Come può una delle opere letterarie più antiche rivelarsi tanto attuale? Come è possibile farla rivivere a teatro? La strada da seguire è quella che conduce alla seduzione della narrazione; una narrazione in cui la parola si fa musica, diviene canto di dolore e voce ‘universale’. L’epopea di Gilgamesh narra le vicende del potente re di Uruk. In principio molto temuto e poco amato dai suoi sudditi, Gilgamesh si mostra arrogante e assetato di potere e di piacere, tanto da rubare la verginità alle spose il giorno delle nozze. Ascoltando le preghiere degli abitanti della città, la Grande Madre Aruru, su ordine di Anu, il Padre del Cielo, plasma con un pezzo di argilla il forte Enkidu, il doppio del sovrano, l’unico in grado di fronteggiarlo e di liberare il popolo dai suoi soprusi. I due si scontrano, ma quando la lotta termina Gilgamesh e l’avversario si riconoscono amici fraterni e invincibili. Con Enkidu il sovrano perde il suo animo inquieto e colmo di collera. I due personaggi iniziano ad affrontare insieme sfide pericolose, uccidono il gigante Humbaba e il Toro Celeste; imprese che gli dei condannano, privando il re del suo amico. Enkidu muore, Gilgamesh sprofonda in un dolore indescrivibile e inizia il suo viaggio alla ricerca dell’immortalità. Grazie al barcaiolo Urshanabi giunge al cospetto di Utanapisti – unico sopravvissuto al diluvio universale e personaggio al quale gli dei avevano concesso la vita eterna – e acquisisce consapevolezza della precarietà dell’esistenza. La vicenda, dunque, ruota intorno a un viaggio di trasformazione interiore, ai grandi interrogativi che l’uomo si pone di fronte al mistero della morte e al dolore della perdita e del lutto; sentimenti, questi, che attraversano le epoche e i confini geografici e che investono l’intera umanità.
Di recente, sono stati tre narratori d’eccezione a mettere in scena la trasposizione teatrale del poema, Gilgamesh. L’epopea di colui che tutto vide: Giovanni Calcagno, responsabile anche della regia, Vincenzo Pirrotta e Luigi Lo Cascio. I tre attori hanno dato vita a uno spettacolo costruito attraverso immagini visive, ritmiche e uditive di rara bellezza, in cui ogni frammento innesca momenti di riflessione sui grandi temi dell’esistenza. La ricerca dell’immortalità diviene infatti il pretesto per condurre un viaggio parallelo, introspettivo, sul valore dei legami umani, sul rapporto tra l’uomo e la divinità, sull’amicizia, sul nesso tra civilizzazione e libertà. Gli interpreti, inoltre, propongono tre modi diversi di narrare: diverso è il ritmo, diverso è l’utilizzo del corpo e della voce, diversi sono i ruoli. Ma proprio in questo slittamento continuo tra mondi narrativi differenti risiede la cifra espressiva dello spettacolo, caratterizzato anche da una efficace coloritura emotiva.
Giovanni Calcagno inizia lentamente, fornisce descrizioni di personaggi, narra antefatti e, preparando il pubblico a viaggiare dentro e con il racconto, genera il desiderio di sapere come si sviluppa l’azione, senza mai perdere di vista il suo ruolo di narratore; egli incarna con lucidità la voce epica del racconto.
La narrazione di Luigi Lo Cascio, invece, si attiene maggiormente al testo. Leggendo il libro che a volte tiene tra le mani, l’attore racconta il dolore di Gilgamesh per la morte dell’amico Enkidu e dà corpo alla dimensione corale del suo pianto: «Piangetelo giorno e notte, piangetelo senza sosta, senza riposo! Tu cortigiana che gli insegnasti l’amore tra gli uomini, che massaggiasti il suo corpo con gli oli più preziosi, piangilo, piangilo». Insieme alla recitazione di Lo Cascio, inoltre, è a due marionette che Calcagno affida il compito di rappresentare il tormento del protagonista. Manovrate a vista dallo stesso regista e da Pirrotta, esse emergono prima sullo sfondo come ombre e solo successivamente prendono consistenza e diventano chiaramente visibili agli spettatori. I loro movimenti accompagnano la voce narrante e restituiscono visivamente la sofferenza di Gilgamesh: alla fine le marionette giacciono a terra una sull’altra ai piedi dei tre narratori che, fermi, partecipano al dolore come in una veglia funebre.
Vincenzo Pirrotta veste invece i panni di guida del deserto, narra le battaglie, i pericoli, il viaggio alla ricerca dell’immortalità intrapreso dal re dopo la morte dell’amico. Mentre la narrazione di Lo Cascio si concentra sulla forza del testo scritto, Pirrotta si riallaccia a una narrazione orale che affonda le radici nel teatro popolare e rituale. Nei momenti di maggiore concitazione l’attore utilizza la tecnica del ‘cuntu’, anche se con modalità diverse rispetto ai vecchi cuntisti, compreso Mimmo Cuticchio, suo maestro. L’interprete, infatti, amplificando il ruolo giocato dal ritmo fonatorio, opera una spettacolarizzazione dei moduli espressivi propri del cuntu. Esso viene inserito nello scorrere della narrazione in maniera quasi impercettibile, attraverso una semplice alterazione del tono della voce, una particolare scansione ritmica o una resa più accentuata dei movimenti del corpo. Ma quando racconta la furia che contraddistingue la battaglia con il potente Humbaba, il narratore impugna la spada, la fa roteare, entra rapidamente nella fase sincopata e la esaspera fino a realizzare un vortice sonoro di grande effetto.
Al termine di questo continuo cambio di marcia, il cuntista abbandona la tecnica e intreccia la narrazione epica con la comicità tipica della cultura popolare, facendo ricorso a un tono colloquiale e all’utilizzo del dialetto siciliano. Le reazioni del pubblico non tardano ad arrivare; l’attore suscita ilarità – a dimostrazione che quella lingua a lui tanto cara non rappresenta un limite bensì una risorsa – e si sposta, dunque, su un piano narrativo differente, caratterizzato dal fluire semplice e naturale dei gesti, degli sguardi e delle parole.
L’uso del dialetto e l’impiego dei ritmi e delle sonorità del cuntu sono i tratti peculiari del mondo orale convocato dalla performance di Pirrotta, che appare dunque distante dalle posture recitative di Calcagno e di Lo Cascio. Tuttavia, benché si tratti di tre monologhi e di tre diversi modi di narrare, non si avverte quasi mai un senso di frammentarietà. I narratori approdano a un teatro verità che parte da situazioni e da luoghi straordinari per ancorarsi alla realtà e agli aspetti del vivere quotidiano. Imprese eroiche ed eventi mitici rappresentano uno sfondo da cui emerge un’importante lezione di vita: «I tuoi giorni trascorrili nella gioia. Danza, divertiti, rimettiti le vesti più belle, cospargiti il corpo degli unguenti più preziosi, mangia, bevi, saziati dell’amore di tua moglie, prendi tuo figlio per mano e sii felice».[1]
A questa esortazione – che può assumere una valenza generale e collocarsi al di fuori da una precisa storicizzazione – si affiancano le conclusioni di Utanapisti nel momento in cui afferma, in riferimento al diluvio universale: «Poi vidi quel che vidi: intorno solo acqua e tutta l’umanità tornata dall’argilla da cui era venuta».[2] E anche le parole pronunciate da Gilgamesh negli istanti in cui racconta a Urshanabi della morte dell’amico Enkidu mettono in luce la centralità del motivo della terra, considerata origine e fine di ogni cosa: «La morte me l’ha rubato. Ho cominciato a vagare nel deserto, senza pace, senza riposo. Perché anch’io un giorno avrò lo stesso destino. Anch’io ritornerò alla terra da cui sono venuto».[3]
La scenografia ricostruisce proprio tale mondo color ocra, minimale, in cui le pietre simboleggiano il mistero della vita e della morte. Anche le composizioni video, realizzate da Alessandra Pescetta, sintetizzano nei colori e nelle tonalità questa doppia valenza della terra e, accompagnando la narrazione, sviluppano simultaneamente, a livello visivo, i principali temi dello spettacolo. Grazie a un impianto registico solido e ben strutturato, gli elementi scenici – a cui non sono certamente estranee neanche le sonorità essenziali della musica – concorrono quindi alla creazione di un’atmosfera densa di sollecitazioni sensoriali, capace di azzerare la distanza tra passato e presente. Si tratta di un’operazione drammaturgica coraggiosa, e gli applausi del pubblico ne sono stati la prova.
Spettacolo visto il 2 marzo 2023, Teatro Carcano (Milano)
Testo e regia Giovanni Calcagno; con Luigi Lo Cascio, Vincenzo Pirrotta e Giovanni Calcagno; composizioni video Alessandra Pescetta; musiche originali Andrea Rocca; disegno luci Vincenzo Bonaffini; foto di scena Luca Del Pia; consulenza scientifica Luca Peyronel; produzione Emila Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; durata 1 ora e 30 minuti.
1 G. Calcagno, Gilgamesh. L’epopea di colui che tutto vide, prefazione di L. Peyronel, Catania, Mesogea, 2022, p. 124 (si cita dal testo da cui è tratto lo spettacolo).
2 Ivi, p. 149.
3 Ivi, p. 129.