Pier Paolo Pasolini. Tutto è santo, a cura di M. Di Monte, G. Ferracci, G. Garrera, F. Gennari Santori, H. Hanru, C. Pietroiusti, B. Pietromarchi, C. Tosi Pamphili

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«Tutto è santo», declama il saggio Chirone nella Medea di Euripide da cui è tratto l’omonimo film di Pier Paolo Pasolini (1969). Da questa battuta è stato derivato il titolo complessivo delle tre mostre Pier Paolo Pasolini. Tutto è santo, nate dalla collaborazione tra Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Barberini e MAXXI di Roma e visitabili da ottobre 2022 a febbraio 2023. Il titolo comune apre a tre diversi sottotitoli che affermano la centralità del corpo, rispettivamente Il corpo poetico, Il corpo veggente e Il corpo politico; per questo verrebbe da pensare che le mostre piuttosto ci dicano che ‘tutto è corpo’.

Sebbene le intenzioni della tripartizione siano chiare – la prima mostra è dedicata al Pasolini autore (letterario, cinematografico, teatrale), la seconda a Pasolini come artista figurativo e la terza alla sua figura di intellettuale militante –, si nutre l’impressione che i discorsi su Pasolini – e quindi anche sul suo corpo – siano impossibili da suddividere in aree tematiche nettamente distinte, e che una riflessione su un certo aspetto si insinui anche là dove non era prevista, ripresentandosi a tradimento in una esposizione piuttosto che in un’altra. Più utile sembra allora proporre un itinerario trasversale rispetto ai tre spazi espositivi, attraverso il quale affrontare alcuni dei materiali inediti e delle feconde questioni che emergono dalla mostra nel suo complesso: il corpo come ‘struttura organica’ e come ‘verbo’.

Essere ‘corpo’ per Pasolini vuol dire abbandonarsi a un ‘moto regressivo’ verso una materia ancora informe, non plasmata, salva quanto più possibile da qualsiasi lavoro di astrazione e simbolismo. Sarebbe un errore pensare al corpo pasoliniano unicamente come forma dell’umano – per quanto, come la mostra evidenzia, l’umano rimanga centrale nella sua opera. In questo senso può essere ‘corpo’ un paesaggio, un sentimento, un ricordo, un suono. In definitiva, nella poetica pasoliniana ‘corporeo’ diventa sinonimo di un aggettivo che Ejzenštejn utilizzava per togliersi di impaccio quando voleva intendere un movimento di forme che avvicinasse una condizione primordiale, uterina: ‘sensuoso’. La corporeità riguarda in Pasolini tutto ciò che ha a che fare con la sensorialità; una ‘barbarie’ che precede la civiltà e che accomuna, in una dimensione che talvolta sembra sfiorare un animismo pre-cristiano, ogni elemento di vita.

Ecco perché ‘struttura organica’ – sulla scia di pensieri filosofici come quelli di Bruno, Ficino, Campanella – sembra l’espressione più adatta a racchiudere, anche nel rischio di incorrere in un’‘eresia empirica’, la concezione pasoliniana di un ‘corpo-materia’. Attraverso di esso l’autore guarda alla forma come a un insieme complesso di stadi attraverso cui, come scriveva in Passione e ideologia, l’individuo tenta costantemente un viaggio regressivo «lungo i gradi dell’essere», fino a giungere, anche dove si è partiti dall’umano, al «sub-umano» (P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 2023).

Un percorso regressivo a cominciare dal ‘volto’ – lemma iniziale della mostra a Palazzo delle Esposizioni – non come piano di espressione ‘liscio’ bensì come ‘macchia’ rivoluzionaria distinguibile nell’uniformità del collettivo, come «un negro in un quartiere di anglosassoni» (scrive Pasolini nel 1968 in un articolo sul Tempo). Anche il segno più canonico del linguaggio ritrattistico diventa così in Pasolini un gesto, un guizzo di diversità, una reazione al conformismo – basti pensare ad Accattone nel buio, sul ciglio del Tevere, mentre si infanga la faccia guardando con un’aria inerme e al contempo di sfida i compagni. Così come le mani di Pasolini, riprese in alcune fotografie nella sede del MAXXI, sono mani sempre operative, in movimento: mani che si contorcono nelle interviste, dita che battono alacremente a macchina. O ancora il suo corpo che si presta, attraverso la camicia bianca, a diventare superficie di rappresentazioni, quelle del suo Vangelo, in un happening del 1975 a Bologna ideato dall’artista visivo Fabio Mauri e riproposto in un’installazione al MAXXI.

L’organicità della materia si sottopone, attraverso l’arte, a possibili rifigurazioni: il corpo in costume del cinema (al Palazzo delle Esposizioni moltissimi sono i costumi originali cuciti da sartorie importanti come Farani e Tirelli), ma soprattutto il corpo disegnato dalla pittura, attorno al quale si concentra l’intera mostra di Palazzo Barberini. A essere interessanti, più che gli accostamenti canonici tra i vari San Giovanni Battista (Caravaggio, De Boulogne) e i corpi cristici de Il Vangelo, tra i crocifissi di Romanino e la passione de La ricotta, sono le assonanze interne allo stesso cinema di Pasolini. Come se quella ‘figurabilità’ delle forme in grado di tradurre il corpo pittorico in corpo cinematografico dimorasse anche autonomamente nell’opera del regista, le cui forme ripetono a tratti figure gemelle: i corpi nudi di Bacon sul libro che sfoglia Paolo in Teorema e quelli aggrovigliati nelle marane del documentario di Cecilia Mangini (1961) a esse dedicato, Mamma Roma circondata dai vicini alla finestra, poco prima di lanciare quel famoso sguardo alla cupola del San Giovanni Bosco in lontananza, e la Madonna de Il Vangelo sorretta dagli astanti mentre assiste alla morte del figlio.

Corpi come gesti, come rivoluzioni, come figure. Più di ogni altra cosa, corpi in perenne movimento. Colpisce come la passione di Pasolini per lo sport e in particolare per il calcio venga evidenziata sia in qualità di ‘corpo poetico’ che ‘politico’: le ‘partitelle’ all’EUR o allo Stadio Flaminio diventano metafora di una ricerca costante di condivisione, progettualità, espressione creativa radicata direttamente nelle azioni di chi gioca. Tanto che Pasolini racconta di aver sognato, una notte, di scendere in macchina da Monteverde al Trullo e di essere a un tratto chiamato da un passante per andare a fare due tiri a pallone, ritrovandosi poi in campo con i compagni di squadra di una vita – Levi, Moravia, Morante, Debenedetti, Bertolucci, Maraini, Ginzburg, Gadda, Bassani, Fortini, Sartre – in un ‘corpo a corpo’ con intellettuali le cui riflessioni popolano molte delle teche delle tre mostre.

Il dimorare del corpo nell’organico, che fa di esso una protuberanza di un movimento nato internamente e che al tutto indistinto da cui origina vuole continuamente riconnettersi, si manifesta prepotentemente: ecco che a intervenire è allora il ‘Femminile’ (come è intitolata una sezione al Palazzo delle Esposizioni), composto di figure plurime – la madre dell’artista, le sue attrici (Betti, Magnani, Mangano, Callas), le femministe con le quali ragionava (Lonzi, Fallaci) – e allo stesso tempo riconducibile a un solo liquido uterino al quale Pasolini desidera incessantemente tornare.

Al MAXXI sono esposti i manoscritti in cui l’autore riflette sulla legalizzazione dell’aborto e sul perché sente di non essere d’accordo. La spiegazione, per sua stessa ammissione, sta nell’utopia dell’utero come rifugio sicuro che da nessuno deve essere in alcun modo violato: «Nei sogni io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne». Durante la veglia, Pier Paolo sostituisce al liquido uterino l’acqua stagnante del Tevere in cui (come Accattone) ama tuffare il suo corpo nudo – rappresentato da numerose fotografie esposte al Palazzo delle Esposizioni all’interno della sezione dedicata a Roma come ‘città sodomica’. È proprio tra le strade di quel ‘bordello a cielo aperto’ che il giovane poeta si abbandona totalmente alla ricerca e alla scoperta della propria sessualità.

Forse, possiamo ipotizzare, il corpo carnale non è il primo che Pasolini scopre. A Casarsa, durante l’adolescenza, la prima corporeità che assapora è quella della parola: ecco così una seconda, importantissima manifestazione del corpo, che avviene attraverso la materia sonora del ‘verbo’. Ab-joy­­ – ‘per gioia’ in provenzale –­ come il canto di un usignolo. Attraverso la musica dei versi passa, anche quando e anzi proprio perché a contare è la materia fonetica (il ritmo, le assonanze e le consonanze, i neologismi incomprensibili del dialetto), quella forza ‘rabbiosa’ e trasformativa che manca alle finte rivoluzioni borghesi che costituiscono, com’è noto, un bersaglio polemico da parte dello scrittore. Anche le canzonette di Sanremo devono allora riconfigurarsi in un’Antologia della poesia popolare (1955) che opponga alla mercificazione delle parole consumiste il ‘giro a vuoto’ delle sonorità popolari – nel 1960 lui stesso, per il Teatro Gerolamo di Milano, scrive alcuni brani (Il valzer della toppa, Macrì Teresa della pazzia, Cristo al mandrione, Ballata del suicidio).

La parola diventa spesso voce, diffusa nelle sale delle mostre attraverso gli altoparlanti: la voce di Pasolini che discute, legge, recita, e quella della cugina Graziella Chiarcossi (al MAXXI), che testimonia del passato di ragazzo dell’autore ma anche di come ha trovato la scrivania dopo la sua morte e delle edizioni postume che lei stessa ha curato, insistendo molto su come la formazione di Pasolini sia stata ‘triglotta’, se si considerano l’italiano dello scritto, il veneto della borghesia e il friulano dei contadini. Come il corpo carnale ha bisogno di tornare alla dimensione del sensuoso, dell’organico, del materiale, quello linguistico non può smettere di affondare le radici in quell’oralità di cui Pasolini non smette di scrivere (pensiamo a saggi come Il cinema e la lingua orale, Appunti en poète per una linguistica marxista, ma anche al celebre Manifesto per un nuovo teatro). La violenza espressiva della realtà può essere tradotta linguisticamente solo da una parola poetica in grado di riattivare, nelle forme orali della sua espressione, la forza dell’agire corporeo che avviene sul piano della prassi.

In una delle teche del MAXXI è commovente in questo senso la lettera che Pasolini scrive a Eduardo De Filippo dopo aver steso il primo canovaccio di Porno-Teo-Kolossal (poi mai realizzato) in cui l’attore napoletano avrebbe dovuto recitare. Lo scrittore dice di volersi affidare completamente all’anima epifanica, onirica, «de-realizzante» di Eduardo, e ammette di aver deciso anche per questo di non scrivere la sceneggiatura ma di dettarla improvvisando a un registratore, perché restasse libera, «almeno linguisticamente, orale».

Una «decisione per il logos», per il suo ‘corpo’, come scrive Didi-Huberman in Sentire il grisou (Nocera Inferiore, Orthotes, 2021, p. 69) diventa così, ad esempio in un film come La rabbia, l’unica vera possibilità di rompere lo stato d’emergenza e di smontare le ideologie dominanti, a costo di essere sbeffeggiati da chi lo taccia di impegnarsi politicamente ‘in versi alessandrini’. È, nel caso del film di montaggio del 1963, la voce poetica recitata in fuori campo dall’amico Giorgio Bassani, più che quelle didascaliche dei cinegiornali, ad autenticare nel profondo le immagini di repertorio ‘ricambiandone’ (per usare un termine barthesiano) liricamente il senso. D’altronde il dileggio sui giornali (Il borghese, Il travaso delle idee, per citarne solo due dei tanti esposti al Palazzo delle Esposizioni) fallisce proprio quando tenta di combattere il corpo linguistico di Pasolini attraverso l’escamotage cronachistico dello sbeffeggiamento («Da Accatone ad accademico», per menzionare solo uno dei tanti giochi di parole). Di fronte al verbo pasoliniano, il linguaggio polemico non può che sclerotizzarsi in battute da quattro soldi, prive di qualsiasi adesione a un piano di realtà.

Il corpo di Pasolini resiste. E in effetti, camminando attraverso le sale delle tre esposizioni, grida la sua assenza il corpo ultimo dell’uomo, quello impresso nella mente di molti, massacrato sull’asfalto dell’Idroscalo di Ostia. A conferma del fatto che corpo è vita e i simulacri possono essere lasciati a quelli che Elsa Morante chiamava i «mutanti».