Voci
A nome tuo di Covacich si compone non di tre parti, come sembrerebbe, ma di quattro.[1]L’umiliazione delle stelle è una sorta di diario di un viaggio in nave: Mauro Covacich presenta in alcune città della costa orientale dell’Adriatico un video in cui, monitorato da vari elettrodi, corre su un tapis roulant per tre ore. Nella sua cabina si nasconde una giovane donna di colore, Angela del Fabbro (il cognome traduce lo slavo Kovačić), con la quale Mauro intreccia una relazione combattuta e appassionata. Per sua richiesta, deve scrivere la storia della propria famiglia, intercalata nel diario sotto forma di Appunti per il romanzo di Angela del Fabbro. Alla fine, Mauro scopre che Angela è Fiona, la bambina haitiana adottata due volte che è uno dei personaggi principali dei suoi romanzi: non è viva, ma è uscita dalla sua testa. Dovrà però spiegare alla compagna Susanna, tornato a Trieste, cosa sia accaduto durante il viaggio. Musica per aeroporti è il racconto di Angela del Fabbro, che pratica l’eutanasia a malati terminali con un farmaco che si procura in Messico. Sconvolge la sua attività l’incontro con Grimaldi, un vecchio milanese che vuole porre fine alla propria vita solo perché stanco di vivere, e in nome della libertà di decidere. Angela, che si rifiuta di aiutarlo, si innamora di lui. Questi la respinge, e a lei non resta che consegnargli il farmaco letale. Ignara della sorte di Grimaldi, torna dal padre vedovo. Qui, decide di scrivere la propria storia, che è quella che abbiamo letto. La lettera, tradotta da Angela del Fabbro e stesa da un’anonima accademica croata, accusa Covacich di aver prodotto, con il video L’umiliazione delle stelle, un falso: l’uomo che si vede correre è solo un suo sosia; ma pure ammettendo che sia lui davvero, comunque la volontà di assoluta trasparenza nell’esibizione di sé è un’impostura. Conclude il testo la Nota di nemmeno una pagina in cui Mauro Covacich rassicura che «niente di ciò che racconta qui è accaduto realmente», sebbene abbia compiuto davvero un viaggio per mare e ne abbia tratto delle note uscite su rivista; inoltre, rivela che una prima versione di Musica per aeroporti era stata pubblicata da Einaudi nel 2009, con il titolo Vi perdono e a nome di Angela del Fabbro. Il video L’umiliazione delle stelle esiste realmente.
Questi quattro testi hanno nature diverse, anzitutto in ragione del loro emittente e del loro statuto di verità. L’umiliazione delle stelle è un’autofiction:[2] Covacich si rappresenta come personaggio e assume la voce del narratore, ma si attribuisce azioni che non ha mai compiuto e presenta personaggi inventati o i cui nomi, comunque, non rispondono a persone reali. Musica per aeroporti è un racconto in prima persona, in cui autore e narratore non coincidono; tuttavia, la circostanza che la sua prima pubblicazione autonoma sia avvenuta a nome di Angela, cioè di un personaggio di finzione, induce a riflettere. La lettera è il testo di un personaggio di finzione, tradotto da un altro personaggio di finzione. La Nota, invece, è un luogo in cui Mauro Covacich si assume la responsabilità anche giuridica di quanto dice: qui, insomma, non ci deve essere spazio per la fiction, che diverrebbe menzogna.
Tutto il meccanismo sembra reggersi su un confronto persino ossessivo, e del resto tematizzato, fra rappresentazione artistica e realtà empirica. Siamo dentro una mimesi (non solo letteraria, come testimonia l’importanza data alla videoarte) a cui un secolo abbondante ha revocato le certezze del realismo e del naturalismo, e che proprio per questo torna a interrogarsi persino massimalisticamente sui propri principi. L’autofiction, che Covacich aveva già praticato nel 2008 con Prima di sparire, è il punto in cui questo confronto viene spinto sino alle conseguenze ultime; ma anche le altre tre parti di A nome tuo sono fissate allo stesso problema.
Qual è dunque la relazione fra questi testi, queste voci, queste istanze di verità? Perché moltiplicarle? E cosa le tiene insieme?
Nomi
A nome tuo esplora le possibilità onomastiche consentite a chi scrive. C’è, anzitutto, l’ortonimia autobiografica, che la Nota registra seppure in modo implicito (perché la firma in questo caso sarebbe pleonastica) e che comporta l’assunzione di una responsabilità veritativa pubblica e puntualmente giuridica. Poi, l’omonimia autofinzionale dell’Umiliazione delle stelle, dove autore, narratore e personaggio coincidono, ma fuori degli obblighi del patto autobiografico. Quindi, la pseudonimia, poiché Musica per aeroporti, come già Vi perdono, è attribuito a un nome diverso da quello dell’autore vero (sebbene, come abbiamo detto, il cognome Del Fabbro riconduca a Covacich, cui equivale). Inoltre, l’eteronimia, poiché lo pseudonimo Angela del Fabbro è a tutti gli effetti una personalità compiuta e distinta che scrive al posto di Covacich: presentata in Vi perdono come «una persona che intende rimanere nell’ombra», che «è nata e vive a Roma»[3] (e quindi come qualcuno di sfuggente, ma plausibile), ora viene ridotta a fantasma poiché finisce per coincidere con il personaggio immaginario di Fiona. Infine, l’anonimato, poiché l’autrice della Lettera è ignota. Ciascuno di questi nomi, in sé e nel sistema di relazioni che crea, produce immagini di identità e un’immagine dell’identità. Ogni nome addita infatti un individuo, ma nessuno ne garantisce l’esistenza. Una riprova ulteriore è data dal diario della nonna del narratore, inserito negli Appunti di romanzo familiare: nell’Umiliazione delle stelle è discusso come un’invenzione dovuta a Mauro, e Angela ne lamenta i difetti stilistici e la scarsa plausibilità, mentre nella nota finale Covacich dichiara che «esiste» e che le sue frasi «sono tutte autentiche» [Ant 339]. La scrittura non dà insomma alcuna garanzia di verità; eppure, ossessivamente, è sempre confrontata con la realtà.
Il risultato più ovvio che se ne potrebbe attendere è che questo vortice di simulazioni catturi anche il vero Mauro Covacich: è in effetti quanto cerca di fare La Lettera, che accusa lo scrittore di essere uno che «vive ogni santo giorno nella menzogna» [Ant 331]. Il verdetto sarà giusto o ingiusto, attendibile o inattendibile (a pronunciarlo è pur sempre una voce sprofondata sotto almeno tre gradi di irrealtà: quello del proprio anonimato, quello di un testo generato nell’autofiction, quello di una traduttrice inesistente); ma di sicuro è unilaterale. A nome tuo non è infatti propriamente né solo un racconto di irrealizzazione o di derealizzazione: lo scopo di Covacich non sembra quello di sciogliere la letteratura nella menzogna (come, semmai, finisce per fare la sua anonima accusatrice); quanto piuttosto di strappare qualcosa di vero a un regime di falsità coatte.[4] Porre la questione del soggetto vuol dire insomma porre la questione della verità; e prima di arrivare a questa seconda, occorre sottolineare quante conseguenze abbia appunto porre la questione della verità come questione di soggetti anziché, poniamo, di cose esistenti di per sé, prima e fuori di una coscienza. Ciò con cui abbiamo a che fare sembra essere in primo luogo un problema di credibilità: con un certo azzardo, è qui messa in gioco la possibilità per chi scrive di dire qualcosa di vero con e oltre le proprie maschere – cioè, sotto e al di là dei propri nomi. Nella Nota, Covacich spiega che il video L’umiliazione delle stelle è il «punto culminate di un percorso autobiografico iniziato dieci anni fa intorno alla figura di Dario Rensich, alter ego di alcuni miei romanzi» [Ant 339]. La materia e l’urgenza autobiografiche travalicano l’attribuzione propria del genere (A perdifiato o Fiona non sono affatto autobiografie) e coinvolgono anche un alter ego (alter anzitutto per nome): in fondo, l’io è sempre se stesso, o meglio conserva un nucleo indissolubile, in tutti i nomi che assume. L’ultima frase del libro suona: «Dario Rensich, Angela del Fabbro, la piccola Fiona, Ivan Goran [Kovačić, lo scrittore e partigiano croato morto nel 1943 con cui Mauro condivide il cognome e che ammira]… io sono un gruppuscolo. Io sono un gruppuscolo» [Ant 339]. Ora, ciò che colpisce non è tanto la riattivazione del topos ormai più che secolare dell’identità come aggregato di io molteplici (un topos che ha origine nella psicologia prefreudiana e che deve la sua fortuna a scrittori come Pirandello o Pessoa, ma che è stato ripreso anche da Tabucchi).[5] Al contrario, Covacich sembra fare il percorso inverso: anziché polverizzare la sedicente unità di un io monadico nella pluralità delle sue forme, dietro l’ormai statutaria e assodata pluralità delle sue voci trova appunto il nucleo dell’identità. Come vedremo, ciò che gli preme è infatti «la verità più vera del proprio sé, il codice cifrato di persona nascosto nelle fibre della scrittura» [Ant 75].
Il titolo del libro perde così la sua apparente trasparenza. A nome tuo non è solo la storia che Covacich scrive a nome di un altro, superando una crisi di ispirazione, come dice apertamente:
– Se te ne andrai scriverò io per te. Ricomincerò a nome tuo. Affronterò di nuovo il mare aperto anche se mi terrorizza e regalerò ad Angela del Fabbro l’esordio che si merita. Un libro che ha già ficcato le sue piccole radici rosa dentro il mio cervello, e sta crescendo, sta crescendo ogni giorno. Scriverò per te, ti darò una voce, però tu devi sparire. [Ant 164]
In primo luogo, questo ‘tu’ è una proiezione dell’io: Angela è Fiona, e Mauro le rimprovera di avere «approfittato di un momento di debolezza per uscire dalla sua testa». «Ma», aggiunge, «sei una cosa mia, ti ho fatta io» [Ant 163]: sei, possiamo glossare alla luce della Nota, una parte di me: me. In secondo luogo, la scrittura può iniziare quando l’altro apparente scompare, lasciando campo libero all’io. Infine, l’oggetto della scrittura che si presenta sotto forma di Appunti per il romanzo di Angela del Fabbro è la storia della famiglia di Mauro Covacich: cioè, una ricerca delle proprie origini che, altrove, il narratore dice impossibile («No, Angela, mi dispiace, io non scriverò mai una saga. Neanche per te» [Ant 55]). Il falso altro, insomma, è l’alibi che il vero sé si costruisce per scrivere quello che non avrebbe la volontà, il coraggio o il potere di scrivere. Questa diagnosi vale a maggior ragione per Musica per aeroporti/Vi perdono: quel racconto, infatti, è l’esperienza sostitutiva e compiuta per interposta persona di un’esperienza che nell’Umiliazione Mauro confessa reiteratamente di non saper compiere: aiutare la nonna a morire (prospettando, tra l’altro, la stessa soluzione seguita da Angela: procurarsi in Messico un farmaco veterinario). Nel titolo A nome tuo, dunque, si può leggere un’esortazione che il narratore rivolge a se stesso: non esiste un vero tu, la figura dell’io-gruppuscolo parla più di una segreta e ineludibile tirannia dell’io che di una sua dispersione. In ultima analisi, non possono esistere racconto, né verità, se non c’è un io a farsene carico. A nome tuo – come, del resto, altri romanzi di Covacich – è dunque il libro di una resistenza: come salvare il nocciolo dell’io nella pluralità dei suoi nomi? Come strappare verità allo smercio diffuso delle menzogne?
Scrivere con il corpo?
In prima istanza, la scrittura non sembra potersi garantire da sola alcuna verità. Ancora una volta, Covacich riprende un topos primonovecentesco che, pur essendo ben radicato nella cultura triestina, trova la sua manifestazione più geniale nell’ultimo capitolo della Coscienza di Zeno:[6]
Come scrive Coetzee a proposito di Italo Svevo, la questione è: «Se ci fossero delle verità triestine che Svevo non è mai riuscito a mettere giù sulla pagina italiana». A nessun mio concittadino dovrebbe sfuggire che io stesso sto scrivendo in una lingua che ho imparato sui libri di scuola, la lingua straniera che possiedo meglio. [Ant 121]
La lingua italiana è artificiale: presenta ostacoli tanto insormontabili quanto invisibili all’enunciazione delle verità che potrebbe dire il triestino; il che equivale a dire che ‘ogni’ lingua è una forma parziale di verità, e che esistono tante verità, e dunque tante menzogne, quante lingue.
Allora, occorrerà strappare il velo di Maya della lingua, e far parlare non le cose, anonime e senza voce, ma quelle cose in cui/che i soggetti sono: i corpi. Lo scopo del video L’umiliazione delle stelle dovrebbe essere appunto questo:
Questo video dura tre ore, venti minuti e trentasette secondi. Per tre ore, venti minuti e trentasette secondi farò sempre la stessa cosa, la farò sempre nello stesso modo, eppure mi vedrai cambiare.
Questo è il mio corpo, questo sono io. Ecco la mia frequenza cardiaca, ecco la mia capacità polmonare, ecco il mio consumo calorico, ecco quello che sono.
Non ho segreti per te. Durante questa corsa non ti nasconderò nulla, penserò solo a te che mi guardi.
Alla fine avrò percorso quarantaduemilacinquecentonovantacinque metri, la distanza esatta della maratona.
La maratona è una corda tesa tra l’essere e il dover essere.
Correndo mi muovo il più velocemente possibile da ciò che sono a ciò che dovrei essere.
Dovrei essere giusto e non lo sono.
Dovrei essere corretto e non lo sono.
Dovrei essere puro e scendo a compromessi.
Dovrei occuparmi degli altri e penso solo a me stesso.
Dovrei accettare la morte e la temo.
Anche tu sei così?
Se ci pensi è umiliante – essere soggetto alle affezioni è sempre umiliante – però non c’è verso di sottrarsi a questa umiliazione.
Secondo gli antichi, anche entità perfette come le stelle corrono eternamente attorno all’Uno solo per amore della sua luce.
Ogni essere è segnato da un grado diverso di imperfezione. Alla fine di questa corsa non sarò meno imperfetto, sarò solo più stanco e più magro. [Ant 19]
Prima ancora di leggere la serrata e a tratti capziosa confutazione della Lettera, questa stessa presentazione, proprio mentre identifica l’io con il corpo e sembra ancorarlo a un’evidenza senza scampo, mina ogni fiducia ingenua. Il corpo non è, anzitutto, il luogo dell’immediatezza, dell’autenticità o dell’autoevidenza: non è, insomma, natura. Il corpo del maratoneta è plasmato nel tempo e dalla volontà con l’esercizio e la disciplina. Mentre il corpo del bodybuilder è il corpo artificiale per eccesso, quello del maratoneta, come quello dell’anoressica, è il corpo artificiale per privazione, fatto dalla chimica degli integratori e dall’innaturalezza degli strumenti.[7] Se il video appare come una «tortura», «la tortura vera è stata allenarsi in palestra»:
Il tapis roulant ti risucchia immediatamente in un sistema macchinico. Una volta impostata la velocità, il passo non è più libero ma deve rispondere all’impulso del tappeto. Sulla strada rallentare è una decisione che puoi prendere da un passo all’altro, sul tappeto invece bisogna intervenire sulla macchina, chiederle di andare più piano pigiando sul pulsante apposito. Sembra una sciocchezza, ma è una differenza che annienta. Sei soggetto a uno sforzo imposto dall’esterno, capisci? Secondo ritmi non negoziabili. È una sensazione spaventosa. Ti senti subito in catena di montaggio. [Ant 109, corsivo mio]
Il video esibisce infatti questa macchinizzazione del corpo: collegato agli elettrodi, esposto, vigilato, tradotto nei «dati biometrici disposti a colonna sul lato destro dell’inquadratura» [Ant 22], esso sembra più un cyborg che un essere umano. Quello che dovrebbe essere il riconoscimento di sé nel proprio corpo è piuttosto l’esperienza dell’esproprio da esso. Osservando Angela, Mauro si lascia sfuggire la sua aspirazione:
Ne ho viste di ragazze così in palestra. Pompano alle presse, hanno gli auricolari che gracchiano anche a metri di distanza, s’incollano ai megaschermi, chiacchierano sulle bici da spinning, non farebbero mai una passeggiata all’aria aperta. Sono la prova più evidente che l’umanità supererà serena il disboscamento e la desertificazione. Anche tu sei così, Angela? Multivitaminico al licopene, integratori al magnesio e tonnelate di tofu. Come ingurgitare malta rassodata in panetti. È questo che mangi di nascosto? Anch’io l’ho fatto, anch’io voglio appartenere alla nuova specie, mi prendi con te? [Ant 110]
«Appartenere alla nuova specie» dei corpi artificiali: non credo che ci si debba difendere da un proposito così sottilmente scandaloso attribuendogli un significato ironico. L’artificializzazione del corpo è la salvezza del genere (non più solo) umano di fronte ai dissesti che esso stesso ha prodotto sul pianeta: siamo nella logica della «società del rischio», in cui il sistema produce catastrofi possibili e rimedi a quelle.[8] Ma questa artificializzazione è un processo che fa del corpo sia la materia di partenza, sia l’oggetto di un lavoro costante, sia un fantasma che non potrà mai essere raggiunto – e dunque, una meta più che un’origine, il prodotto di un’autocreazione che non si può mai compiere anziché il risultato inalienabile della creazione. Essere corpi, essere individui, vuol dire essere umiliati: infliggersi la ferita narcisistica di non coincidere mai con il proprio io ideale, che ha ormai disarcionato l’ideale dell’io.[9] Non è solo la maratona a essere «una corda tesa tra l’essere e il dover essere»: lo è anche il corpo. E come la maratona, il corpo e l’identità rivelano dunque di essere non dati stabili (gli elettrodi, infatti, misurano variazioni continue: non permanenze), ma performance.
Body art
Il tema dell’identità come performance è centrale in molta filosofia contemporanea: penso, in particolare, a Judith Butler.[10] Tuttavia, Covacich segue e indica un’altra strada. Il video L’umiliazione delle stelle, così come i nomi di Marina Abramovic, Chris Burden e Joseph Beuys [Ant 335], rimandano infatti al nesso posto tra identità ed esibizione del corpo nella body art. Un interesse molto acuto per questa forma espressiva è testimoniato anche dall’Arte contemporanea spiegata a tuo marito, una guida a trenta artisti contemporanei (inclusi i tre citati sopra) uscita nel 2011. È interessante che Covacich cerchi «la presenza fisica dell’autore» e la sua capacità di farsi avvertire «concretamente» anche là dove è meno ovvio: così, Pollock diventa un precursore dell’«arte performativa»: «La tensione mentale, nervosa, muscolare, ecco il corpo dell’artista che “succede” nel dipinto» [Ac 13]. Precisamente come nel video che ha realizzato, il problema non è solo ancorare l’atto artistico al corpo dell’artista, come garanzia della sua verità, ma metterlo in scena nel suo divenire (che è poi anche, inevitabilmente, il suo correre alla morte: tema, del resto, centrale in A nome tuo). Ancora più esplicita è la riflessione indotta da Beuys:
Contro la monumentalità dell’oggetto, contro un’arte cristallizzata e duratura, contro l’idea stessa di un’espressione artistica fissata in un manufatto, Joseph Beuys riporta tutta l’attenzione sul soggetto, su colui che compie il gesto. È l’artista ora l’oggetto d’arte. Il suo corpo, esposto, arrischiato in un’esperienza estrema. La sua azione, effimera e potente, e l’energia che sprigiona nell’irripetibilità dell’attimo. Il mondo non viene rappresentato, viene piuttosto esperito attraverso la presenza catalizzante di un artista medium. La rappresentazione cede così la scena all’happening. [Ac 23, corsivo mio]
L’analisi può valere alla lettera anche per il video L’umiliazione delle stelle. Ma sebbene Covacich cerchi di ridurre la distanza fra arti visuali e arti della parola («quando si tratta di una performance, o sei presente mentre viene compiuta o non ti resta che fartela raccontare» [Ac 22]), l’analisi non può essere estesa anche alla scrittura: essa può tendere all’«azione, effimera e potente», ma resta «un’espressione artistica fissata in un manufatto».
L’asimmetria non è superabile. Tuttavia, la scrittura qui si muove precisamente sullo stesso terreno della body art e delle performance, sebbene non possa dare a quei problemi le stesse risposte. Le domande sono quelle che Covacich si pone guardando The Shadow, il video in cui Sophie Calle viene ripresa da un investigatore di cui ignora l’identità, ma che sa essere presente da qualche parte:
Cosa significa far uso del proprio vissuto? Dove sta il proprio vissuto? Cos’è l’io? Cos’è l’interiorità? C’è un luogo recondito dove si condensa? […] quand’è che siamo noi stessi e quando invece recitiamo la parte di noi stessi? C’è davvero differenza? […] è ancora possibile parlare di interiorità? [Ac 79]
Nelle arti visive, non esiste alcuna interiorità distinta dal corpo. L’io ‘è’ il corpo: non esiste un suo dominio separato, sottratto al visibile (il che, ancora una volta, apre una frattura con le arti verbali, che possono appunto dire quello che non si vede). Solo che il corpo non è l’espressione autentica dell’interiorità, precisamente come in A nome tuo il corpo non è autenticità naturale: Sophie Calle «sta mettendo in scena se stessa, è diventata un personaggio di finzione» [Ac 81] e ciò che inscena è «l’invenzione della vita reale, la verità dei fatti costruita ad arte» [Ac 82]. Questa formula paradossale è precisamente la conciliazione tra arti dell’immagine e arti della parola: né si potrebbe dare risposta migliore alle accuse della Lettera. Come le parole possono mentire, così anche le immagini. La cosa in sé è irraggiungibile: il mito di una perfetta adaequatio ad rem è una favola. Covacich lo dice esplicitamente commentando Walking in an Exaggerated Manner Around the Perimeter of a Square di Bruce Nauman:
Non esistono fatti nudi e crudi. Nauman ha recitato. Ha spinto la realtà dentro il televisore trent’anni prima dei grandi network, illustrandoci col suo girotondo solitario come essa sia frutto, sempre e comunque, di un lavoro d’invenzione. [Ac 75]
È rivelatore che la sfiducia in una rappresentazione trasparente nasca proprio di fronte ai media in apparenza più fedeli e immediati che la vocazione mimetica dell’arte occidentale abbia conosciuto: la macchina fotografica (Calle) e la telecamera (Nauman: giustamente, Covacich non richiama il cinema, ma la televisione, che ha infatti il proprium della presa diretta). È l’accusa della Lettera: quanto più l’arte cerca di essere mimetica, tanto più inganna. E di nuovo, si apre una relazione asimmetrica tra arti visive e arti della parola: queste ultime non possono competere con le prime nella capacità illusionistica, ma sembrano essersi messe nel vicolo cieco di una battaglia persa in partenza per ‘dire le cose come sono davvero’. Il campo in cui la letteratura combatte questa battaglia è proprio l’autofiction: il suo scopo, si direbbe, è sbugiardare la pretesa mimetica espressa anzitutto dalla televisione. Allo spasimo delle storie vere e della vita in diretta rispondono il gioco della manipolazione e la mostra dell’invenzione. Eppure, la fame di realtà è la stessa, e in entrambi i casi agisce in modo riflesso e secondario. Sarebbe ingenuo immaginare un’opposizione netta, in cui per statuto la tv nasconde la simulazione e la letteratura la svela: la differenza è di grado più che di qualità (è il problema che Covacich si pone in Fiona, ma che ha spiegato meglio di tutti Siti in Troppi paradisi). Televisione e letteratura si contendono così il primato nella rappresentazione dell’esistente. Eppure, non importa chi vince: importa che è stata la real tv a dettare la legge.[11] L’autofiction è davvero letteratura al tempo della televisione: essa può essere pensata anzitutto come un ridefinirsi del narrabile nel dilagare di storie in presa diretta e in tempo reale. La relazione fra arti verbali, arti visive e media audiovisivi è meno un sistema di influssi positivi che un campo di forze, in cui i singoli attori si dispongono sia per attrazione, sia per repulsione.
Dunque, body art, performance e autofiction ragionano sul possesso che ciascuno di noi ha del corpo-sé, nel momento in cui la pandemia delle immagini fotografiche, televisive e in rete ci trasmette una vertigine di espropriazione della realtà e del corpo. Covacich affida alle ultime pagine dell’arte contemporanea riflessioni riassuntive:
Il corpo è il castello nel quale siamo convinti di regnare e invece veniamo a malapena nominati cittadini onorari. È nostro – noi usiamo il castello, siamo quel castello – eppure esso non ci appartiene mai fino in fondo. [Ac 99, corsivo mio]
Così, quando Mona Hatoum ci fa scendere con un occhio-sondino nel suo corpo,
[…] è come se […] ci dicesse: vi mostro tutto di me, anche le parti più intime, ma quello che vedrete stenterete a riconoscerlo. Guardate, guardate pure, dopo saprete ancora meno di ciò che credevate di sapere. […] A guardar bene in profondità, il suo corpo è lo straniero che condividiamo. [Ac 102]
Eppure, non finisce qui. Il proprium di Covacich, il vero punto d’interesse di A nome tuo e degli altri suoi libri recenti non sta in questa che è l’inoppugnabile – e forse per questo, un po’ deludente – verità generalmente condivisa sul rapporto tra arti e mondo empirico, tra identità e rappresentazione, fra io e corpo. Certo, la formula di conciliazione sull’«invenzione della vita reale» e sulla «verità dei fatti costruita ad arte» ci pone già fuori dalla doxa postmoderna, secondo cui, invece, sarebbero stati i discorsi a mangiarsi le cose, la fiction a cancellare i fatti rendendo persino ridicola la nozione di verità, la favola a sostituire il mondo. Ma in Covacich c’è anche una volontà precisa di oltranzismo. Così, in Bill Viola che riprende la madre morente rintraccia un «autobiografismo estremo», legittimato però dalla «tonalità etica» del suo lavoro [Ac 77-8]. Per quanto sappia che ogni immagine è costruita, che ogni codice è convenzione, che ogni lingua è artificio, Covacich tende tuttavia a un grado di verità ulteriore, e che in ultima analisi non trova altra giustificazione che quella morale – cioè, appunto, quella che lega le parole e gli atti alla responsabilità del soggetto che le pronuncia e li compie. Se ogni parola e ogni immagine può essere un inganno, allora occorre che qualcuno si impegni sul proprio onore (sul proprio nome?) a produrre parole e immagini che non lo siano. Tuttavia, questo volontarismo etico condanna se stesso all’insufficienza. Senza un mondo di cose reali, l’etica non avrebbe neppure un campo nel quale esercitarsi:[12] la necessità dei corpi resta ineludibile. E i corpi devono essere veri; tanto più se non esiste un privilegio della coscienza, come luogo preservato dalla falsificazione e sottratto alla vista. Si apre, insomma, un campo di contraddizioni così insanabili e ostinate da avere il valore eloquente di sintomi. Posto allora che il corpo è oggetto di «sensazioni conflittuali di estraneità e intimità» [Ac 99], questo conflitto va accettato nella sua polarità statutaria, oppure la bilancia tende da una parte?
Per provare a rispondere, può essere utile una controprova. L’arte contemporanea non accoglie artisti che lavorano proprio sul corpo come maschera, falsificazione, produzione di identità molteplici e abitate dagli stereotipi culturali, dal pregiudizio, dalla storia: penso, per esempio, a Cindy Sherman. Evidentemente, c’è in queste scelte qualcosa che Covacich avverte come estraneo o lontano o parziale (il che, in ogni caso, non gli impedirà di apprezzare il lavoro di Sherman): fare del corpo essenzialmente o anzitutto il teatro dell’alienazione non è quello che gli sta a cuore. L’umiliazione delle stelle è ispirato infatti da un principio opposto, puntualmente rinfacciatogli nella Lettera e sottoposto a verifica nell’analisi dell’installazione di Hatoum: «Non ho segreti per te» [Ant 19 e 335]. Allora, ciò che identifica la posizione di Covacich, ciò senza cui non si capirebbe la tensione e l’origine dei suoi ultimi libri, ciò che la conciliazione di invenzione e realtà non può mettere a tacere è la volontà di dire comunque qualcosa di vero contro ogni consapevolezza che ‘il’ vero non esiste.
La sindrome di Truman
A nome tuo dice insomma due cose: il discorso può essere fondato solo sul soggetto, cioè solo nel corpo; e insieme: il corpo non può garantire la verità del soggetto, cioè né la verità che il soggetto vuole produrre, né la verità a proposito del soggetto. Aggiunge che il corpo non è un’entità autoreferenziale, ma che parla agli altri: nel video L’umiliazione delle stelle, Mauro infatti è mosso da un’istanza comunicativa, giacché la performance non potrebbe esistere senza un destinatario («Durante questa corsa non ti nasconderò nulla, penserò solo a te che mi guardi»). Ma insieme, il libro racconta che il messaggio non arriva a destinazione: gli spettatori del video, in genere, lo rifiutano con scetticismo, ironia, noia.
Il double bind del soggetto-corpo ha un’origine storica, cui Covacich dà il nome di sindrome di Truman. Più volte, nel corso della prima parte, Mauro ha l’impressione di essere vittima di una candid camera:
– Non sto giù. È che, non so, sono confuso. Non sarò vittima di uno scherzo? – Ma mentre la pronuncio, sento che la parola scherzo non è più in grado di restituire il mio stato d’animo. Neanche la vecchia intenta a osservarmi col fazzoletto calato sulla fronte mi sembra più una presenza casuale. – Sai, insomma, una specie di Truman Show, – dico, – la sensazione è la stessa. È come se fossero tutti d’accordo, anche quelli che viaggiano con me. [Ant 43-44]
Questa sensazione era frequente già in Fiona, dove il protagonista si sentiva ed era costantemente spiato da telecamere. Il mondo della proliferazione delle immagini riprodotte non è infatti solo il mondo in cui siamo sollecitati a guardare costantemente, ma anche il mondo in cui siamo guardati e trasformati noi stessi in immagini.
Uno dei segni della sindrome è l’attesa di una rivelazione che non si compie. Una volta di più, Covacich riprende un grande luogo della tradizione modernista, invertendolo però di senso:
Io sorrido, aspettando solo il momento in cui la parete di carta si squarcerà e usciranno il regista e i tecnici con le cuffie a dirmi di guardare dritto in camera, lassù, che lo scherzo è finito. Ma nessuna parete si squarcia [Ant 45]
Nel XII capitolo del Fu Mattia Pascal, lo strappo nel cielo di carta era dato come ipotetico, eppure schiudeva la possibilità di un oltre che, epifanicamente, rivelasse l’inconsistenza illusoria del qui e ora. In A nome tuo, invece, non esiste null’altro che l’immanenza. L’oggetto di desiderio non è però solo l’oltre della verità, ma anche la presenza dell’inganno. Senza il secondo, infatti, sembra che la prima non si possa dare: occorre pensare che questo mondo sia falso, per immaginarne un altro vero. Contro l’ossimoro permanente, solo la separazione è salvezza. La sindrome di Truman è perciò, forse come tutte le forme di paranoia, anche un wishful thinking: la compensazione allucinatoria di una perdita, il modo per risarcirsi dal lutto sulla verità, proiettandone la sopravvivenza in un altro mondo.
Si può vivere nella sindrome di Truman, ma, come racconta Covacich, nessuno di noi vive nella condizione di Truman. Il presente, i corpi, le identità, le performance, la scrittura non sono né inguaribilmente false, né limpidamente vere: sono, piuttosto, falsovere, sebbene il loro carattere ancipite si stagli su un fondo di esclusioni rimpiante, di certezze revocate. La verità si manifesta solo nelle apparenze ingannevoli: esiste, anzi, solo in esse, e solo da esse può essere tratta. La scrittura o le immagini sono vere perché sono finte, e non a dispetto della loro simulazione. Eppure, questa conclusione, che del resto abbiamo imparato almeno dai tempi di Nietzsche, a Covacich non basta: la sindrome di Truman è il sintomo della sua insoddisfazione. Ancora una volta massimalisticamente: se non quid, almeno ubi veritas?
Imbrogliare restando onesti
È per sedare questa angoscia che Covacich riprende, ma a modo suo, la formazione di compromesso secondo cui l’arte è verità sotto le spoglie della finzione:
– Scrivere è imbrogliare. Sempre. Cos’è altrimenti un’invenzione? Ma si può imbrogliare restando onesti, trasmettendo nell’invenzione la verità più vera del proprio sé, il codice cifrato di persona nascosto nelle fibre della scrittura –. Affermazioni solenni, pronunciate da una mente euforica sull’orlo di un crollo nervoso. [Ant 75]
Potremmo leggere questa dichiarazione, che crea del resto un certo imbarazzo a chi la pronuncia, come la ripetizione di un principio affermato sin dalla Poetica di Aristotele: la poesia non dice il reale, ma il possibile; quindi, dice una verità che non va misurata angustamente sulla realtà. Ma, se facessimo così, sbaglieremmo mira. Covacich, infatti, fa precisamente quello che la teoria da Aristotele in poi condanna come improprio e impertinente: misurare la finzione sulla realtà, scambiare l’invenzione con la bugia. C’è qui un ritorno di platonismo, che rovescia sulle arti mimetiche la duplice censura, ontologica e morale, di essere falsificazione e inganno. Lo scivolamento dalla liceità dell’invenzione all’illegittimità dell’imbroglio segnala eloquentemente che le finzioni dei poeti, in un regime di fiction onnipervasiva e coatta, siano diventate un problema: il rischio è forse che nulla più permetta di distinguerle dalle falsificazioni mediatiche e che, insomma, le arti, perdendo il loro proprium mitopoietico, smarriscano se stesse. Del resto, questa censura viene pronunciata non dal tribunale platonico del soprasensibile, ma da quello empirico delle cose positive: è proprio il dispotismo dell’esistente a rivelare che i diritti dell’invenzione sono sotto giudizio.
Il risultato è una duplice radicalizzazione. Da un lato, e proprio perché coartata, l’invenzione si spinge sino al meraviglioso e all’impossibile: l’Umiliazione delle stelle racconta, alla fine, l’incontro con un personaggio immaginario, che si è prodigiosamente materializzato. La fame di realtà tracolla nell’irrealismo esibito. Dall’altro, la pretesa di verità si aggrappa a quello che ne è sentito, una volta di più, come il solo luogo, l’autentico fondamento e il vero campo: non il mondo, ma il «proprio sé». Anche se questa scelta è pensata come paradossalmente etica (si imbroglia solo per essere onesti), essa è un restringimento, prima che nel campo d’azione e di scelta della materia narrabile, per l’adozione stessa di categorie morali: di fatto, l’autonomia estetica che il modernismo rivendicava e che molto postmodernismo ha eretto a feticcio è revocata. Questa duplice radicalizzazione rivela che la scrittura è sotto assedio: poiché i discorsi, le immagini e i corpi sono soggetti a una moltiplicazione e a una riproduzione che li priva di sostanza, la mossa per difendere la verità non è una mossa libera, ma di reazione. Per questo Covacich si muove polarmente tra lo scetticismo disincantato del senso comune novecentesco («Dopo la teoria della relatività, la meccanica quantistica, le geometrie non euclidee, il principio di indeterminazione, ha ancora senso parlare di realtà?» [Ac 54]) e una pretesa che lo scavalca (occorre trasmettere «la verità più vera del proprio sé, il codice cifrato di persona nascosto nelle fibre della scrittura» [Ant 75]); per questo A nome tuo, che tiene insieme parti diverse a forza di ossessioni tematiche, è comunque un libro irrisolto, e che neppure cerca di risolversi in un’unità formale. Le forme e le voci, al contrario, si possono squadernare e accostare paratatticamente, poiché sotto la loro disparità pronunciano la stessa parola: io. In modo esemplare, A nome tuo dice la condizione, le tensioni e le aporie di molta narrativa italiana contemporanea.
1 Uso queste sigle, seguite dal numero di pagina: Ant = M. Covacich, A nome tuo, Torino, Einaudi, 2011; Ac = Id., L’arte contemporanea spiegata a tuo marito, Roma-Bari, Laterza, 2011.
2 Su questo genere, sul contesto che gli dà senso e sulla bibliografia in merito rimando a R. Donnarumma, Ipermodernità. Ipotesi per un congedo dal postmoderno, «Allegoria», XXIII, 64, pp. 31-41.
3 Risvolto di A. Del Fabbro, Vi perdono, Torino, Einaudi, 2009. La fascetta rincara la dose dell’ambiguità, senza però negare esplicitamente l’esistenza di Angela: «I fatti narrati sono frutto di immaginazione. La protagonista non esiste. L’autrice non vuole apparire. Eppure non avete mai letto una storia più vera».
4 Il «ruolo antagonistico» della vita reale nei confronti della finzione letteraria è ben sottolineato da C. Savetteri, Le finzioni di Mauro Covacich, su questo stesso numero di «Arabeschi».
5 Ne studia l’evoluzione R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2002. Quanto a Tabucchi, alludo alle teorie esposte dal dottor Cardoso in Sostiene Pereira, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 122-124.
6 Cfr. M. Lavagetto, L’impiegato Ettore Schmitz e altri saggi su Svevo, Torino, Einaudi, 1986, pp. 103-107.
7 Sul significato delle patologie alimentari e di autocontrollo o autodisciplina corporea nella definizione dell’identità contemporanea, è illuminante M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Milano, Cortina, 2010.
8 È la formula di U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità [1986], Roma, Carocci, 2000.
9 Cfr. S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica [2000], Milano, Cortina, 2003, pp. 419-420.
10 Cfr. V. Romania, Identità e performance, Roma, Carocci, 2005.
11 Su questo tema, rimando a R. Donnarumma, Schermi. Narrativa italiana di oggi e televisione, in corso di stampa negli atti del convegno Negli archivi e per le strade: il “ritorno al reale” nella narrativa italiana di inizio millennio, Toronto, 6-8 maggio 2010.
12 Lo sottolinea efficacemente M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 63.