Il cinema necessario di Costanza Quatriglio

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Le regole del noir impongono di non tornare mai sul luogo del delitto. Costanza Quatriglio, da sempre allergica ai divieti, sceglie invece di tornare a Catania per partecipare a un incontro-lezione del professore Alessandro De Filippo dedicato al suo percorso artistico, e coglie l’occasione per riproporre il suo sorprendente Con il fiato sospeso, costato anni di faticose ricerche intorno al caso della morte sospetta del giovane ricercatore catanese Emanuele Patanè. Il clamore e la compiutezza estetica del film hanno generato un corto circuito ‘virale’, consentendo a un’opera ‘fuori formato’ di ottenere un importante riconoscimento di critica e pubblico. Proiettare il film dentro un’aula universitaria, per di più a Catania, era una specie di atto dovuto, di testimonianza etica a cui Quatriglio proprio non voleva sottrarsi.

Abbiamo approfittato della sua presenza per riannodare i fili di una conversazione già avviata al tempo di Terramatta, e anche in questa circostanza l’esito del confronto è stato un dialogo appassionato, uno scambio di idee su realtà, narrazione, linguaggi. Per Quatriglio il cinema è questione di orgoglio e appartenenza, è una forma di resistenza e insieme di sfida al presente, è uno stato mentale ma anche un mestiere con cui sporcarsi le mani - e gli occhi. La sua produzione, ormai ricca, alterna forme e generi differenti ma trova nel documentario la cifra stilistica dominante, sebbene mai scontata. Quel che stupisce poi, oltre alla tempra delle sue opere, è la qualità del suo ragionamento sulla natura e le potenzialità del cinema italiano, la propensione – per niente ovvia – verso la critica, intesa come esercizio di pensiero e (auto)riflessione.

Da qui nasce la scelta di ripubblicare Oltre la soglia. La nuova radice del documentario italiano (saggio apparso sulla rivista di studi «Cinema e Storia» n. 2/2013 per Rubbettino nella sezione Stile libero) una sorta di manifesto programmatico, che anticipa la ‘rivincita’ del documentario avvenuta nei mesi scorsi con Sacro GRA, Tir, e Con il fiato sospeso. Prima che le giurie si accorgessero della coerenza e del rigore dei documentari italiani, Quatriglio rivendicava l’urgenza di un ‘cinema dell’attenzione’, nonché la necessità di nuove strategie produttive. A distanza di un anno quelle parole servono a riconsiderare i traguardi del cinema italiano alla luce di un’identità possibile, ma ancora da costruire.

 

 

D: L’isola segna il tuo esordio, a 29 anni, e manifesta da subito il carattere ‘impuro’ del tuo cinema, la capacità di contaminare le forme alla ricerca del giusto modo di raccontare e drammatizzare la realtà. Il film, presentato a Cannes e distribuito in Francia e in altri paesi, in Italia si è visto poco, a riprova della miopia dell’industria culturale del nostro paese. Eppure già all’altezza di quell’opera emergeva la propensione alla contaminazione di sguardo e racconto. Quanto il destino dell’Isola ha segnato il tuo percorso? Cosa rimane oggi dell’ascolto di quei corpi e quelle voci?

 

 

R: Ne L’isola c’era già tutto. La scelta di una drammaturgia che fosse la restituzione dell’elaborazione di una relazione profonda con la realtà, basata sull’ascolto e sul lavoro su se stessi. Il film è popolato da attori non professionisti: Teresa e Turi, la bambina e il ragazzo protagonisti e tutti i loro amici, ma anche il mondo che li circonda, quel regno chiuso e autosufficiente – l’isola – che si regge sulle regole ferree del lavoro dei pescatori. Quando ho girato il film mi è stato subito chiaro che quello sarebbe stato l’inizio di un percorso che avrei fatto sempre sul confine, in equilibrio tra i mondi. Ne L’isola ci sono scene in cui i contesti di realtà ospitano i dettagli di finzione, come per esempio - macroscopicamente - la scena della pesca del tonno, e altre che, al contrario, nascondono dettagli di realtà in contesti completamente di finzione, a servizio, quindi, di un’idea drammaturgica fissata su un copione. Un esempio è la scena della commozione della nonna di Teresa. L’anziana nonna, vedova, si commuove profondamente alla vista della bambina disperata perché il taglio di capelli non è come lei lo avrebbe voluto, cioè identico a quello della sua amica Margherita. La chiave de L’isola è proprio nel lavoro con gli attori, tanto che dopo la presentazione a Cannes nel 2003, quell’anno stesso, portai alla Mostra del Cinema di Venezia il ‘making of’, Racconti per L’isola, un breve documentario di montaggio in cui avevo raccolto la documentazione del percorso di appropriazione dei ruoli degli attori non professionisti prima di girare. Era chiarissimo che sul set, dopo il lunghissimo lavoro di preparazione, loro mi restituivano la loro storia, e che quella storia non era più la mia e io dovevo solo registrarla, in punta di piedi, quasi vivesse indipendentemente da me. Certamente tutto questo ha condizionato il mio sguardo, ma io ho avuto immediatamente chiaro che non mi sarebbe bastato; è la complessità che mi interessa. In questo senso il concetto di soglia si è fatto interessante con il passare del tempo perché la realtà non è solo un deposito d’oro puro, è anche il limite, la gabbia. Con i miei ultimi film ho cercato di sganciare il livello semantico da quello fenomenologico. È come dire: filmo l’invisibile, perché ciò che mostro non è ciò che voglio dire, e un tale livello di complessità la puoi raggiungere proprio con il cinema documentario e le infinite possibilità che questo ti consegna. Ecco perché dopo L’isola ho fortemente voluto praticare il cosiddetto cinema del reale. La cosa buffa è che oggi finalmente ne possiamo parlare alla luce del sole, senza essere considerati carbonari cospiratori attentatori al mito dell’autorialità, quasi il regista fosse quell’autore che fa ruotare tutto intorno a sé con il suo io gigantesco che informa di sé tutte le cose.

 

D: L’attenzione al reale è uno degli imperativi categorici del genere documentario, che però non può fare a meno di un tasso di fiction, di costruzione drammaturgica. Al di là di formule ed etichette (come realismo, nuovo realismo, docufiction), quali sono secondo te le direzioni di ricerca del cinema italiano contemporaneo?

 

R: È indubbio che il cinema italiano contemporaneo abbia manifestato le sue potenzialità maggiori nella libertà espressiva. Ma non ci vuole molto… perché la libertà permette ai produttori e ai registi di rischiare, di inventare, e quindi di essere vitali e non di cercare le formulette preconfezionate da ripetere all’infinito. La libertà, in questi dieci anni, c’è stata proprio nelle forme e nei formati del cinema del reale, cioè senza soldi… quando il cinema cosiddetto industriale ha vissuto di eccezioni che confermano la regola.

 

D: Per Kieslowski una delle prime regole del documentarista era l’assunzione di responsabilità nei confronti dei soggetti rappresentati, la ricerca di un’etica dello sguardo in grado di non compromettere la ricerca della verità e le ragioni sentimentali e civili dei protagonisti. Il tuo cinema mantiene – non del tutto inconsapevolmente – uno stretto legame con la lezione kieslowskiana. Quanto è importante per te la questione etica nella scelta delle storie? E quanto conta il rispetto dell’altro per un documentarista?

 

R: Il rispetto dell’altro è tutto. Proprio per questo nel cinema documentario non amo pensare automaticamente a un ‘metodo’ che sia il ‘mio metodo’. Il metodo è diverso a seconda di ciò che si vuole raccontare. Ogni storia esige l’atto di assunzione di responsabilità che sottende il filmare e, ancor prima, il chiarirsi come filmare e cosa. È ciò che mi piace chiamare ‘necessità’. Ecco perché mi ha fatto piacere che l’incontro all’Università di Catania si sia chiamato ‘il cinema necessario’. Io però do a questo termine un significato ulteriore: il percorso di comprensione dal caos del reale al racconto passa per le scelte e le assunzioni di responsabilità e quindi non potrà che portare ad un racconto ‘necessario’. La necessità quindi è il coronamento del viaggio, non più soltanto il presupposto.

 

D: I successi di Sacro GRA, Tir, La grande bellezza, Le meraviglie che scenari aprono per gli autori? Credi in un cambio di rotta dei produttori?

 

R: Un vero cambio di rotta in Italia ci sarà solo quando i produttori e i registi avranno più interlocutori. Le vittorie all’estero dimostrano che quando si investe nel talento si vince. In una cinematografia sana la regola dovrebbe essere la pluralità della domanda e dell’offerta, la possibilità, prima di tutto per i produttori, di avere scambi e confronti su più piattaforme, in modo da diversificare le produzioni.

 

D: I complicati giochi tra domanda e offerta culturale spesso sono condizionati da falsi pregiudizi relativi all’orizzonte di attesa degli spettatori; tu a quale spettatore pensi per i tuoi film? A quali sguardi rivolgi le tue storie?

 

R: Una delle grandi bugie di questi dieci anni è stata proprio quella di considerare tutti gli spettatori una massa indistinta senza giudizio. Non bisogna crederci. Tutto sta nelle storie e nel modo in cui si raccontano. E poi, davvero, sento che oggi stiamo raccogliendo le rovine di troppi anni di voluto analfabetismo cinematografico e dobbiamo, prima di tutto, riappropriarci del contatto con ciò che ci succede, fuori dai filtri e dalle bugie del potere. Sarà forse questa la nuova radice di cui abbiamo bisogno …