del Gruppo 63, Mauro Covacich esprime in maniera elementare, e per questo sintomatica, il disagio che ha contraddistinto la parziale, ambigua e imperfetta liquidazione del postmoderno in Italia:[1]

Osservazioni analoghe, declinate con maggiore urgenza, si trovano in un testo più antico, scritto a ridosso dell’attentato alle Twin Towers e pronunciato in occasione del convegno Scrivere sul fronte occidentale organizzato da Antonio Moresco e Dario Voltolini a Milano nel novembre del 2001:

Se a questi passi si unisce l’epigrafe che Covacich sceglie come soglia al testo del convegno milanese – una citazione da The Body Artist di De Lillo – si ottiene una piccola mappa ideale della sua opera narrativa: l’angoscia della finzione e dei suoi effetti falsificanti, l’illusione che la vita possa entrare in forma immediata e dunque autentica nelle narrazioni assumendo un ruolo antagonista, la metafora dell’esistenza come performance. L’epigrafe recita: «Quello che inizia come solitaria alterità diventa familiare e addirittura personale. Ha a che fare con chi siamo quando non stiamo recitando chi siamo». La traduzione di rehearse, che significa ‘provare’, con l’italiano ‘recitare’ attribuisce involontariamente al verbo una sfumatura peggiorativa – legata all’idea della simulazione e persino dell’inganno – che, di fatto, esso non possiede.[4] La prova, più che la recita, è la dimensione all’interno della quale il body artist manipola il suo corpo, lo esibisce, lo sottopone a violenze o discipline esterne, lo trasforma in un laboratorio di sperimentazioni o in una protesi. La performance non è una simulazione di un’azione col corpo, è un’azione vera a tutti gli effetti, così vera da sottoporre il corpo a rischi fatali.

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