Donne, società, cultura. Giornata interdisciplinare di studio

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I?
I walk alone;
The midnight street
Spins itself from under my feet;
When my eyes shut
These dreaming houses all snuff out;
Through a whim of mine
Over gables the moon’s celestial onion
Hangs high.
(Sylvia Plath, Soliloquy of the Solipsist)

Con questi versi Sylvia Plath apre il proprio canto declinato al femminile, con una voce che ha la forza della riproposizione caparbia e capricciosa (“a whim of mine”) dell’io-donna al centro di un mondo che, eccentricamente, si srotola dai suoi piedi. Una voce che ha la carica eversiva e ribelle di una Lilith della contemporaneità e che, pure, in ragione di questa stessa carica, finisce per collocarsi inevitabilmente entro i limiti della segregazione, dell’esclusione e della solitudine. È, cioè, e non potrebbe essere diversamente, il Soliloquio della solipsista. Perché, dunque, una giornata di studi di genere? Per dare eco e risonanza a voci di donne, troppo spesso e troppo a lungo solitarie, per indagare le radici e le ragioni di una così tenace relegazione femminile entro lo spazio della domesticità, per evidenziare le rappresentazioni letterarie, iconografiche, musicali e cinematografiche degli stereotipi di gender e, parimenti, per porre in luce i tentativi di rottura di questi stessi cliché. Con tale dichiarazione d’intenti si apre la Giornata di studio interdisciplinare, Donne, società, cultura, organizzata dal Dipartimento di Lettere e Beni Culturali della Seconda Università degli Studi di Napoli il 10 aprile 2014.

Giulio Sodano, con l’intervento Le donne nell’età moderna, pone l’apertura dei lavori nel solco della ricerca delle coordinate storiche della problematica di genere, evidenziando, peraltro, come l’età moderna, in special modo prima del Concilio di Trento, abbia assistito a un forte protagonismo femminile indagato, nella relazione del docente, con una particolare attenzione rivolta alla vita religiosa delle donne. Un protagonismo che sembra dipanarsi secondo un duplice movimento, orizzontale, dall’ortodossia all’eterodossia, e verticale, dal più basso al più alto status sociale: dalla nobile Maria Lorenza Longo, fondatrice dell’Ospedale degli Incurabili, alle popolane che si occupano della cura e della pulizia degli spazi sacri; dalle adepte del circolo di Valdès (fra le altre, Isabella Colonna, Maria e Giovanna d’Aragona, Dorotea Gonzaga, Isabella Manriquez) alle dirimpettaie salernitane che discutono di questioni dottrinali eretiche.

Spostando in avanti le lancette del tempo, ma restando ancora nel solco di coordinate storiche, Carolina Castellano prende in esame Le donne nell’età contemporanea, concentrando le proprie riflessioni su quello che Hobsbawm ha definito «il secolo lungo». Emerge, dalla riflessione della studiosa, un costante intreccio tra i movimenti democratici e progressisti, eppure incapaci di declinarsi al femminile, e le rivendicazioni delle donne che, proprio all’interno di quei movimenti maschili, nascono. È il caso della giacobina Olimpe de Gouges che, provocatoriamente e specularmente rispetto alla Dichiarazione dell’agosto del 1789, scrive, nel 1791, la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. E ancora è il caso del movimento suffragista ed emancipazionista che nasce nel solco del movimento abolizionista. A indagare le ragioni di un radicamento così tenace, nelle istituzioni liberali, del principio di esclusione delle donne, Carolina Castellano esamina il primato della famiglia – ribadito nel Codice Napoleonico con il principio dell’autorizzazione maritale – intesa come spazio di intersezione tra dimensione pubblica, maschile, e dimensione privata, femminile; la famiglia, cioè, come istituzione composta da non eguali.

Se, dunque, l’Ottocento concretizza e radicalizza l’asimmetria tra l’uomo e la donna, relegando quest’ultima fra le mura della domesticità, le radici di questa prigionia tutta femminile sono ben più antiche e recano tracce iconografiche nelle stampe del XVI-XVII secolo, come emerge dall’intervento di Laura Boccagna. L’immagine di lei è tratteggiata in stampe rinascimentali di vari autori che hanno contribuito a creare e rafforzare quell’inviolabile e sacra identità di donna come sposa e madre. Perché, come ci comunica L’età della donna di Cristofano Bertelli, la vita della donna è una piramide da scalare con la conquista dello status di spose, il raggiungimento, all’apice, dello status di madri e il brusco decadimento di un corpo che ha, oramai, assolto la sua funzione collettiva.

Una coppia nella quale l’asimmetria uomo-donna, lungi dall’essere riequilibrata, viene, tuttavia, invertita è quella di Angela da Foligno e del suo confessore e segretario frate T. Nel suo intervento, La donna nella letteratura mistica medievale, Daniele Solvi evidenzia come questo rapporto sia stato indagato con un duplice approccio, storico-politico da una parte, intendendo l’uomo come filtro tra il lettore e la realtà femminile, e letterario dall’altra, attribuendo alla mistica la gratuità ed emotività dell’esperienza e al chierico la componente intellettualistica e razionalistica del racconto. Eppure, dalle operazioni di ricontrollo (attraverso la rilettura passiva) del testo, dallo schema, poco pratico e senza precedenti, dei 30 passi del Memoriale, dall’interrogazione che Angela rivolge allo spirito nella Basilica di San Francesco, risulta quanto l’asimmetria della coppia sia, qui, paradossalmente invertita e propenda con decisione verso la componente femminile.

Ed è, ancora, il passato più remoto a offrire testimonianze, storiche e letterarie, di modelli di donne e famiglie tutt’altro che conformi a quella tradizione spesso invocata a difesa di una presunta normalità biologica che è, piuttosto, una costruzione tutta culturale. Didone: regina e virago è l’argomento dell’indagine di Grazia Pettrone, che analizza come la protagonista virgiliana assuma in sé una marcata componente maschile. Una Didone, cioè, che ricalca meriti e demeriti di Enea; un’eroina che, posta sullo stesso piano del figlio di Anchise è, per certi versi, con la fondazione di Cartagine, capace finanche di anticipare il suo antagonista d’amore.

Con la domanda Il cinema (non) è un paese per donne? si apre la sessione pomeridiana della Giornata di studio. Stefania Rimini si chiede e ci chiede, attraverso il film di montaggio Il pozzo delle donne, quale ruolo e spazio di espressione abbiano avuto le donne nel sistema cinema. Passano sullo schermo scatti di Cindy Sherman e sequenze filmiche tratte da Shirin Neshat, Deepa Mehta, Alina Marazzi, Sally Potter. È un racconto per immagini che vede le donne dietro, ma anche davanti, la macchina da presa, che rende conto dell’«ansia di autoriflessività» che lega la quasi totalità delle registe donne, in virtù di un comune desiderio di riempire il secolare vuoto di uno sguardo pressoché maschile. Raccontare e raccontarsi, guardare e guardarsi.

Su questa stessa tematica dello sguardo si innesta la relazione di Patrizia Fiorillo, Pratiche dello sguardo nel linguaggio della videoarte. Uno sguardo che, dagli anni Ottanta e Novanta, tende a deviare dalle esperienze socio-politiche per essere puntato, piuttosto, su se stesse. Uno sguardo che, ancora, si pone alla ricerca della propria identità, affondando in corpi vissuti come esplorazione, guidata dai sensi e dal piacere, dell’io e del mondo. Si compie, in altre parole, una rivoluzione del cogito cartesiano secondo la quale il corpo, lungi dall’essere un ostacolo che separa il pensiero da se stessi, è ciò in cui, al contrario, si deve affondare per ritrovare la propria identità di viva.

Un corpo da accoltellare, da punire, da riempire e svuotare provocatoriamente di sé, da lasciare seduto su una sedia per giorni interi, da abbandonare all’arbitrio altrui. È il corpo dell’artista di Belgrado presentata da Alessia Basile nell’intervento L’attività performativa di Marina Abramovic.

Istanze del corpo, dei desideri, dell’eros e della loro inclinazione bizzarra (queer) e irregolare rispetto a una presunta naturalità biologica che ha la pretesa di porsi nei termini di eteronormatività. E nel solco delle incrinature delle tradizionali – o supposte tali – ripartizioni socio-culturali di genere, del superamento dell’aut aut maschile-femminile, di ciò che va Oltre gli stereotipi del femminile (come ci ricorda il titolo dell’intervento), che si assiste alla manifestazione dei guai di genere. Gender trouble che è sì, spiega Elena Porciani sulle tracce di Judith Butler, la questione di genere, ma anche, e più propriamente, il guaio (trouble) che l’eversione dei modelli eteronormativi provoca. Dalla musica al cinema, passando per la pubblicità, gli stereotipi del femminile si presentano in tutto il loro radicamento: ne emerge un quadro di donna-oggetto bloccata entro le maglie della inevitabile e inalienabile angelicità del focolare domestico.

Un’alternativa a una visione stereotipata del femminile è, senza dubbio, possibile, sembra volerci dire Luca Palermo con l’intervento «I am a woman, I am a wife, I am a mother, I am an artist». L’esperienza presentata è quella della performer Mierle Laderman Ukeles che con scope, bacinelle, prodotti per la pulizia delle abitazioni, rende conto della rottura di una standardizzazione dei ruoli, della con-fusione del gesto artistico nella quotidianità.

Passando dall’arte alla letteratura, Hanna Serkowska, con Lettura, rilettura, dislettura del testo letterario, ripercorre gli studi femministi, perlopiù di area inglese e francese, provando a rispondere alla domanda «Come legge e rilegge una lettrice donna?». L’analisi della studiosa si è concentrata soprattutto sulle pratiche di rilettura dei testi scritti da uomini. Essi dovrebbero essere riletti, come suggerisce Fetterley, resistendo alle identificazioni in modelli prefabbricati e preconfezionati permeanti le rappresentazioni letterarie femminili. Bisogna, dunque, diventare delle resisting readers, ribellarsi e resistere ad agguati tesi da ingannevoli ‘storie di Cenerentola’; in altre parole, bisogna compiere una dislettura (misreading) che rifiuta la lettura-identificazione in modelli stereotipati, sovvertendo, così, il canone della buona lettrice, passiva rispetto al testo, interpretato dalla Ludmilla calviniana. 

Dunque lèggere, rileggere, disleggere, ma, ancor di più, scrivere significa uscire dal silenzio e conquistarsi l’identità di soggetto. Teresa d’Aniello, con l’intervento su Gabriella Kuruvilla, presenta l’esperienza singolare di una ‘doppia identità’, di donna e migrante al tempo stesso, indagata tra le pagine di India. Sono due identità che non si integrano, una interna e l’altra esterna; una voluta, accettata, vissuta, l’altra rifiutata e riscoperta sempre più ostile e ingombrante. Eppure la coabitazione di tale pluralità di voci, per quanto problematica, si fa possibile solo all’interno del racconto: scrivere significa, dunque, dare senso alla propria esperienza biografica e sfidare, con consapevolezza e lucidità, luoghi comuni e stereotipi.