Categorie



Questa pagina fa parte di:

Se la vita è rito e il corpo la sua religione, allora anche la morte può diventare cerimonia, lento protocollo dotato di stazioni ben precise, di musiche, sapori, gesti e oggetti.

Forse è questa la premessa da cui partiva l’ultimo atto della pentalogia di opere firmate da Mauro Covacich. Con la seconda parte di A nome tuo (Torino, Einaudi, 2011), già pubblicata con lo pseudonimo di Angela Del Fabbro con il titolo Vi perdono (Torino, Einaudi, 2009), la ritualità del controllo del proprio corpo, forgiato come un’opera d’arte attraverso il gesto estetico e atletico della corsa nella trilogia composta da A perdifiato, Fiona e Prima di sparire, trovava il suo compimento nella ritualizzazione della morte, del disfacimento fisico. E come in ogni cerimonia che si rispetti, per compiere questo ultimo gesto rituale serviva un sacerdote, o meglio, una sacerdotessa.

Sul ruolo di questo ‘dolce intermediario’, che accompagna all’ultima stazione i sofferenti, è giocato Miele, prima opera di regia firmata da Valeria Golino. La sacerdotessa che presiede al rito del ‘ben morire’ condensa in sé il dolce e l’amaro, la comprensione e la freddezza: una presenza invisibile, come lei stessa tiene a sottolineare. Il rito si compie senza che lei debba prenderne veramente parte, occupando solo un angolo della stanza, come l’occhio della regista e le riprese in controluce tendono a sottolineare. La cura del dettaglio di questo rito viene suggerita dalla macchina da presa che segue i singoli oggetti che compongono il cerimoniale, li bacia e li accarezza insieme allo sguardo della protagonista, che ad essi si attacca e si àncora saldamente per non lasciarsi travolgere da ciò che comportano. Non esserci è la strategia per non rivivere insieme ai suoi assistiti il momento doloroso della morte di colei che Miele non ha potuto aiutare, la madre, mai ricordata esplicitamente ma la cui assenza è appena suggerita dalle immagini sbiadite di un passato felice e lontano.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Mauro Covacich (1965), tra gli scrittori che più hanno meritato l’attenzione critica negli ultimi quindici anni, è nato a Trieste, dove ha studiato filosofia laureandosi nel 1990 con una tesi su Gilles Deleuze.

Il suo esordio letterario risale al 1993, con il saggio narrativo Storie di pazzi e di normali (pubblicato presso l’editore Theoria e poi riedito da Laterza nel 2007): si tratta di una forma ibrida tra diario e racconto, frutto dei sei mesi trascorsi dallo scrittore presso il Dipartimento di salute mentale di Pordenone. A questa prima opera seguono i romanzi Colpo di lama (Neri Pozza, 1995) e Mal d’autobus (Tropea, 1997), i racconti contenuti in Anomalie (Mondadori, 1998 e 2001) e il reportage del 1999 La poetica dell’Unabomber (Theoria, 1999). In seguito alla pubblicazione di questi scritti nel 1999 Covacich è stato insignito dall’Università di Vienna dell’Abraham Woursell Prize; e da quel momento ha abbandonato il lavoro d’insegnante liceale di filosofia per dedicarsi a tempo pieno alla narrativa. Primo esito di questa dedizione esclusiva è il romanzo L’amore contro (Mondadori, 2001, poi Einaudi, 2009).

Insieme alla scrittura romanzesca Covacich ha continuato a coltivare anche il suo interesse per forme saggistiche e giornalistiche. Non si dimentichi, infatti, che dal 1998 collabora con il «Corriere della Sera», che è autore di numerosi reportage per «Panorama» e «Diario della settimana», e che ha firmato anche il radiodramma Safari. Al versante saggistico della sua produzione appartengono anche Trieste sottosopra. Quindici passeggiate nella città del vento (Laterza, 2006) e L’arte contemporanea spiegata a tuo marito (Laterza, 2011), che raccoglie dei post apparsi in precedenza su Vanity Fair. Quest’ultimo volumetto testimonia la costante attenzione e l’interesse persistente di Covacich per l’arte contemporanea, elemento chiave di quello che può essere considerato il risultato più ambizioso della sua carriera.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Il 26 maggio del 2012 a Ragusa, nei locali dell'Ex Facoltà di Lingue e letterature straniere, la redazione di Arabeschi ha incontrato Mauro Covacich, che ha conversato con Mariagiovanna Italia per quasi quattro ore. Qui di seguito la trascrizione della conversazione.

«Guarda cosa è il mio corpo… guarda cosa ne faccio». Il rapporto con l’arte

D- All’interno della «pentalogia», esito di dodici anni di lavoro molto densi, le intersezioni tra scrittura, arte figurativa e arte performativa sembrano disporsi secondo quattro livelli: il primo è legato soprattutto alle opere A Perdifiato e Fiona, ed è il livello in cui l’arte figurativa viene utilizzata quasi come secondo termine di una analogia (è il caso di Fiona che va a messa vestita come Las Meniñas di Velázquez, della figurina di Chagall, della performance di Paul McCartney, della piazza di de Chirico). Perché il lettore viene immesso in questo universo iconico legato all’arte figurativa?

R- Intanto credo che io fossi in parte consapevole, nei primi due libri, del lavoro che avrei fatto, nel senso che la presenza dell’arte nella mia vita era molto forte già dall’inizio, perché io sin dai tempi dell’università, sempre da autodidatta (ad esempio non ho mai fatto un esame di storia dell’arte), ero molto interessato a questo ambito, pur non sapendo in che misura questo interesse e questa passione avrebbe potuto intervenire sul mio lavoro di scrittore. Era come una sorta di farmaco a lento rilascio che piano piano entrava dentro il mio organismo, come succede per un appassionato di cinema o di scacchi. A Perdifiato e Fiona sono ancora due momenti diversi; gli esempi a cui ti riferisci, se non ricordo male, sono tutti di Fiona, e non è un caso. In A Perdifiato io avevo cominciato a sentire che l’esperienza del corpo, così totalizzante per la mia scrittura, potesse anche dialogare in un modo più intenso con l’arte. Dalla scrittura di A Perdifiato in poi la presenza dell’arte nelle mie opere ha cominciato a essere non solamente una forma di espressione ma anche una specie di limite: come se potessi avere dall’altra parte, in un altro territorio, una forza d’attrazione che mi permettesse di uscire da un cul-de-sac, già dall’inizio, già mentre scrivevo A Perdifiato, però era una cosa che non avrei saputo razionalizzare.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

The article focuses on the works of the Italian contemporary writer Mauro Covacich and more particularly discusses issues related to autobiographical writing, autofiction, performance art and self-fashioning. The author aims to consider Covacich’s works – including even a video-performance – as examples of a new trend in Italian contemporary fiction, which challenges the end of Postmodernism and expresses the need to find out new forms of narrative consistency. Autofiction as a genre will be discussed against a wider theoretical backdrop and in comparison with autobiography, factual narrative and performance art. The author will show how Covacich, despite some ambivalences, tries to use a mixture of factual and fictional narrative as a critical tool for inquiring the self.

In un testo scritto in occasione del quarantesimo anniversario dalla fondazione del Gruppo 63, Mauro Covacich esprime in maniera elementare, e per questo sintomatica, il disagio che ha contraddistinto la parziale, ambigua e imperfetta liquidazione del postmoderno in Italia:[1]

Osservazioni analoghe, declinate con maggiore urgenza, si trovano in un testo più antico, scritto a ridosso dell’attentato alle Twin Towers e pronunciato in occasione del convegno Scrivere sul fronte occidentale organizzato da Antonio Moresco e Dario Voltolini a Milano nel novembre del 2001:

Se a questi passi si unisce l’epigrafe che Covacich sceglie come soglia al testo del convegno milanese – una citazione da The Body Artist di De Lillo – si ottiene una piccola mappa ideale della sua opera narrativa: l’angoscia della finzione e dei suoi effetti falsificanti, l’illusione che la vita possa entrare in forma immediata e dunque autentica nelle narrazioni assumendo un ruolo antagonista, la metafora dell’esistenza come performance. L’epigrafe recita: «Quello che inizia come solitaria alterità diventa familiare e addirittura personale. Ha a che fare con chi siamo quando non stiamo recitando chi siamo». La traduzione di rehearse, che significa ‘provare’, con l’italiano ‘recitare’ attribuisce involontariamente al verbo una sfumatura peggiorativa – legata all’idea della simulazione e persino dell’inganno – che, di fatto, esso non possiede.[4] La prova, più che la recita, è la dimensione all’interno della quale il body artist manipola il suo corpo, lo esibisce, lo sottopone a violenze o discipline esterne, lo trasforma in un laboratorio di sperimentazioni o in una protesi. La performance non è una simulazione di un’azione col corpo, è un’azione vera a tutti gli effetti, così vera da sottoporre il corpo a rischi fatali.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Many voices speak in Mauro Covacich's A nome tuo (2011): the author himself, in a piece of autofiction; a fictitious character, who has written a long memoir; an anonymous academic, who accuses him of lying with regard to a video installation. This multiplicity of voices attests to the dispersion of the Self, but also to its tyranny. Covacich actually aims at vouching for the truthfulness of the text, and he engages in a paradoxical struggle against fiction as a factor of derealization. The body art performance therefore becomes his model, thus giving rise to a contradiction: Discourse can only be grounded on the Self, i.e. on the body – but the body can't guarantee the reality of the Self. One can only «cheat while remaining honest», in a desperate (and exemplary) attempt to escape the paper prison of fiction.

Voci

A nome tuo di Covacich si compone non di tre parti, come sembrerebbe, ma di quattro.[1]L’umiliazione delle stelle è una sorta di diario di un viaggio in nave: Mauro Covacich presenta in alcune città della costa orientale dell’Adriatico un video in cui, monitorato da vari elettrodi, corre su un tapis roulant per tre ore. Nella sua cabina si nasconde una giovane donna di colore, Angela del Fabbro (il cognome traduce lo slavo Kovačić), con la quale Mauro intreccia una relazione combattuta e appassionata. Per sua richiesta, deve scrivere la storia della propria famiglia, intercalata nel diario sotto forma di Appunti per il romanzo di Angela del Fabbro. Alla fine, Mauro scopre che Angela è Fiona, la bambina haitiana adottata due volte che è uno dei personaggi principali dei suoi romanzi: non è viva, ma è uscita dalla sua testa. Dovrà però spiegare alla compagna Susanna, tornato a Trieste, cosa sia accaduto durante il viaggio. Musica per aeroporti è il racconto di Angela del Fabbro, che pratica l’eutanasia a malati terminali con un farmaco che si procura in Messico. Sconvolge la sua attività l’incontro con Grimaldi, un vecchio milanese che vuole porre fine alla propria vita solo perché stanco di vivere, e in nome della libertà di decidere. Angela, che si rifiuta di aiutarlo, si innamora di lui. Questi la respinge, e a lei non resta che consegnargli il farmaco letale. Ignara della sorte di Grimaldi, torna dal padre vedovo. Qui, decide di scrivere la propria storia, che è quella che abbiamo letto. La lettera, tradotta da Angela del Fabbro e stesa da un’anonima accademica croata, accusa Covacich di aver prodotto, con il video L’umiliazione delle stelle, un falso: l’uomo che si vede correre è solo un suo sosia; ma pure ammettendo che sia lui davvero, comunque la volontà di assoluta trasparenza nell’esibizione di sé è un’impostura. Conclude il testo la Nota di nemmeno una pagina in cui Mauro Covacich rassicura che «niente di ciò che racconta qui è accaduto realmente», sebbene abbia compiuto davvero un viaggio per mare e ne abbia tratto delle note uscite su rivista; inoltre, rivela che una prima versione di Musica per aeroporti era stata pubblicata da Einaudi nel 2009, con il titolo Vi perdono e a nome di Angela del Fabbro. Il video L’umiliazione delle stelle esiste realmente.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →