«Guarda cosa è il mio corpo… guarda cosa ne faccio». Il rapporto con l’arte
D- All’interno della «pentalogia», esito di dodici anni di lavoro molto densi, le intersezioni tra scrittura, arte figurativa e arte performativa sembrano disporsi secondo quattro livelli: il primo è legato soprattutto alle opere A Perdifiato e Fiona, ed è il livello in cui l’arte figurativa viene utilizzata quasi come secondo termine di una analogia (è il caso di Fiona che va a messa vestita come Las Meniñas di Velázquez, della figurina di Chagall, della performance di Paul McCartney, della piazza di de Chirico). Perché il lettore viene immesso in questo universo iconico legato all’arte figurativa?
R- Intanto credo che io fossi in parte consapevole, nei primi due libri, del lavoro che avrei fatto, nel senso che la presenza dell’arte nella mia vita era molto forte già dall’inizio, perché io sin dai tempi dell’università, sempre da autodidatta (ad esempio non ho mai fatto un esame di storia dell’arte), ero molto interessato a questo ambito, pur non sapendo in che misura questo interesse e questa passione avrebbe potuto intervenire sul mio lavoro di scrittore. Era come una sorta di farmaco a lento rilascio che piano piano entrava dentro il mio organismo, come succede per un appassionato di cinema o di scacchi. A Perdifiato e Fiona sono ancora due momenti diversi; gli esempi a cui ti riferisci, se non ricordo male, sono tutti di Fiona, e non è un caso. In A Perdifiato io avevo cominciato a sentire che l’esperienza del corpo, così totalizzante per la mia scrittura, potesse anche dialogare in un modo più intenso con l’arte. Dalla scrittura di A Perdifiato in poi la presenza dell’arte nelle mie opere ha cominciato a essere non solamente una forma di espressione ma anche una specie di limite: come se potessi avere dall’altra parte, in un altro territorio, una forza d’attrazione che mi permettesse di uscire da un cul-de-sac, già dall’inizio, già mentre scrivevo A Perdifiato, però era una cosa che non avrei saputo razionalizzare.