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Se la vita è rito e il corpo la sua religione, allora anche la morte può diventare cerimonia, lento protocollo dotato di stazioni ben precise, di musiche, sapori, gesti e oggetti.

Forse è questa la premessa da cui partiva l’ultimo atto della pentalogia di opere firmate da Mauro Covacich. Con la seconda parte di A nome tuo (Torino, Einaudi, 2011), già pubblicata con lo pseudonimo di Angela Del Fabbro con il titolo Vi perdono (Torino, Einaudi, 2009), la ritualità del controllo del proprio corpo, forgiato come un’opera d’arte attraverso il gesto estetico e atletico della corsa nella trilogia composta da A perdifiato, Fiona e Prima di sparire, trovava il suo compimento nella ritualizzazione della morte, del disfacimento fisico. E come in ogni cerimonia che si rispetti, per compiere questo ultimo gesto rituale serviva un sacerdote, o meglio, una sacerdotessa.

Sul ruolo di questo ‘dolce intermediario’, che accompagna all’ultima stazione i sofferenti, è giocato Miele, prima opera di regia firmata da Valeria Golino. La sacerdotessa che presiede al rito del ‘ben morire’ condensa in sé il dolce e l’amaro, la comprensione e la freddezza: una presenza invisibile, come lei stessa tiene a sottolineare. Il rito si compie senza che lei debba prenderne veramente parte, occupando solo un angolo della stanza, come l’occhio della regista e le riprese in controluce tendono a sottolineare. La cura del dettaglio di questo rito viene suggerita dalla macchina da presa che segue i singoli oggetti che compongono il cerimoniale, li bacia e li accarezza insieme allo sguardo della protagonista, che ad essi si attacca e si àncora saldamente per non lasciarsi travolgere da ciò che comportano. Non esserci è la strategia per non rivivere insieme ai suoi assistiti il momento doloroso della morte di colei che Miele non ha potuto aiutare, la madre, mai ricordata esplicitamente ma la cui assenza è appena suggerita dalle immagini sbiadite di un passato felice e lontano.

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