Come può una delle opere letterarie più antiche rivelarsi tanto attuale? Come è possibile farla rivivere a teatro? La strada da seguire è quella che conduce alla seduzione della narrazione; una narrazione in cui la parola si fa musica, diviene canto di dolore e voce ‘universale’. L’epopea di Gilgamesh narra le vicende del potente re di Uruk. In principio molto temuto e poco amato dai suoi sudditi, Gilgamesh si mostra arrogante e assetato di potere e di piacere, tanto da rubare la verginità alle spose il giorno delle nozze. Ascoltando le preghiere degli abitanti della città, la Grande Madre Aruru, su ordine di Anu, il Padre del Cielo, plasma con un pezzo di argilla il forte Enkidu, il doppio del sovrano, l’unico in grado di fronteggiarlo e di liberare il popolo dai suoi soprusi. I due si scontrano, ma quando la lotta termina Gilgamesh e l’avversario si riconoscono amici fraterni e invincibili. Con Enkidu il sovrano perde il suo animo inquieto e colmo di collera. I due personaggi iniziano ad affrontare insieme sfide pericolose, uccidono il gigante Humbaba e il Toro Celeste; imprese che gli dei condannano, privando il re del suo amico. Enkidu muore, Gilgamesh sprofonda in un dolore indescrivibile e inizia il suo viaggio alla ricerca dell’immortalità. Grazie al barcaiolo Urshanabi giunge al cospetto di Utanapisti – unico sopravvissuto al diluvio universale e personaggio al quale gli dei avevano concesso la vita eterna – e acquisisce consapevolezza della precarietà dell’esistenza. La vicenda, dunque, ruota intorno a un viaggio di trasformazione interiore, ai grandi interrogativi che l’uomo si pone di fronte al mistero della morte e al dolore della perdita e del lutto; sentimenti, questi, che attraversano le epoche e i confini geografici e che investono l’intera umanità.

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