Categorie



D: Come nasce l’idea di dedicare un film a Nada?

R: Il punto d’origine del documentario Il mio cuore umano è stata la partecipazione alla presentazione dell’omonimo romanzo di Nada alla Feltrinelli di Roma, alla quale ricordo partecipò anche Monicelli – con cui ebbi modo di parlare a lungo del mio film L’isola...

In quell’occasione scattò subito il desiderio di raccontare quello che possiamo definire ‘il buco nero’ della biografia di Nada, cioè il nodo della sua infanzia. Il libro di Nada, infatti, racconta un’epoca lontana: Nada bambina in Maremma tra genitori semplici e contadini, suore affettuose e zie petulanti, viali assolati e lunghe camminate nei campi bui per sfidare la paura. E poi un tarlo, una ferita aperta: la madre malata di depressione che nei momenti in cui stava bene voleva a tutti costi che la figlia valorizzasse la voce potente facendole frequentare un maestro di canto, che nei ricordi di Nada, naturalmente, era segaligno e antipatico. Il racconto finisce su un treno, lo stesso che portò Nada bambina a diventare diva inconsapevole, pronta ad attraversare i tempi e le epoche della canzone italiana con la forza della propria incoscienza.

Leggendo il libro ho subito capito che mi sarei divertita a trovare i percorsi visivi e sonori per il ‘suo’ cuore umano. Dopo averla incontrata ed essere riuscita a conquistare la sua fiducia, ho scritto un canovaccio già diviso in tre parti, che lasciava intravedere la struttura narrativa che il film di lì a poco avrebbe assunto. La narrazione procede infatti per canzoni e intreccia le tre età di Nada. Racconto Nada oggi alla luce della bambina che fu, rivivendo con lei suggestioni e ricordi.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Le mie madri (2003) di Nada Malanima è un libro composito, ibrido, che alterna brevi paragrafi in prosa a fitti passaggi in versi: un esperimento ben calibrato di autofiction, che si chiude con una rivelazione per certi aspetti spiazzante:

La cantante-scrittrice nell’ultimo capitolo – che non a caso dà il titolo all’intera opera – confessa l’invenzione di un doppio materno, figura indispensabile per colmare le intermittenze affettive di un’infanzia segnata dalla malattia di colei che con grande tenacia l’aveva messa al mondo. In poche righe emerge il dramma di un’intera vita («adesso che la vita ti ha rimpicciolita io ti guardo e ti odio, perché ho ancora bisogno di te»), e allo stesso tempo si rende manifesta tutta la fragilità di una appassionata donna-bambina. Si tratta di un brano cruciale per intendere il denso groviglio di sentimenti da cui scaturisce l’immaginario biografico e musicale dell’autrice, attraversato da alcuni motivi cardine e da una ‘ossessione’ materna mai banale. Il fantasma di una madre finalmente presente, attenta e dolce («che vive dentro di lei») non è una finzione letteraria ma la proiezione di un desiderio reale, destinato a diventare ritmo, grido, silenzio. E di nuovo letteratura. Nel 2008 Nada pubblica, infatti, Il mio cuore umano, un romanzo in cui quel cupo grumo di illusioni e strappi condensato ne Le mie madri si scioglie in racconto, distillando fatti, memorie, occasioni di una fanciullezza a suo modo felice, prima del brusco ingresso nel mondo dello spettacolo. La storia si arresta lungo i binari del treno che porta Nada a Roma, in vista dell’audizione che avrebbe invertito il senso di marcia della sua esistenza; i lampi abbaglianti dei fotografi, gli studi televisivi, il profumo di celebrità della kermesse sanremese sono ancora lontani: contano solo i battiti di una famiglia un po’ sghemba, le fibrillazioni di una bambina a cui basterebbe qualche carezza in più. Lo stile di Nada è semplice e avvolgente, sa di terra e pianto, a tratti può sembrare scoperto ma conserva una fibra autenticamente poetica, che incanta e commuove.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Abbiamo approfittato della sua presenza per riannodare i fili di una conversazione già avviata al tempo di Terramatta, e anche in questa circostanza l’esito del confronto è stato un dialogo appassionato, uno scambio di idee su realtà, narrazione, linguaggi. Per Quatriglio il cinema è questione di orgoglio e appartenenza, è una forma di resistenza e insieme di sfida al presente, è uno stato mentale ma anche un mestiere con cui sporcarsi le mani - e gli occhi. La sua produzione, ormai ricca, alterna forme e generi differenti ma trova nel documentario la cifra stilistica dominante, sebbene mai scontata. Quel che stupisce poi, oltre alla tempra delle sue opere, è la qualità del suo ragionamento sulla natura e le potenzialità del cinema italiano, la propensione – per niente ovvia – verso la critica, intesa come esercizio di pensiero e (auto)riflessione.

Da qui nasce la scelta di ripubblicare Oltre la soglia. La nuova radice del documentario italiano (saggio apparso sulla rivista di studi «Cinema e Storia» n. 2/2013 per Rubbettino nella sezione Stile libero) una sorta di manifesto programmatico, che anticipa la ‘rivincita’ del documentario avvenuta nei mesi scorsi con Sacro GRA, Tir, e Con il fiato sospeso. Prima che le giurie si accorgessero della coerenza e del rigore dei documentari italiani, Quatriglio rivendicava l’urgenza di un ‘cinema dell’attenzione’, nonché la necessità di nuove strategie produttive. A distanza di un anno quelle parole servono a riconsiderare i traguardi del cinema italiano alla luce di un’identità possibile, ma ancora da costruire.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



È difficile parlare di questo film, perché questo film parla di noi. Parla di me doppiamente, perché in primo piano c’è il microcosmo di un laboratorio di chimica, in cui hanno lavorato e lavorano mio padre, mia sorella e mio cognato e perché sullo sfondo c’è il macrocosmo della ricerca universitaria, che è il mio mondo. L’impassibile indagine condotta da Quatriglio sul caso di Emanuele Patanè e della sua tragica morte non suggerisce una visione manichea, non ha la presunzione del racconto della storia vera che giornali e tribunali hanno deformato e distorto. Il memoriale di Emanuele, ‘tradotto’ dalla voce di Michele Riondino e incarnato dallo sguardo di Stella/Rohrwacher, sembra volere insinuare il dubbio nella certezza sulla quale si basano la scienza e l’ordine giudiziario. Ma nel passaggio dal documento alla fiction, dall’individualità del caso particolare alla sintesi del personaggio creato per lo schermo, la breccia aperta dall’obiettivo di Costanza Quatriglio scende più in profondità, dentro la carne, dentro le storie e i destini delle tante persone che ha conosciuto e frequentato (in un laboratorio di chimica dell’Università della Sapienza) per giungere alla verità del caso di Emanuele.

Il piccolo film che abbiamo visto ieri sera suona allora come un profondo atto di accusa per le speranze e le passioni ‘intossicate’ nei laboratori e nelle aule delle università italiane, dove si scontrano e si incontrano ogni giorno attese, aspettative, entusiasmo, sogni e cinismo, ignoranza, sfruttamento, prevaricazione. Lo sguardo intelligente e acuto di Costanza Quatriglio illumina al contempo sia la passione e la fiducia nella scienza e nel sapere, che l’ingiusta condizione in cui sono costretti a vivere coloro che non rinunciano a tale fiducia. Perché l’Università italiana è questo e quello, sembra dire il film.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

 

 

Catania, 26 aprile 2013


Riprese Video: Salvo Arcidiacono, Luca Zarbano, Silvia Cocuzza; Riprese Audio e Musica: Luca Zarbano; Montaggio: Salvo Arcidiacono, Luca Zarbano, Gaetano Tribulato; Grafica e Animazioni: Gaetano Tribulato.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Le vie dell’adattamento cinematografico sono (in)finite? A giudicare dalla folta schiera di opere tratte, o liberamente ispirate, da testi letterari – vero rompicapo per i cultori dei fidelity studies – viene da dire che c’è ancora spazio per nuove strategie di contaminazione fra verbale e visuale. Lo dimostrano in modo convincente i quadri di pietoso squallore di Gomorra, in cui l’ambiguità narrativa di Saviano si scioglie in corpi e luoghi che alternano precisione documentaria e tensione pittorica; i margini slabbrati e lividi di È stato il figlio, dentro i quali Daniele Ciprì riesce a reinventare la Palermo di Alajmo attraverso un efficace gioco di astrazione geografica; i sobborghi desolati di Bellas Mariposas, dove Salvatore Mereu immerge l’epica amara, febbrile di Sergio Atzeni. Il talento visionario di Garrone, Ciprì, Mereu risolve in immagini i varchi del testo, disegna spazi di solitudine e ferocia, affida ai ritmi del dialetto le oscillazioni delle coscienze, e così la traccia romanzesca giunge a incarnare i fantasmi del reale, nel pieno rispetto della grammatica filmica.

Fra le più recenti ‘traduzioni’ cinematografiche di opere letterarie merita una menzione speciale Terramatta di Costanza Quatriglio (Italia, 2012), per la singolare invenzione di uno stile visivo in grado di esprimere con forza la tanto «male tratata» e «desprezata» vita di Vincenzo Rabito. L’epopea autobiografica del bracciante siciliano, premiata nel 2000 dalla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e poi apparsa in volume per i tipi di Einaudi nel 2007, grazie alla cura editoriale di Evelina Santangelo e Luca Ricci, è saldamente ancorata a una lingua ancestrale, ‘inaudita’, priva di codice ma forgiata – come scrive Buttafuoco – «da un’aspirazione alle regole dell’alfabeto». Non è facile attraversare un muro di parole così fitto, ma una volta entrati dentro il labirinto di carta di Rabito ci si abbandona al flusso dei pensieri, alle traiettorie del destino, ai diversi suoni della vita e della morte, del coraggio e della disperazione. Quel che più sorprende è l’accanimento della scrittura, la direzione ostinata di ogni vocabolo, per lo più sgrammaticato eppure potentissimo. Vale per l’avventurosa epica di Rabito quel che Celestini scrive a proposito dei racconti del padre sulla Seconda guerra mondiale: «mio padre diceva che camminò contromano rispetto alla Storia. Adesso che la Storia non coincide più con la geografia […] la Storia stessa deve incominciare a cambiare il senso di marcia».

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →