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La solitudine e l’inquietudine sono tratti peculiari delle figure femminili nel cinema di Silvio Soldini. Le acrobate (1997) è l’opera in cui è manifestamente mostrato come l’inatteso incrocio tra singole vite attivi uno stretto rapporto tra personaggi femminili e in qual modo l’intima corrispondenza venutasi a creare sia anche generata, in una sorta di prolungamento metaforico, da spazi, paesaggi e cose.

Il film narra l’incontro e l’intenso legame che, in maniera repentina e inattesa, si instaura tra donne di età diverse, accomunate da un senso di solitudine, inaspettatamente interrotto dall’incrocio casuale delle loro vite. Elena, elegante quarantenne, chimica con funzioni di dirigenza in un'industria di Treviso, trascorre le proprie giornate immersa nel lavoro. Una transitoria relazione con un uomo sposato è l’unica traccia di affettività che alimenta una dimensione esistenziale insoddisfacente. Anita, anziana donna di origine bulgara, che vive totalmente isolata nel proprio appartamento, viene incidentalmente investita da Elena nell’oscurità di una sera piovosa. La sua figura, dopo la morte, fungerà da vettore narrativo, affinché la donna conosca l’altra protagonista: Maria, che trascorre a Taranto la propria esistenza in una precaria situazione economica. Imprigionata in una condizione familiare che l’ha costretta a rinunciare a progetti e aspirazioni, Maria, in una improvvisa fuga, raggiunge Elena a Treviso insieme alla propria figlia, Teresa, ragazzina attratta da esperimenti chimici. Le tre figure femminili, una volta riunite, si recano sul Monte Bianco in un viaggio che, oltre a rappresentare una temporanea apertura, rafforza un'amicizia costruita su un sentire alimentato dalla possibilità di provare una sensazione di appagante e gioiosa leggerezza, anche se circoscritta al tempo limitato del loro incontro. Il passaggio dalle due pianure, quella veneta e quella pugliese, alla bellezza ascetica della montagna, diviene traiettoria allusiva di un movimento interiore delle protagoniste. «La neve sulla montagna», afferma Soldini, «significa […] alzarsi sopra il mondo, guardare tutto dall’alto e arrivare a un silenzio che sia davvero silenzio» (riportato in De Vincenti 1997).

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Poco più di un anno fa Costanza Quatriglio scriveva un intenso pamphlet* in cui poneva al centro della sua lucida riflessione la forza (e la necessità) di un ‘cinema dell’attenzione’, capace di superare i vincoli e le censure di produttori e case di distribuzione. Riproponiamo oggi quel testo per ribadire l’urgenza di un cambio di rotta delle logiche di produzione e per rivendicare uno spazio di libertà e d’azione che consenta agli autori di costruire una sempre più convincente ‘drammaturgia della realtà’.

In Italia, negli ultimi dieci anni, è fiorito un cinema che mi piace definire il ‘cinema dell’attenzione’. È quel cinema fortemente legato al sentimento del nostro tempo, che fa dell’ascolto la sua forza, dell’esperienza il proprio fondamento. Nel cinema dell’attenzione la restituzione è qualcosa di più del risultato di un procedimento di analisi e sintesi; ha a che fare con l’interpretazione e con la scelta del punto di vista, quello attraverso cui ogni cosa ha valore perché fa parte di un disegno organico, coerente, di bellezza e necessità, che è la drammaturgia.

È un cinema capace di raccogliere le istanze di comprensione del presente, di cittadinanza, di partecipazione. Usa l’esperienza come veicolo per raccontare storie importanti, che ci riguardano, per proporre personaggi che siano davvero nella Storia, capaci di cogliere le trasformazioni e interpretare il proprio tempo. È sorprendente trovarsi nel mezzo della Storia e capire che puoi esserci, devi esserci. Perché le tue storie e i tuoi personaggi sono radicati nel loro tempo e portano con sé il futuro, perché le vicende che li riguardano parlano di tutti noi, di chi siamo e di cosa diventeremo.

È il cinema che si interroga sul linguaggio, che non ha paura di mescolare il documentario con la finzione, che non si considera sperimentale quando usa entrambi i linguaggi, perché entrambi i linguaggi li ha praticati, assimilati.

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Se la vita è rito e il corpo la sua religione, allora anche la morte può diventare cerimonia, lento protocollo dotato di stazioni ben precise, di musiche, sapori, gesti e oggetti.

Forse è questa la premessa da cui partiva l’ultimo atto della pentalogia di opere firmate da Mauro Covacich. Con la seconda parte di A nome tuo (Torino, Einaudi, 2011), già pubblicata con lo pseudonimo di Angela Del Fabbro con il titolo Vi perdono (Torino, Einaudi, 2009), la ritualità del controllo del proprio corpo, forgiato come un’opera d’arte attraverso il gesto estetico e atletico della corsa nella trilogia composta da A perdifiato, Fiona e Prima di sparire, trovava il suo compimento nella ritualizzazione della morte, del disfacimento fisico. E come in ogni cerimonia che si rispetti, per compiere questo ultimo gesto rituale serviva un sacerdote, o meglio, una sacerdotessa.

Sul ruolo di questo ‘dolce intermediario’, che accompagna all’ultima stazione i sofferenti, è giocato Miele, prima opera di regia firmata da Valeria Golino. La sacerdotessa che presiede al rito del ‘ben morire’ condensa in sé il dolce e l’amaro, la comprensione e la freddezza: una presenza invisibile, come lei stessa tiene a sottolineare. Il rito si compie senza che lei debba prenderne veramente parte, occupando solo un angolo della stanza, come l’occhio della regista e le riprese in controluce tendono a sottolineare. La cura del dettaglio di questo rito viene suggerita dalla macchina da presa che segue i singoli oggetti che compongono il cerimoniale, li bacia e li accarezza insieme allo sguardo della protagonista, che ad essi si attacca e si àncora saldamente per non lasciarsi travolgere da ciò che comportano. Non esserci è la strategia per non rivivere insieme ai suoi assistiti il momento doloroso della morte di colei che Miele non ha potuto aiutare, la madre, mai ricordata esplicitamente ma la cui assenza è appena suggerita dalle immagini sbiadite di un passato felice e lontano.

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