Le finzioni di Mauro Covacich

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The article focuses on the works of the Italian contemporary writer Mauro Covacich and more particularly discusses issues related to autobiographical writing, autofiction, performance art and self-fashioning. The author aims to consider Covacich’s works – including even a video-performance – as examples of a new trend in Italian contemporary fiction, which challenges the end of Postmodernism and expresses the need to find out new forms of narrative consistency. Autofiction as a genre will be discussed against a wider theoretical backdrop and in comparison with autobiography, factual narrative and performance art. The author will show how Covacich, despite some ambivalences, tries to use a mixture of factual and fictional narrative as a critical tool for inquiring the self.

In un testo scritto in occasione del quarantesimo anniversario dalla fondazione del Gruppo 63, Mauro Covacich esprime in maniera elementare, e per questo sintomatica, il disagio che ha contraddistinto la parziale, ambigua e imperfetta liquidazione del postmoderno in Italia:[1]

Ogni nostro gesto è permeato di fiction, ormai viviamo come se fossimo sempre attori di una fiction. Allora io trovo che un atto davvero rivoluzionario in un posto dove non è più possibile la rivoluzione – mi ricollego al discorso di Voce – sia quello di compiere l’operazione contraria, cioè pompare vita, iniettare la vita nella letteratura, sporcare l’idea di “pagina bella” con i materiali della vita.[2]

Osservazioni analoghe, declinate con maggiore urgenza, si trovano in un testo più antico, scritto a ridosso dell’attentato alle Twin Towers e pronunciato in occasione del convegno Scrivere sul fronte occidentale organizzato da Antonio Moresco e Dario Voltolini a Milano nel novembre del 2001:

Mi pare che oggi ci siano tutti i presupposti per una stagione post cinica. Forse è vicino il momento in cui gli scrittori torneranno a camminare per le strade e smetteranno di considerare la vita vissuta, l’esperienza, buona solo per appuntarla in un file. Denudare, sezionare, analizzare il fuori da dentro il proprio monolocale di carta non ha più senso, se mai lo ha avuto.[3]

Se a questi passi si unisce l’epigrafe che Covacich sceglie come soglia al testo del convegno milanese – una citazione da The Body Artist di De Lillo – si ottiene una piccola mappa ideale della sua opera narrativa: l’angoscia della finzione e dei suoi effetti falsificanti, l’illusione che la vita possa entrare in forma immediata e dunque autentica nelle narrazioni assumendo un ruolo antagonista, la metafora dell’esistenza come performance. L’epigrafe recita: «Quello che inizia come solitaria alterità diventa familiare e addirittura personale. Ha a che fare con chi siamo quando non stiamo recitando chi siamo». La traduzione di rehearse, che significa ‘provare’, con l’italiano ‘recitare’ attribuisce involontariamente al verbo una sfumatura peggiorativa – legata all’idea della simulazione e persino dell’inganno – che, di fatto, esso non possiede.[4] La prova, più che la recita, è la dimensione all’interno della quale il body artist manipola il suo corpo, lo esibisce, lo sottopone a violenze o discipline esterne, lo trasforma in un laboratorio di sperimentazioni o in una protesi. La performance non è una simulazione di un’azione col corpo, è un’azione vera a tutti gli effetti, così vera da sottoporre il corpo a rischi fatali.

Eppure l’ambiguità che la traduzione italiana di questo passo di De Lillo mette in luce, coglie un aspetto essenziale della performance art in genere: di chi è l’identità riconducibile a quel corpo in azione? Il fatto che esso compia azioni vere in che rapporto sta col fatto che quelle stesse azioni si definiscano in primo luogo come artistiche? Esistono azioni che non siano allestimenti della propria identità? La tensione tra questi due termini – provare e recitare – mi pare descriva lo spazio concettuale nel quale è possibile leggere l’opera narrativa di Mauro Covacich: è la tensione tra l’elemento autentico – al limite dell’osceno – dell’esposizione di sé e quello finzionale che, intervenendo in ogni forma di autorappresentazione, la espone al rischio della falsità. Il disagio che emana dai passi citati sopra è il disagio di chi si trova intrappolato tra il rifiuto di fingere e la consapevolezza che non esiste sincerità che non sia già effetto di costruzione; di chi, dunque, vede che la verità della prova è sempre a un passo dal diventare la simulazione della recita.

Autobiografismi

L’inflazione delle scritture autobiografiche è, a livello globale, un fenomeno ormai lampante. Se gli scaffali di una libreria mainstream disegnano immagini perfette del campo letterario, indicandone centro e periferie, basta entrare in una qualunque libreria del mondo anglosassone per constatare quanto quello delle autobiografie sia un settore istituzionale – e dunque commerciale – pienamente riconosciuto e all’interno del quale si raccoglie una congerie di testi disparati – dall’autobiografia commissionata di Andre Agassi, Open, a Se questo è un uomo, alle Confessioni di Rousseau, ogni narrazione che intrattiene un legame referenziale con chi l’ha scritta, dal punto di vista del mercato globale, sta dentro uno stesso perimetro. Due sono gli elementi interessanti di questo paesaggio: il primo è l’assoluta rilevanza della categoria di narrazione che fa aggio su quella di letteratura e demolisce ogni distinzione tra scritture d’occasione e scritture che tradizionalmente si ricondurrebbero al campo letterario; il secondo è la tendenza alla personalizzazione sempre più vistosa delle narrazioni, che in fondo è inscritta nelle strutture fondamentali dello spazio letterario moderno e nel peso assoluto che questo riconosce alle vite private delle persone,[5] anche se la precondizione di qualunque autobiografia sembra essere ancora il rilievo pubblico (anche solo ‘mediatico’) dell’esistenza che in essa si racconta – sia essa quella di uno sportivo, di un testimone, di un personaggio della televisione, di un politico. Attorno al nucleo duro dell’autobiografia vera e propria si è istituzionalizzata una serie di autobiografismi che se da un lato poggiano sull’intenzione referenziale della scrittura, dall’altro esibiscono consapevolmente movenze e strategie che rimandano al campo della fiction. Generi come il personal essay o il reportage testimoniale – per quanto molto diversi l’uno dall’altro – esprimono in fondo la stessa centralità del soggetto che scrive e del filtro che esso pone tra sé e l’oggetto della scrittura.

Il mercato italiano, pur riconoscendo un’importanza commerciale assoluta all’autobiografia, mantiene in fondo una fisionomia più tradizionale e legata a un’idea istituzionale di letteratura, per cui difficilmente in una libreria si troverebbe Primo Levi catalogato tra le autobiografie. Così, culture letterarie di lunga durata, che hanno conosciuto forme molto restrittive di classicismo, come quella italiana e quella francese, da un lato si sono rivelate meno disponibili a dismettere il concetto istituzionale di letteratura, dall’altro hanno fatto della regione degli autobiografismi uno dei loro terreni prediletti di sperimentazione. L’autofiction ad esempio è, non a caso, un’invenzione francese che, in quanto etichetta di genere, difficilmente verrebbe utilizzata in ambito anglofono, dove semmai si ricorre a termini come non-fiction novel o factual narrative o faction, espressioni che puntano essenzialmente ad esaltare l’elemento fattuale e a ridimensionare quello finzionale. Non si tratta solo di una questione nominalistica: l’autofiction è un fenomeno essenzialmente francofono, oggetto di studi accademici soprattutto in Francia,[6] che non ha un vero corrispettivo nelle letterature di lingua inglese.[7] Non è un caso che la definizione di non-fiction novel, coniata da Truman Capote per il suo In Cold Blood, ha avuto diffusione soprattutto nell’ambito del cosiddetto New Journalism, mentre l’autofiction nasce sostanzialmente come messa in questione della retorica della sincerità che fonda l’autobiografia moderna. Queste due genealogie si riflettono in atteggiamenti sostanzialmente diversi di fronte al problema della finzione: la cultura americana pare aver introiettato più in profondità uno dei presupposti ideologici fondamentali del postmoderno, l’idea, cioè, della ‘finzionalizzazione’ di tutti i discorsi, anche di quelli che pertengono all’ordine del vero, assumendo dunque un atteggiamento più disinvolto e riduzionista. La cultura europea continentale avrebbe invece conservato un atteggiamento inconsciamente più moralista nei confronti delle finzioni e, dunque, anche più incline a sperimentarne i confini in vista di una salvaguardia – seppure solo nostalgica e luttuosa – dell’ordine del vero. Bisognerebbe verificare in che rapporto sta questa ipotesi con l’egemonia teorica che la cultura francese ha esercitato nell’elaborazione dei topoi fondamentali del postmoderno.

Di fatto, comunque, la narrativa americana, a parte alcuni casi eclatanti – Roth in particolare – sembra avere un rapporto diverso con il tipo di ambiguità chiamato in causa dalle scritture autofinzionali, che, nel momento in cui attivano l’insieme di retoriche e di significati simbolici insiti nell’atto di scrivere ‘io’, mettono in questione l’attendibilità di quelle retoriche, la validità di quei significati, la consistenza dell’‘io’ chiamato a sostenerne l’architettura. Il genere predisposto a questo tipo di lavoro sul sé è il memoir, che poggia, appunto, sul ricordo non come sigillo di attendibilità ma come strumento, fragile, di un’esplorazione senza garanzie di successo. Se si pensa, inoltre, a una autofiction come Lunar Park di Bret Easton Ellis, nessuno potrebbe seriamente interrogarsi sul suo statuto fattuale: nonostante il protagonista, l’autore e il narratore coincidano, la materia sovrannaturale colloca immediatamente il testo al di fuori dell’ordine fattuale. Lo schema della ghost story, che a sua volta nasconde il plot di Hamlet, diventa così un traslato efficace: il racconto della propria vita coincide con un racconto dell’orrore e il massimo dell’artificio – spettri, personaggi di carta che diventano di carne, una casa infestata, sparizioni misteriose – è anche il massimo della verità, una verità non fattuale ma simbolica. Si direbbe che il romanzo faccia finta di giocare col problema tipicamente postmoderno della indistinzione di reale e immaginario, mentre in realtà celebri il potere della finzione e la debolezza della pura dimensione fattuale: le storie vere, persino quelle più intime, legate a ‘io’ reali e doloranti, hanno bisogno di costruzioni immaginarie che ne inscenino il nucleo di verità.

Troppo ampio e complesso sarebbe, in questa sede, indagare le ragioni per cui proprio nella tradizione letteraria francese un genere come l’autofiction abbia avuto così tanta fortuna e riconoscimento accademico. È certo che in Italia la diffusione di scritture che usano il patto narrativo proprio dell’autofiction segnala un interesse – e dunque tanto una forma di disagio quanto un tentativo di elaborazione – per uno dei problemi chiave del postmoderno, quello che Covacich indica implicitamente nei passi citati sopra: la ‘finzionalizzazione’ dell’esperienza e di tutte le pratiche discorsive convocate a descriverla, raccontarla e rendere conto di essa.[8]

L’accanimento teorico con cui ci si è preoccupati di elaborare la distinzione tra autobiografia e autofiction è comunque sintomatico e sembra rimuovere le intuizioni più acute che le finte autobiografie moderniste già avevano elaborato – Proust e Svevo in primis. Se è vero che le teorie più recenti dell’autobiografia si fondano essenzialmente su una rivalutazione della dimensione referenziale,[9] è vero anche che il genere autobiografico da Rousseau in avanti dimora su una ambiguità di fondo ineliminabile.[10] Naturalmente sono possibili descrizioni differenti di questa ambiguità: quella decostruzionista di De Man a un estremo, che col suo riduzionismo retorico invalida qualunque polarità tra referenziale e finzionale;[11] quella ermeneutica di Ricoeur, che, ricordando come l’identità del sé si esprime sempre, in primo luogo, in forma narrativa, restituisce valore antropologico ai dispositivi del racconto e riallaccia in una relazione dialettica proficua il reale dell’esperienza e il convenzionale dei racconti che la modellano.[12]

Eppure, nonostante le incertezze categoriali, è difficile schiacciare gli autobiografismi contemporanei, di cui l’autofiction costituisce una sorta di avanguardia, su un paradigma puramente postmoderno.[13] In altre parole, non mi pare si possano ridurre le sperimentazioni nel campo delle scritture che usano l’io come proprio dispositivo essenziale esclusivamente all’idea del ‘de-facement’ di De Man. Anche nei casi più oltranzisti, come ad esempio nelle ‘autobiografie di fatti non accaduti’ di Walter Siti, il gioco delle ambiguità tra ciò che è finto e ciò che è vero non mira tanto a mostrare l’inganno insito nello scrivere quanto quello che preesiste alla scrittura. La simulazione non è solo un problema testuale, è un modo di esistere del reale, che dunque rientra, di prepotenza, nel testo e lo redime dalla sua potenziale autoreferenzialità.

La mia ipotesi è che questa deriva autobiografista della narrativa italiana sia il segno di un tentativo di usare l’io come controspinta, come elemento spurio, come spazio di resistenza e non come cavia per riproporre stancamente e in ritardo l’immagine di un soggetto inappartenente, debole, abitato dall’immaginario e al riparo dai traumi del reale.

I distinguo da fare tra esperienze e autori differenti sarebbero molti. Spesso l’io messo in campo rivendica la propria irriducibile singolarità – è il caso di Lettere a nessuno di Antonio Moresco – o, al contrario, chiede di diventare un filtro allegorico – come in Dies Irae o in Italia de profundis di Giuseppe Genna – o, ancora, si ritaglia una sorta di ruolo saggistico-testimoniale – come nell’ultimo libro di Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto. Ciò che accomuna esperienze e libri così diversi – che producono risultati estetici molto diversi – è la necessità di esibire un ‘io’ implicato in ciascuna delle parole che si scrivono. Un ‘io’, dunque, che all’interno del testo svolga una funzione performativa. Il caso di Mauro Covacich è forse il più interessante – e uno dei più riusciti da un punto di vista estetico – per provare a leggere questa tendenza al riparo da paradigmi ormai invecchiati su se stessi.

Cornici

In una famosa performance del 1974, Rhythm 0, Marina Abramovic prepara un tavolo con settantadue oggetti adibiti a procurare dolore o piacere – tra questi delle forbici, una frusta, un bisturi, una rosa, una piuma, del miele, una boccetta di profumo, dei chiodi, un martello, una pistola con un solo proiettile – e aspetta immobile e in silenzio che il pubblico presente prenda l’iniziativa.[14] La performance ha delle istruzioni che servono agli spettatori per capire come interagire con l’artista: «There are 72 objects on the table that one can use on me as desired. I am the object. During the period I take full responsibility».[15] L’unico principio che regola la performance è che per sei ore gli spettatori possono fare ciò che vogliono con il corpo dell’artista, che resterà assolutamente passiva, e con quegli oggetti disposti sul tavolo. Nelle prime tre ore non accade molto. Poi, a poco a poco, il pubblico diventa sempre più aggressivo e inizia a usare gli oggetti che causano dolore e a infliggere ferite sul corpo dell’artista. Si arriva al parossismo quando uno dei presenti carica la pistola, la mette in mano a Marina Abramovic e gliela fa puntare alla testa.

C’è una cornice all’interno della quale l’azione si svolge, una cornice che non predetermina quanto accadrà ma che lo marca come ‘artistico’. È questa marca, unita alla deresponsabilizzazione indotta dall’artista stessa, che allenta i freni inibitori di chi assiste alla performance e induce al sadismo e alla violenza. Ma nel momento in cui l’artista, ridotto a oggetto, reca sul proprio corpo, in forma di ferite, i segni dell’azione e rischia la vita, la cornice si assottiglia e smette di delimitare uno spazio in cui accadono cose separate dalla realtà. Oltre che un esperimento di psicologia sociale, Rhythm 0, come altre performance che Abramovic e altri, come Chris Burden, fecero negli anni Settanta, lavora in maniera oltranzista proprio attorno al problema delle cornici. L’insofferenza nei confronti del teatro tradizionale, espressa variamente da Abramovic nel corso degli anni,[16] va proprio in questa direzione: la performance non riproduce, non simula, non allestisce uno spazio protetto dalla quarta parete, ma irrompe nello spazio reale attraverso l’evidenza del corpo che soffre.

Marina Abramovic, Rhythm 0, performance, Studio Morra, Naples, 1974. Ph: Donatelli Sbarra. Courtesy: Marina Abramovic Archives and Lisson Gallery, London

In uno dei molti microepisodi di cui si compone Fiona, che Covacich pubblica nel 2005, il protagonista, Sandro, assiste per strada a una scena a prima vista incomprensibile: un uomo ben vestito, con una borsa di cuoio «da professore, da impiegato»[17] [F 96], sta picchiando un ragazzo orientale senza che nessuno intervenga. Due «studenti» assistono «a braccia conserte». Il ragazzo picchiato è, stranamente, «bardato con le imbottiture da full contact». Quella scena, però, sta dentro una cornice che modifica radicalmente lo statuto stesso della violenza: il ragazzo orientale, infatti, si fa pagare – «Tle minuti sei eulo» – per lasciarsi picchiare, per dare ai passanti la possibilità di sfogare legittimamente aggressività represse. «È il suo lavoro» spiega uno dei due studenti a Sandro. Il ragazzo cinese e il suo picchiatore agiscono all’interno di un patto che rende possibile che il secondo picchi il primo senza conseguenze. Sono le imbottiture a distinguere nettamente questo allestimento da una performance vera e propria: nessun performer indosserebbe protezioni, la dimensione del rischio è allontanata, anche se le azioni del legittimo aggressore sono imprevedibili, non è detto che il patto non si infranga e la violenza non abbia conseguenze più gravi. In piccolo, questa scena di sapore allegorico – il picchiatore è vestito come Sandro, potrebbe essere lui – costituisce la cellula fondamentale del romanzo: che rapporto c’è tra le azioni che compiamo e le cornici nelle quali continuamente esse vengono inserite? Quello che accade dentro le cornici è davvero controllabile e meno vero di quello che accadrebbe fuori? Ci sono azioni che accadono al di fuori delle cornici? È questa forse la domanda fondamentale di Fiona, un romanzo a tesi sul peso delle cornici nelle nostre vite e sulle forme di negoziazione dell’identità.[18] Covacich sceglie, con qualche eccesso di evidenza, la televisione – e più in generale il medium del video – come macrocornice alla quale nessuna esistenza sembrerebbe riuscire più a sottrarsi.

La storia di Sandro, autore di Habitat, un ‘Grande fratello’ che degenera come nel famoso esperimento di psicologia sociale della prigione di Stanford,[19] è anche la storia di un bombarolo – Covacich si è ispirato al caso di cronaca di Unabomber, su cui aveva già scritto –[20] che studia diligentemente la preparazione di esplosivi, confeziona bombe fatte in casa e, vestito da militare, depone le sue ‘creazioni’ tra gli scaffali di supermercati del Nord Est. A questa storia di una scissione psichica si intreccia quella della piccola Fiona, figlia adottiva di Sandro e della sua compagna Lena. Ed è su questo filone della trama che si innestano, come revenant, i personaggi e le storie del romanzo precedente di Covacich, A perdifiato, pubblicato nel 2003. Fiona è infatti la bambina haitiana che Dario e Maura, protagonisti di A perdifiato, tentano di adottare in un momento delicato della loro vita di coppia. Non riuscendo a sopportare il pianto ininterrotto della bambina appena prelevata dall’orfanotrofio, decidono di riportarla indietro e fuggire via. Fiona non è l’unico personaggio di A perdifiato che ritorna nel romanzo che reca nel titolo il suo nome. Maura, infatti, in preda all’ossessione di aver abbandonato la bambina, inizia a pedinare Sandro e la piccola. C’è poi anche Alberto, amico di Dario e Maura, che è innamorato di quest’ultima e nel tentativo di proteggerla contatta Sandro per raccontargli la vera storia di Fiona. Persino Dario, che Sandro osserva di sfuggita sullo schermo della TV, fa da comparsa nelle sue nuove vesti di performer. Il mondo di A perdifiato ritorna e assedia, narrativamente e simbolicamente, Fiona.

Che cosa ha a che fare tutta questa vicenda intricata col problema delle cornici? Anzitutto è la struttura del romanzo, in maniera alquanto didascalica, a esibire l’ineludibilità delle cornici. Ogni capitolo è introdotto infatti da un titoletto che reca l’indicazione del giorno della settimana e il numero della puntata del reality in corso. Non importa che all’interno del capitolo non si parli di quanto avviene nella casa del reality di cui Sandro è l’autore principale, perché quella del reality è la condizione ontologica primaria delle vite dei personaggi. Nessuno si sottrae agli occhi molteplici delle telecamere che smaterializzano in immagine ogni gesto della vita quotidiana, così come nessuno sembra capace di uscire dal proprio involucro corporeo fatto essenzialmente di gesti e posture.

I capitoli del libro sono di tre tipologie: nella prima, dominante, Sandro è l’io narrante; nella seconda le sue azioni terroristiche vengono descritte dall’esterno attraverso l’occhio di una telecamera nascosta; la terza si compone dei dialoghi telefonici tra Alberto e Gianna, l’assistente sociale che aveva seguito Maura e Dario per l’adozione di Fiona. Sebbene Sandro abbia il privilegio della prima persona, sembra comunque che egli non sia dotato di una vita interiore, la sua voce sembra ridursi a un occhio che osserva e si limita a descrivere i propri atti e quelli altrui. Così, ad esempio, Lena è «un burattino giallo con la bocca spalancata» [F 20]; Fiona «è come un grosso gatto, dà sempre l’impressione di essere vigile, pronta a scattare» [F 21]; Alberto ha un corpo che «trasmette fragilità e sottigliezza» [F 73]; Maura è «la dea dei platani»; i collaboratori di Sandro incarnano i propri soprannomi: Telepass, Cane morto, Diesel, Rosita; i ragazzi dentro la casa di Habitat sono sempre osservati da un punto di vista obliquo e mediato – «Hanno assunto l’atteggiamento dei personaggi secondari di un film porno o di una tela di Caravaggio» [F 15]. Anche i sogni, che Sandro descrive in capitoli brevi di intermezzo, non sono veri affondi nel suo inconscio, ma trascrizioni di desideri o angosce già tutte note.

Di fatto, se c’è una dimensione che nel romanzo sembra scomparire del tutto è proprio quella dell’inconscio. Domina un’impostazione comportamentista, che bandisce l’introspezione e dà rilievo a una massa di azioni e gesti che si compiono in uno spazio desertificato. In questo senso il romanzo adotta uno stile fin troppo mimetico rispetto alla tesi che si propone di dimostrare: che ogni esistenza sta dentro un perimetro che la sovrasta e la trascende, la espropria della sua singolarità fino a dichiararla falsa. Sandro è convinto che la legge che regola la vita contemporanea sia quella alla base del patto tra il ragazzo orientale e gli avventori che pagano per picchiarlo: inscenare il conflitto, mediare l’aggressività, simulare la violenza. Così le azioni terroristiche nei supermercati diventano l’antidoto, confezionato a tavolino proprio come le bombe di Sandro, per far saltare le cornici. Il finale dentro la casa di Habitat, con Sandro che minaccia di far saltare in aria Fiona imbottita di esplosivo, esplicita, ancora una volta in maniera didascalica, questo principio.

Covacich mette in bocca ad Alberto il corollario che discende da questa legge generale:

Diverso, uguale. Non c’è differenza. Siamo tutti intercambiabili, non ci vuole niente a entrare nella vita di un altro. […] L’essere umano condivide il 90% della mappa genetica del grano. Del grano, capisci? Le cose che ci distinguono sono solo dettagli, domicilio, diploma, forma delle orecchie, lunghezza del femore. Ma sotto poi, le cose che diciamo, le cose che facciamo, le cose che desideriamo, quelle sono tutte uguali. [F 139]

Alberto è la versione nichilista e vitale – verrebbe da dire ‘nietzschiana’ – di Sandro. Per questo Alberto può fingere di essere Sandro in un’intervista telefonica in cui tenta di difendere Habitat spiegando come sia proprio la violenza ad avere un valore rivelativo rispetto al sistema di finzioni che regola i rapporti tra gli individui. Entrambi hanno le stesse consapevolezze sul mondo, ma mentre Alberto vi si adatta, riuscendo però così a preservarsi, Sandro ha un atteggiamento massimalista proprio perché profondamente compromesso. La sua identità è frutto di una negoziazione impossibile tra l’autore televisivo e il terrorista, tra Top Banana e Minemaker. Così, a Sandro che chiede ad Alberto se anche lui non finga di vivere e non si senta come già morto, questi risponde «No no, non ci siamo. Io amo Maura. Io sono vivo» [F 141]. A Sandro le teorie di Alberto ripugnano non tanto perché egli non veda quanto sia davvero solo la violenza a disinnescare «la finzione simbolica garante della vita collettiva» [F 183], quanto perché Alberto è privo dell’aspirazione – terroristica e alla fine derealizzante – alla purezza assoluta.

Portare Minemaker dentro il mondo di Top Banana significa, in primo luogo, distruggere l’illusione di realtà di quel mondo. Ma lasciare che i partecipanti di Habitat diventino sempre più violenti e disinibiti è davvero la maniera per sabotare la cornice? Non è forse, al contrario, la dimostrazione che anche nel cuore del falso il vero, sotto forma di sopraffazione e violenza, resta intatto? Non è la conferma di quanto Alberto ha espresso con disinvoltura? Sandro sembra non cogliere questa relazione dialettica tra vero e falso o forse, pur cogliendola, sa che deve estremizzarla. Eppure, in fondo, la sua irruzione dentro la casa per compiere il suo attentato finale è una resa: «la realtà reale» [F 226] – così si dice Sandro mentre urla le sue minacce – quella nella quale compiere il più tremendo dei gesti di distruzione, è quella a favore di telecamera.

Sandro emana il massimalismo di Covacich stesso, che attraverso il gesto di riportare in scena i personaggi del suo romanzo precedente inizia una sorta di requisitoria o di processo vero e proprio contro le finzioni. Fiona avrebbe potuto tranquillamente rinunciare, almeno dal punto di vista del plot, al sostegno narrativo di A perdifiato. Anzi, sono proprio i fili che legano i due romanzi ad appesantire una trama già di per sé gravata da sovrasignificazioni allegoriche. Perché allora lasciar vampirizzare questo nuovo universo narrativo da quello vecchio? Maura che pedina Sandro per vedere Fiona è l’emblema di questo rapporto di dipendenza. L’idea di una ossessione personale nei confronti della storia e dei personaggi di A perdifiato spiega poco e non rende conto dell’operazione che con Fiona – romanzo irrisolto – Covacich inizia. A differenza di Sandro, che è un performer fallito, Covacich sa che è impossibile strappare in un solo colpo le cornici. L’insieme delle opere che compongono quella che Covacich chiama la sua «pentalogia» – A perdifiato (2003), Fiona (2005), Prima di sparire (2008), la videoinstallazione L’umiliazione delle stelle (2009), A nome tuo (2011) – è una messa in questione radicale e imperfetta dello statuto della fiction, compiuta attraverso il nervo scoperto dell’io autobiografico. Radicale al punto da richiedere un’uscita dal codice letterario, imperfetta perché quell’uscita verrà nuovamente inglobata nella pagina scritta.

Io chi?

La ‘pentalogia’ di Covacich svela la sua natura autobiografica solo a metà del suo corso e con una progressiva scarnificazione della fiction. Pubblicato nel 2008 nei «Coralli» Einaudi, Prima di sparire è, prima ancora che un’autobiografia o una autofiction, una memoria difensiva. Il gusto di compilare paratesti – note conclusive sono presenti in A perdifiato, in Fiona e anche nell’ultimo A nome tuo – ha il suo apice proprio in Prima di sparire: qui la nota ha persino un titolo – «Coi nostri nomi» [Pds 278] – e una funzione non meramente informativa. È vero che anche nei due romanzi precedenti, così come in quello successivo, le note tradiscono sempre l’attitudine a comparare e distinguere ciò che è stato inventato e ciò che è reale. Nella nota a A perdifiato, ad esempio, Covacich ci tiene a precisare che per gli aspetti tecnici dell’adozione di Fiona si è ispirato alla vicenda di due amici, ma che quella di Fiona non è affatto la storia della loro bambina. Allo stesso modo, ricorda al lettore che nella Szeged reale si è verificato un caso di inquinamento acquifero analogo a quello raccontato nel libro. In un caso la finzione va divaricata dal vero, nell’altro invece va avvicinata ad esso fino a farli coincidere. Nella nota che chiude A nome tuo si assiste allo stesso tipo di movimento: allontanare e avvicinare vero e falso, vissuto e inventato: «In effetti all’inizio si è trattato di un viaggio, un viaggio in mare, e il mezzo era proprio una nave scuola della Guardia di Finanza, l’agile Giorgio Cini. Ma niente di ciò che racconto qui è accaduto realmente»; «La videoinstallazione omonima […] è stata realizzata nel novembre del 2009 a Venezia. […] Quindi esiste davvero. Così come esiste il diario di nonna Lisa, le cui frasi riportate sono tutte autentiche»; «Quanto a Musica per aeroporti, una prima versione è stata pubblicata a nome di Angela del Fabbro con il titolo Vi perdono […]. Anche in questo caso i fatti e i personaggi, insieme ai nomi dei farmaci menzionati, sono tutti inventati» [Ant 339].

Coi nostri nomi, che è presente solo nella prima edizione del romanzo e scompare nella riedizione nei Tascabili Einaudi, fa qualcosa di più. Qui non si tratta più soltanto di avvicinare o allontanare la materia del libro dalla realtà cui esso si è ispirato. La nota aspira a certificare la coincidenza assoluta tra il raccontato e il vissuto e per farlo usa la retorica del giuramento:

Il motto che avevo in mente era: Questi fatti esistono, queste persone esistono, io esisto. Procedevo come rispondendo a un interrogatorio, giuravo a me stesso di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Ero il giudice e l’imputato. [Pds 278]

Addirittura Covacich spiega come avrebbe voluto corredare la sua memoria con le deposizioni dei «testimoni»:

Avevo pensato di sottoporre il dattiloscritto a tutte le persone coinvolte, perché verificassero i fatti e ne autorizzassero la pubblicazione. L’idea era quella di una deposizione collettiva, redatta da me e controfirmata dagli altri. [Pds 278]

Lo zelo veritativo ha molti punti deboli: affidarsi al paradigma giudiziario non dà alcuna garanzia di verità, visto che anche la verità giudiziaria è, paradossalmente, una forma relativa di verità. La nota stessa finisce per dichiarare il fallimento di questa impostazione:

La memoria è una facoltà soggettiva e ogni ricordo non è che il modo in cui la mente intende raccontarlo, anche quando è in buona fede, anche quando parla con se stessa. Inevitabilmente, il ricordo è la mia versione del ricordo. A maggior ragione qui, dove la vita di tanti si è trasformata nella scrittura di uno solo. [Pds 278]

È evidente che, nel momento in cui la vicinanza al vissuto diventa coincidenza con esso, sorga un problema anzitutto etico. L’accusa di pornografia è sempre a un passo e le persone coinvolte nella storia, ‘con i loro nomi’, non sono semplicemente personaggi ispirati a esistenze reali. Chiedere la loro autorizzazione significa preservarne la carne e allontanarne la consistenza cartacea. Ma resta il fatto che all’interno dei confini del libro quelle persone diventano personaggi e si mescolano, infatti, a Sandro, Maura, Dario, che ancora una volta ritornano come figure di un romanzo che Mauro sta scrivendo e di cui inserisce lacerti nella sua ‘memoria difensiva’.

Come si arriva a questa mossa? Da dove viene l’idea di diventare il personaggio protagonista di un proprio libro in cui si raccontano vicende realmente vissute? Siamo in presenza di un’autofiction o no? Verso l’inizio di Prima di sparire si trova una sorta di antefatto:

È da sei anni che provo a scrivere un romanzo su un atleta diventato per puro caso artista di successo. A suon di tentare con quello, ne sono venuti fuori altri due, finzioni uscite come scarti nell’incessante forgiatura di un’idea. Adesso però ci sono, sento che ci sono. Vedo tutta la storia – l’artista, i viaggi, la moglie, i figli, l’amante della moglie – devo solo potermici dedicare. [Pds 11]

Stando a quanto qui si dice, Dario, protagonista di A perdifiato, nasce già performer prima ancora che atleta alle prese con una squadra di maratonete ungheresi. La sua performance ha un titolo, L’umiliazione delle stelle, che ritorna ossessivamente da un’opera all’altra. In A perdifiato compare per la prima volta come oggetto di una email che Alberto invia a Dario:

Secondo basilio, santo guastatore della macchina aristotelica, anche i corpi celesti sono sensibili alle affezioni. non hanno desideri né bisogni, eppure dal loro semplice girare infinito traggono piacere. è la loro grande umiliazione, l’umiliazione delle stelle. [Ap 42]

In Fiona è il titolo del saggio di Alberto che ispira le ricerche di Lena, moglie di Sandro, sull’eresia esicasta. In Prima di sparire è diventato il titolo della performance di Dario, ispirato probabilmente da quella lontana email di Alberto. In Fiona la performance è descritta brevemente dall’occhio di Sandro, che per caso la vede facendo zapping alla televisione, come «uno scheletro d’uomo che corre» [F 209]. In Prima di sparire la stessa descrizione è dilatata: alla Saatchi Gallery di Londra un uomo compie la distanza della maratona correndo su un tapis-roulant mentre degli elettrodi attaccati al suo corpo registrano in tempo reale le trasformazioni del suo metabolismo: la temperatura corporea, la frequenza cardiaca, la pressione del sangue, il peso, il consumo di calorie e così via. È un atto estremo di controllo sul corpo ma prima ancora di essere un gesto artistico è il tipo di ossessione necessaria a chi deve affrontare i quarantadue chilometri di una maratona. Inserito dentro la cornice della galleria d’arte, enfatizzato dalla visualizzazione della progressiva distruzione del corpo, il gesto sportivo diventa artistico. Ma è già il gesto sportivo a non essere puramente tale: «la maratona non è uno sport, ma il gesto più bello che una mente umana possa produrre» [Ap 272]. Per questo la sovrapposizione, anzi la coincidenza è possibile, per questo Dario è un performer ancora prima di diventarlo e, non a caso, non fa mai provare l’intera distanza alla sua squadra di maratonete: la sofferenza del corpo che si ‘cannibalizza’ non si può preparare in anticipo per intero – «Ci sono molti sport in cui il gesto viene provato solo a pezzi» [Ap 271]. Lo spettacolo del corpo che prova l’autodistruzione può consumarsi solo al momento reale della performance ‘reale’.

Che Dario sia un alter ego di Mauro è chiaro fin da A perdifiato, dove la contiguità tra la persona dell’autore e il personaggio di carta è dislocata nella figura di Maura, che mette in rilievo le tracce di un autobiografismo inquieto, che ha bisogno di rivelarsi e al tempo stesso camuffarsi. Gli strati che velano questa contiguità vengono abrasi in Prima di sparire, dove l’autore e il suo alter ego convivono nelle pagine dello stesso libro, pur vivendo a livelli diversi di realtà. Più che di una scissione, si tratta di una tautologia ossessiva. A ben vedere, la storia di Dario che tradisce Maura è simile a quella di Mauro che tradisce Anna: è lo stesso sentimento di stallo e paralisi che in entrambi i casi viene descritto. Così come Dario desidera che Maura muoia, Mauro si chiede se per uscire dalla situazione in cui si trova non potrebbe uccidere Susanna, Anna oppure se stesso. La presenza dell’io autoriale svela l’insufficienza dell’alter ego, eppure non ne determina la liquidazione. Mauro non prende il posto di Dario – cioè il proprio posto – e Dario non si riassorbe nei lineamenti di Mauro.

C’è, anzitutto, una opportunità poetica nel mantenere il proprio alter ego accanto alla propria immagine. Il performer Dario chiarisce, per analogia, il tipo di operazione che Covacich cerca di compiere con Prima di sparire: esporsi come farebbe un body artist o un performer, mostrare il proprio dolore, produrre un documento veritiero della propria separazione in cui niente sia inventato e tutto somigli al corpo che si cannibalizza del maratoneta. La coesistenza dell’io e del suo alter ego non va, dunque, intesa come volontà di confondere i confini tra l’invenzione e il vissuto. Semmai l’invenzione serve, didascalicamente, a illustrare quello che il solo vissuto non rivelerebbe a pieno. Il rischio di qualunque scrittura autobiografica è, infatti, l’irrilevanza. Il personaggio di carta serve a rendere il corpo di quello di carne più vero. In questo senso, anche Maura, che a sua volta in Prima di sparire tradisce Dario, è alter ego di Mauro. I suoi dialoghi con Sandro sull’arte contemporanea – Sophie Calle, la performance Lovers di Marina Abramovic e Ulay – al pari delle performance di Dario, alludono alla dimensione teorica ed estetica in cui il libro aspira a collocarsi. In alcuni casi i diversi livelli di realtà fanno corto circuito proprio per il tramite dell’allusione alla dimensione artistica: Marina Abramovic, intenta a tagliare cipolle, compare a una cena cui Mauro e Susanna partecipano. I riferimenti alle performance compiute dall’artista serba si moltiplicano: in The Onion (1996) Abramovic mangia una cipolla intera; Rhythm 0, con il dettaglio della pistola puntata alla tempia, viene qui rievocata come la performance in cui l’artista «offriva al suo pubblico l’occasione di ucciderla» [Pds 206]; i coltelli da cucina qui maneggiati alludono a Balkan Baroque (1997), citata all’inizio del capitolo, in cui l’artista – «la scarnificatrice» [Pds 204] – seduta su una montagna di femori di manzo ne raschiava via i resti di muscolo. Non è forse quello che Mauro vorrebbe fare col suo libro? Scarnificare la scrittura strappando via i residui di finzione, essere al tempo stesso l’aguzzino che spolpa cadaveri – si definisce più volte Josef Mengele rispetto a Susanna – e il peccatore che espia le sue colpe che rimangono appiccicate come il sangue alle ossa.[21] Il libro è disseminato di piccoli apologhi ed episodi che rimandano o a gesti artistici che esaltano l’evidenza del corpo o a gesti reali che potrebbero essere letti come performance artistiche, come nel caso della storia dell’escursionista americano che con un coltellino svizzero si amputa un braccio, rimasto intrappolato sotto una roccia, o come l’ossessione di Mauro che congela il suo vomito per poi rimangiarlo. L’idea di scrivere un libro che emani dal proprio corpo che soffre – fare della propria vita un’opera d’arte, «vissuta per essere fotografata ed esposta» [Pds 125] – poggia però sul presupposto, ineludibile, che la mediazione della scrittura produce una descrizione di quel corpo sofferente, ‘non è’ il corpo sofferente.

Il problema è che, se si vede appunto la nota conclusiva, Covacich ancora una volta appare terrorizzato dalla dialettica tra la verità e la sua mediazione espressiva – che diventa quasi sempre ‘finzione’, cioè falsità – e il libro che dovrebbe risolverla azzerando la fiction non solo non vi può rinunciare, facendone un commento di secondo grado alla vicenda principale, ma deve rassegnarsi alla imperfezione della verità evocata, fondata sul supporto fragile e inaffidabile del ricordo.

Il patto autofinzionale, dunque, da una parte è allontanato e il pathos della nota è il sintomo più evidente di questo gesto di allontanamento. Ma dall’altra il fallimento dell’istanza veritativa è inevitabile e conduce l’io che se ne è fatto garante a una impasse vera e propria. Prima di sparire non è un’autofiction vera e propria: ne ha il gusto per gli effetti di realtà, ma gliene mancano la ricerca di ambiguità o il sovraccarico allegorico. Al tempo stesso è difficile non leggerlo come un romanzo. Paradossalmente, il rifiuto delle ombre cinesi tipiche dell’autofiction respinge il testo indietro nei territori della fiction pura.

Il rischio di questo effetto rebound deve essere stato immediatamente chiaro a Covacich, che infatti decide di abbandonare il codice verbale e cimentarsi in un’opera d’arte puramente corporea, L’umiliazione delle stelle. Eppure anche questa operazione non riesce a liquidare definitivamente la dialettica tra il vero e il convenzionale, tra l’immediato e il mediato. Covacich rifà la performance di Dario Rensich, che è nata tra le pagine dei suoi libri. Rispetto al movimento tipico della scrittura autofinzionale – mettere se stessi sulla carta, diventare personaggi – qui si compie il movimento opposto: far diventare persona in carne e ossa il personaggio che a sua volta è nato alimentandosi delle ossessioni del suo autore. Se Rensich è l’alter ego di Covacich, fare Rensich significa recuperare la parte di sé alienata nell’invenzione di quel personaggio. Al tempo stesso, però, significa anche che la parte più vera della propria persona stava più in quella forma alienata e contraffatta di sé che non nell’ortonimia esibita di Prima di sparire.

Bisogna inoltre considerare che L’umiliazione delle stelle non è una performance vera e propria ma una videoinstallazione. Covacich, dunque, sceglie ancora una volta una forma espressiva in cui il reale del corpo che si consuma in diretta è restituito in forma di immagine video, per cui la cosa reale è inscindibile dalla propria immagine o, comunque, non esiste se non in forma di immagine. Covacich ne è assolutamente consapevole, sebbene la cosa continui ad essere fonte di turbamento. Ritornare alla scrittura attraverso l’uso di un eteronimo – Angela del Fabbro firma Vi perdono, poi inglobato in A nome tuo col titolo di Musica per aeroporti – lascia sconcertati e rivela come la partita non si sia chiusa e che nemmeno l’azione del corpo abbia soddisfatto la ricerca esasperante di una verità ‘più vera’. Lo dimostra la lettera che chiude A nome tuo, in cui una presunta intellettuale croata accusa Covacich non solo di aver contraffatto il video dell’Umiliazione delle stelle, ma di avere persino usato una controfigura.[22] È la maniera attraverso cui Covacich riduce alla lettera il senso dell’operazione compiuta con la quarta opera della pentalogia: il video è pur sempre un’immagine del corpo reale e l’uomo che vi si espone è l’incarnazione di un personaggio, cioè di qualcuno che è al tempo stesso proiezione di sé e alienazione di sé. La forma composita di A nome tuo dimostra che non esiste una soluzione al problema di come evitare che la verità della prova – il rehearsing di De Lillo – si trasformi nella simulazione della recita. L’angoscia della finzione non è superabile se non accompagnandola a una ricerca spasmodica di verità. È il fascino e insieme il limite di questo massimalismo poetico. La performance perfetta, in questo senso, sarebbe il silenzio: smettere di scrivere.


1 Il dibattito sulla fine del postmodernismo in Italia ha attraversato fasi differenti. Alla fine degli anni Novanta, ne ha scritto per prima Carla Benedetti in Pasolini contro Calvino, Torino, Bollati Boringhieri, 1998 e in L’ombra lunga dell’autore. Indagine su una figura cancellata, Milano, Feltrinelli 1999. Una seconda fase si è aperta dopo gli attentati dell’11 settembre, scelti come data spartiacque ad esempio in R. Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Guida, 2005. Legata invece alla discussione sui nuovi realismi è la terza fase, inaugurata da una sezione tematica intitolata Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, a cura di R. Donnarumma, G. Policastro, G. Taviani, pubblicata su «Allegoria», 57, gennaio-giugno, 2008. Di poco successivo è l’interesse che alcuni filosofi, sia in ambito italiano che internazionale, hanno mostrato per la questione del realismo, come dimostrano gli ultimi lavori di Maurizio Ferraris, curatore insieme a Markus Gabriel e Petar Bojanic del convegno internazionale Prospects for a New Realism tenutosi a Bonn nella primavera del 2012. Una sintesi recente a più voci è M. De Caro, M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Torino, Einaudi, 2012.

2 R. Barilli (a cura di), Il Gruppo 63 quarant’anni dopo, Bologna, Pendragon 2005, p. 301.

3 M. Covacich, L’orecchio immenso, in A. Moresco, D. Voltolini (a cura di), Scrivere sul fronte occidentale, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 88.

4 Questo l’originale del passo: «What begins in solitary otherness becomes familiar and even personal. It is about who we are when we are not rehearsing who we are»: D. De Lillo, The Body Artist, New York, Scribner 2001.

5 È la tesi portante di G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino, 2011.

6 Com’è noto la prima definizione di autofiction si trova in Fils di Serge Doubrovski, pubblicato nel 1977. All’interno dell’ampia produzione critica e teorica francese sull’autofiction mi sono servita di V. Colonna, L’Autofiction. Essai sur la fictionnalisation de soi en littérature, thèse sous la direction de G. Genette, EHESS, 1989, poi ripubblicata col titolo Autofiction et autres mythomanies littéraires, Auch, Tristam, 2004; G. Genette, Fiction et diction, Paris, Éditions du Seuil, 1991; Autofictions & Cie, sous la direction de S. Doubrovsky, J. Lecarme et P. Lejeune, Nanterre, Université Paris X, 1993; M. Darrieussecq, L’autofiction, un genre pas serieux, «Poétique», n. 107, 1996; P. Gasparini, Est-il je? Roman autobiographique et autofiction, Paris, Éditions du Seuil, 2004, e Id., Autofiction. Une aventure du langage, Paris, Éditions du Seuil, 2008; M. Ouellette-Michalska, Autofiction et dévoilement de soi, Montréal, XYZ Éditions, 2007; P. Vilain, L’Autofiction en théorie, Chatou, Les Éditions de la Transparence, 2009; Autofiction(s), Toulouse, Éditions Universitaires du Sud, 2009. Occorre poi ricordare il sito www.autofiction.org che presenta un archivio bibliografico molto ricco.

7 Se si guarda ad esempio proprio l’archivio del sito www.autofiction.org, nella pagina dedicata alle autofiction di lingua inglese i casi dubbi sono moltissimi: In cold blood, dove la presenza dell’io autoriale è ridotta al minimo, difficilmente potrebbe essere definito un’autofiction; The Discomfort Zone di Jonathan Franzen è un memoir a tutti gli effetti e la costruzione di alter ego fortemente autobiografici come nel caso del Bandini di John Fante o dello Zuckerman di Philip Roth non costituiscono affatto esperimenti di autofiction. Un caso a parte è, invece, Operation Shylock, che si colloca proprio sul terreno d’elezione dell’autofiction e lavora attorno a uno dei suoi temi prediletti, quello dell’identità. Anche Easton Ellis è incluso in questo elenco e pur essendo quella autobiografica una componente essenziale della sua opera, persino Lunar Park, che esibisce un patto autofinzionale, si presenta – come spiego più avanti nel testo – come un’autofiction sui generis.

8 In Italia la categoria di autofiction ha avuto – e ha tuttora – una fortuna significativa non solo tra gli scrittori che, più o meno consapevolmente, l’hanno praticata (Siti prima e con più acutezza di altri), ma anche tra i critici che l’hanno adottata. Un esempio recente è dato da D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011, che legge l’autofiction come sintomo del ‘cliché’ della fine dell’esperienza, concetto benjaminiano già ripreso da A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, Milano, Bompiani, 2006. Una sintesi del dibattito francese e un tentativo di mappatura del campo italiano si ha in V. Martemucci, L’autofiction nella narrativa italiana degli ultimi anni. Una rassegna critica e un incontro con gli autori, «Contemporanea», 6, 2008, pp. 159-188, che presenta anche delle interviste a Edoardo Albinati, Davide Bregola, Michele Mari, Tiziano Scarpa, Emanuele Trevi. È interessante notare come, tranne Bregola, ciascuno di questi scrittori si mostri piuttosto riluttante ad essere catalogato come autore di autofiction.

9 Si vedano, ad esempio, P.J. Eakin, Touching the World: Reference in Autobiography, Princeton, Princeton University Press, 1992; J. Sturrock, The Language of Autobiography: Studies in the First Person Singular, Cambridge, Cambridge University Press, 1993; G. Gudmundsdóttir, Autobiography and Fiction in Postmodern Life Writing, Amsterdam-New York, Rodopi, 2003.

10 Un contributo italiano recente alla teoria dell’autobiografia è M.A. Mariani, Sull’autobiografia contemporanea, Roma, Carocci, 2011.

11 Cfr. P. De Man, Autobiography as De-Facement, in Id., The Rhetoric of Romanticism, New York, Columbia University Press, 1984, pp. 67-81.

12 Mi riferisco in particolare a P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Paris, Éditions du Seuil, 1990.

13 Propone, con argomenti convincenti, una lettura non postmoderna dell’autofiction e delle «scritture dell’io» in genere R. Donnarumma in Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno, «Allegoria», 64, 2011. Sul rapporto tra fiction e non fiction, si veda sempre R. Donnarumma, Angosce di derealizzazione. Fiction e non fiction nella narrativa italiana di oggi, in H. Serkowska (a cura di) Finzione, cronaca, realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, Massa, Transeuropa, 2011, pp. 23-50.

14 Una descrizione della performance si trova in M. Abramovic et alii, Artist Body: Performances 1969-1998, Milano-New York, Charta, 1998. Un commento audio della stessa Abramovic si trova sul sito del MoMA http://www.moma.org/explore/multimedia/audios/190/1972.

15 Ivi, p. 84.

16 Si veda, ad esempio, questa intervista del 2005 pubblicata sulla rivista «Ateatro»: http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=100&ord=15. Sulla distanza tra performance art e teatro si vedano almeno R.L. Goldberg, Performance Art from Futurism to the Present, London, Thames & Hudson, 2001; B. Marranca, Performance Histories, New York, PAJ Publications, 2008.

17 Per citare i romanzi di Mauro Covacich mi servirò del seguente sistema di sigle: Ap = A perdifiato [2003], Torino, Einaudi, 2005; F = Fiona, Torino, Einaudi, 2005; Pds = Prima di Sparire, Torino, Einaudi, 2008; Ant = A nome tuo, Torino, Einaudi, 2011; Ac = L’arte contemporanea spiegata a tuo marito, Roma-Bari, Laterza 2011.

18 Anche Raffaele Donnarumma, nel saggio Esercizi di esproprio e di riappropriazione. A nome tuo di Covacich, su questo stesso numero di «Arabeschi», si sofferma con osservazioni acute e condivisibili su un confronto con la body art e la performance art in genere.

19 Condotto nell’agosto del 1971 dallo psicologo Philip Zimbardo, l’esperimento consisteva nel porre all’interno di una prigione, in una condizione di convivenza forzata, un gruppo di individui maschi suddivisi in guardie carcerarie e detenuti. Dopo soli due giorni il gruppo dei prigionieri tentò azioni di insubordinazione che alimentarono l’inizio di una serie di atteggiamenti sadici e vessatori, al limite della tortura psicologica, da parte delle guardie. L’esperimento venne interrotto dopo sei giorni. Un resoconto si trova in P. Zimbardo, Pathology of Imprisonment, in D. Krebs (ed.), Reading in Social Psychology: Contemporary Perspectives, New York, Harper & Row, 1982, pp. 249-51.

20 Cfr. M. Covacich, La poetica dell’Unabomber, Roma, Theoria, 1999. È interessante notare come già qui l’azione del terrorista venga interpretata in senso performativo: «La sua opera non dà spiegazioni, non illustra, non interpreta, non rappresenta, e quindi non ha bisogno di essere interpretata. La sua opera agisce, è energetica, visiva, la si percepisce immediatamente con il male che produce, e basta» (ivi, p. 126).

21 La descrizione della performance Balkan Baroque in L’arte contemporanea spiegata a tuo marito si concentra soprattutto su questa ambivalenza tra carnefice e vittima. Cfr. Ac 62-65.

22 Si sofferma sulla lettera, con conclusioni che condivido completamente, Donnarumma nel suo saggio Esercizi di esproprio e di riappropriazione, cit.