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Se la vita è rito e il corpo la sua religione, allora anche la morte può diventare cerimonia, lento protocollo dotato di stazioni ben precise, di musiche, sapori, gesti e oggetti.

Forse è questa la premessa da cui partiva l’ultimo atto della pentalogia di opere firmate da Mauro Covacich. Con la seconda parte di A nome tuo (Torino, Einaudi, 2011), già pubblicata con lo pseudonimo di Angela Del Fabbro con il titolo Vi perdono (Torino, Einaudi, 2009), la ritualità del controllo del proprio corpo, forgiato come un’opera d’arte attraverso il gesto estetico e atletico della corsa nella trilogia composta da A perdifiato, Fiona e Prima di sparire, trovava il suo compimento nella ritualizzazione della morte, del disfacimento fisico. E come in ogni cerimonia che si rispetti, per compiere questo ultimo gesto rituale serviva un sacerdote, o meglio, una sacerdotessa.

Sul ruolo di questo ‘dolce intermediario’, che accompagna all’ultima stazione i sofferenti, è giocato Miele, prima opera di regia firmata da Valeria Golino. La sacerdotessa che presiede al rito del ‘ben morire’ condensa in sé il dolce e l’amaro, la comprensione e la freddezza: una presenza invisibile, come lei stessa tiene a sottolineare. Il rito si compie senza che lei debba prenderne veramente parte, occupando solo un angolo della stanza, come l’occhio della regista e le riprese in controluce tendono a sottolineare. La cura del dettaglio di questo rito viene suggerita dalla macchina da presa che segue i singoli oggetti che compongono il cerimoniale, li bacia e li accarezza insieme allo sguardo della protagonista, che ad essi si attacca e si àncora saldamente per non lasciarsi travolgere da ciò che comportano. Non esserci è la strategia per non rivivere insieme ai suoi assistiti il momento doloroso della morte di colei che Miele non ha potuto aiutare, la madre, mai ricordata esplicitamente ma la cui assenza è appena suggerita dalle immagini sbiadite di un passato felice e lontano.

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Il 26 maggio del 2012 a Ragusa, nei locali dell'Ex Facoltà di Lingue e letterature straniere, la redazione di Arabeschi ha incontrato Mauro Covacich, che ha conversato con Mariagiovanna Italia per quasi quattro ore. Qui di seguito la trascrizione della conversazione.

«Guarda cosa è il mio corpo… guarda cosa ne faccio». Il rapporto con l’arte

D- All’interno della «pentalogia», esito di dodici anni di lavoro molto densi, le intersezioni tra scrittura, arte figurativa e arte performativa sembrano disporsi secondo quattro livelli: il primo è legato soprattutto alle opere A Perdifiato e Fiona, ed è il livello in cui l’arte figurativa viene utilizzata quasi come secondo termine di una analogia (è il caso di Fiona che va a messa vestita come Las Meniñas di Velázquez, della figurina di Chagall, della performance di Paul McCartney, della piazza di de Chirico). Perché il lettore viene immesso in questo universo iconico legato all’arte figurativa?

R- Intanto credo che io fossi in parte consapevole, nei primi due libri, del lavoro che avrei fatto, nel senso che la presenza dell’arte nella mia vita era molto forte già dall’inizio, perché io sin dai tempi dell’università, sempre da autodidatta (ad esempio non ho mai fatto un esame di storia dell’arte), ero molto interessato a questo ambito, pur non sapendo in che misura questo interesse e questa passione avrebbe potuto intervenire sul mio lavoro di scrittore. Era come una sorta di farmaco a lento rilascio che piano piano entrava dentro il mio organismo, come succede per un appassionato di cinema o di scacchi. A Perdifiato e Fiona sono ancora due momenti diversi; gli esempi a cui ti riferisci, se non ricordo male, sono tutti di Fiona, e non è un caso. In A Perdifiato io avevo cominciato a sentire che l’esperienza del corpo, così totalizzante per la mia scrittura, potesse anche dialogare in un modo più intenso con l’arte. Dalla scrittura di A Perdifiato in poi la presenza dell’arte nelle mie opere ha cominciato a essere non solamente una forma di espressione ma anche una specie di limite: come se potessi avere dall’altra parte, in un altro territorio, una forza d’attrazione che mi permettesse di uscire da un cul-de-sac, già dall’inizio, già mentre scrivevo A Perdifiato, però era una cosa che non avrei saputo razionalizzare.

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Many voices speak in Mauro Covacich's A nome tuo (2011): the author himself, in a piece of autofiction; a fictitious character, who has written a long memoir; an anonymous academic, who accuses him of lying with regard to a video installation. This multiplicity of voices attests to the dispersion of the Self, but also to its tyranny. Covacich actually aims at vouching for the truthfulness of the text, and he engages in a paradoxical struggle against fiction as a factor of derealization. The body art performance therefore becomes his model, thus giving rise to a contradiction: Discourse can only be grounded on the Self, i.e. on the body – but the body can't guarantee the reality of the Self. One can only «cheat while remaining honest», in a desperate (and exemplary) attempt to escape the paper prison of fiction.

Voci

A nome tuo di Covacich si compone non di tre parti, come sembrerebbe, ma di quattro.[1]L’umiliazione delle stelle è una sorta di diario di un viaggio in nave: Mauro Covacich presenta in alcune città della costa orientale dell’Adriatico un video in cui, monitorato da vari elettrodi, corre su un tapis roulant per tre ore. Nella sua cabina si nasconde una giovane donna di colore, Angela del Fabbro (il cognome traduce lo slavo Kovačić), con la quale Mauro intreccia una relazione combattuta e appassionata. Per sua richiesta, deve scrivere la storia della propria famiglia, intercalata nel diario sotto forma di Appunti per il romanzo di Angela del Fabbro. Alla fine, Mauro scopre che Angela è Fiona, la bambina haitiana adottata due volte che è uno dei personaggi principali dei suoi romanzi: non è viva, ma è uscita dalla sua testa. Dovrà però spiegare alla compagna Susanna, tornato a Trieste, cosa sia accaduto durante il viaggio. Musica per aeroporti è il racconto di Angela del Fabbro, che pratica l’eutanasia a malati terminali con un farmaco che si procura in Messico. Sconvolge la sua attività l’incontro con Grimaldi, un vecchio milanese che vuole porre fine alla propria vita solo perché stanco di vivere, e in nome della libertà di decidere. Angela, che si rifiuta di aiutarlo, si innamora di lui. Questi la respinge, e a lei non resta che consegnargli il farmaco letale. Ignara della sorte di Grimaldi, torna dal padre vedovo. Qui, decide di scrivere la propria storia, che è quella che abbiamo letto. La lettera, tradotta da Angela del Fabbro e stesa da un’anonima accademica croata, accusa Covacich di aver prodotto, con il video L’umiliazione delle stelle, un falso: l’uomo che si vede correre è solo un suo sosia; ma pure ammettendo che sia lui davvero, comunque la volontà di assoluta trasparenza nell’esibizione di sé è un’impostura. Conclude il testo la Nota di nemmeno una pagina in cui Mauro Covacich rassicura che «niente di ciò che racconta qui è accaduto realmente», sebbene abbia compiuto davvero un viaggio per mare e ne abbia tratto delle note uscite su rivista; inoltre, rivela che una prima versione di Musica per aeroporti era stata pubblicata da Einaudi nel 2009, con il titolo Vi perdono e a nome di Angela del Fabbro. Il video L’umiliazione delle stelle esiste realmente.

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