8.1. Il mio cuore umano: una voce nel vento. Intervista a Costanza Quatriglio

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D: Come nasce l’idea di dedicare un film a Nada?

R: Il punto d’origine del documentario Il mio cuore umano è stata la partecipazione alla presentazione dell’omonimo romanzo di Nada alla Feltrinelli di Roma, alla quale ricordo partecipò anche Monicelli – con cui ebbi modo di parlare a lungo del mio film L’isola...

In quell’occasione scattò subito il desiderio di raccontare quello che possiamo definire ‘il buco nero’ della biografia di Nada, cioè il nodo della sua infanzia. Il libro di Nada, infatti, racconta un’epoca lontana: Nada bambina in Maremma tra genitori semplici e contadini, suore affettuose e zie petulanti, viali assolati e lunghe camminate nei campi bui per sfidare la paura. E poi un tarlo, una ferita aperta: la madre malata di depressione che nei momenti in cui stava bene voleva a tutti costi che la figlia valorizzasse la voce potente facendole frequentare un maestro di canto, che nei ricordi di Nada, naturalmente, era segaligno e antipatico. Il racconto finisce su un treno, lo stesso che portò Nada bambina a diventare diva inconsapevole, pronta ad attraversare i tempi e le epoche della canzone italiana con la forza della propria incoscienza.

Leggendo il libro ho subito capito che mi sarei divertita a trovare i percorsi visivi e sonori per il ‘suo’ cuore umano. Dopo averla incontrata ed essere riuscita a conquistare la sua fiducia, ho scritto un canovaccio già diviso in tre parti, che lasciava intravedere la struttura narrativa che il film di lì a poco avrebbe assunto. La narrazione procede infatti per canzoni e intreccia le tre età di Nada. Racconto Nada oggi alla luce della bambina che fu, rivivendo con lei suggestioni e ricordi.

 

D: Il documentario concede grande spazio alla forza della scrittura, a più riprese Nada legge davanti alla macchina da presa passi del suo stesso libro, in un interessante, e pressoché inedito, processo di messa in abisso di sé. Che valore hanno queste sequenze?

R: Ho chiesto a Nada di dar voce alle proprie parole perché volevo che l’autobiografia fosse il filo rosso del film, ma soprattutto mi sembrava importante ribaltare il rapporto fra pubblico e privato: riprenderla davanti al fuoco del camino significava dare risalto alla dimensione intima del suo vissuto e far emergere una forma diversa di autorappresentazione.

 

D: Il racconto propone ricchi brani d’archivio: chi ha selezionato queste immagini e che ruolo assumono all’interno della narrazione?

R: Ho selezionato io stessa i materiali documentari e, grazie anche ad alcune soluzioni di montaggio, ho fatto in modo che assumessero nel corpo del racconto la funzione di ‘connettori temporali’: ogni brano di archivio segna infatti un passaggio di tempo, determinando così uno scarto fra la dimensione del presente e quella del passato. Le sequenze di repertorio richiamano la storia musicale di Nada e disegnano un dialogo per certi aspetti inatteso con l’immagine in presa diretta della cantante: più che puntare sulla continuità, il film procede per ellissi, figura della rievocazione, della memoria involontaria…

Tra tutte le sequenze recuperate ce ne sono due che ancora oggi mi commuovono. La prima è quella in cui lei, giovanissima, rivolgendosi al pubblico di uno speciale televisivo, ripete più volte «Ma io sono una ragazza come voi»: in questa frase risuona il desiderio di non sentirsi ‘diversa dagli altri’ e si ha la forte sensazione che Nada si sentisse fragile, esposta e fortemente isolata dai suoi coetanei. La seconda dà senso pieno al film e alla verità contenuta nel libro: prima di esibirsi per festeggiare la vittoria al festival di Sanremo nel 1971 Nada saluta commossa la nonna e si scusa per le sue lacrime. Il ricordo della nonna si lega a doppio filo all’ancestralità della sua condizione, rivelando la radice feconda dell’appartenenza al mondo contadino che ha segnato profondamente la sua identità.

 

D: Il tema cardine del film sembra essere il rapporto di Nada con la madre e questo è stato interpretato, grazie anche alla presenza di Ilaria Fraioli al montaggio, come possibile termine di paragone con i film di Alina Marazzi. È possibile rintracciare l’eco soffusa di opere come Un’ora sola ti vorrei o il tuo lavoro segue altre tracce?

R: A dire il vero quel che fin da subito ha guidato e sostenuto prima la scrittura del canovaccio e poi la realizzazione del documentario è la luce per la madre che risplende in ogni pagina del libro di Nada. La pienezza della ‘questione della madre’ nel vissuto di Nada ha fatto scattare in me la necessità di girare questo film, a prescindere da altri testi e altre esperienze.

Al fondo di tutto c’è la rivelazione per cui Nada ha imparato a cantare ‘per’ la madre, forzando la propria indole ma ritrovando a posteriori in questo sacrificio la sua stessa ragione di vita. Da qui la ricorrenza, all’interno del racconto visivo, del tema della madre, la sua declinazione in canto, voce, e pianto [Si pensi alla intensa sequenza in cui Nada, in dialogo ravvicinato con la macchina da presa, piange parlando della mamma, senza più riuscire a frenare la commozione].

Le parole per la madre si trasformano spesso in musica e così nel finale del film ho ‘inventato’ un concerto di Nada con Zamboni (che in realtà aveva già avuto molte repliche) perché ritenevo necessario, ai fini della restituzione del personaggio, mostrare la grinta e il pathos delle esibizioni musicali. Si è trattato davvero di capovolgere il principio di reciprocità fra realtà e finzione, ma l’effetto credo sia straordinario. Nella messa a punto della sequenza finale ho dialogato a lungo con Ilaria, a cui si devono il ritmo, il respiro interno del film; lei non era convinta della scelta di prolungare il momento in cui Nada canta – con l’energia che solo lei è capace di distillare sul palco – una delle canzoni sulla madre, mentre per me si trattava di un raccordo essenziale per cogliere la natura del dolore propria della loro relazione («Madre assassina / madre bambina / abbracciami tu / abbracciami di più»). Grazie al nostro confronto il finale ha guadagnato potenza e ci ha permesso di toccare una delle corde più autentiche della (auto)biografia di Nada.

 

D: Non è facile raggiungere un grado di intimità profondo nello spazio di un set, eppure tra le pieghe de Il mio cuore umano si manifesta il carattere speciale del rapporto che ti ha legata a Nada. Cosa puoi dirci del vostro incontro?

R: Quando ho proposto a Nada l’idea del film ho subito avvertito la sua fiducia: il mio entusiasmo l’aveva convinta del fatto che volessi raccontare il suo passato senza sovrastrutture, senza inganni, partendo dalla nudità delle sue parole. [Non a caso nel pressbook del film si legge: «Quando ho capito che l’idea di Costanza era nata dall’interesse vero e profondo per il mio libro e per il mio lavoro di cantante e autrice mi sono convinta e mi sono lasciata guidare in un percorso intimo raccontando anche il privato con sincerità e verità, e ne è venuta fuori una storia umana e piena d’emozione. Grazie a Costanza e alla sua delicatezza e sensibilità»] Da quel momento abbiamo attraversato un lungo tratto insieme, nel corso del quale lei si è completamente affidata a me, abbandonandosi al mio sguardo, alle mie indicazioni. La struttura narrativa del film è il frutto di un’intuizione iniziale ma soprattutto della nostra intesa: al centro ci sono la sua voce vibrante, il suo corpo e la sua musica, in un intreccio di tempi e rievocazioni. Non c’era stato spazio fino ad allora per le sue canzoni, non le conoscevo e non avevano segnato la mia vita: adesso posso dire di essere diventata amica della sua musica, e la curiosità verso la sua ricerca non si è ancora spenta.

 

D: Dopo Il mio cuore umano il tuo cinema ha toccato vertici di grande forza espressiva e ha virato decisamente verso altre matrici narrative: a distanza di anni che ruolo gioca questo piccolo grande film su Nada dentro il corpus delle tue opere?

R: Riflettendo retrospettivamente posso dire che l’incontro con Nada, il lavoro che insieme abbiamo costruito ha rappresentato per me un momento di passaggio importante perché in quel film ho messo a fuoco qualcosa su cui ho sempre lavorato, cioè il racconto dell’invisibile, vedere l’oggi e parlare di ieri. Un corto circuito fra presente e passato che è ancora adesso una delle sfide drammaturgiche ed espressive che mi interessano di più.