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Le vie dell’adattamento cinematografico sono (in)finite? A giudicare dalla folta schiera di opere tratte, o liberamente ispirate, da testi letterari – vero rompicapo per i cultori dei fidelity studies – viene da dire che c’è ancora spazio per nuove strategie di contaminazione fra verbale e visuale. Lo dimostrano in modo convincente i quadri di pietoso squallore di Gomorra, in cui l’ambiguità narrativa di Saviano si scioglie in corpi e luoghi che alternano precisione documentaria e tensione pittorica; i margini slabbrati e lividi di È stato il figlio, dentro i quali Daniele Ciprì riesce a reinventare la Palermo di Alajmo attraverso un efficace gioco di astrazione geografica; i sobborghi desolati di Bellas Mariposas, dove Salvatore Mereu immerge l’epica amara, febbrile di Sergio Atzeni. Il talento visionario di Garrone, Ciprì, Mereu risolve in immagini i varchi del testo, disegna spazi di solitudine e ferocia, affida ai ritmi del dialetto le oscillazioni delle coscienze, e così la traccia romanzesca giunge a incarnare i fantasmi del reale, nel pieno rispetto della grammatica filmica.

Fra le più recenti ‘traduzioni’ cinematografiche di opere letterarie merita una menzione speciale Terramatta di Costanza Quatriglio (Italia, 2012), per la singolare invenzione di uno stile visivo in grado di esprimere con forza la tanto «male tratata» e «desprezata» vita di Vincenzo Rabito. L’epopea autobiografica del bracciante siciliano, premiata nel 2000 dalla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e poi apparsa in volume per i tipi di Einaudi nel 2007, grazie alla cura editoriale di Evelina Santangelo e Luca Ricci, è saldamente ancorata a una lingua ancestrale, ‘inaudita’, priva di codice ma forgiata – come scrive Buttafuoco – «da un’aspirazione alle regole dell’alfabeto». Non è facile attraversare un muro di parole così fitto, ma una volta entrati dentro il labirinto di carta di Rabito ci si abbandona al flusso dei pensieri, alle traiettorie del destino, ai diversi suoni della vita e della morte, del coraggio e della disperazione. Quel che più sorprende è l’accanimento della scrittura, la direzione ostinata di ogni vocabolo, per lo più sgrammaticato eppure potentissimo. Vale per l’avventurosa epica di Rabito quel che Celestini scrive a proposito dei racconti del padre sulla Seconda guerra mondiale: «mio padre diceva che camminò contromano rispetto alla Storia. Adesso che la Storia non coincide più con la geografia […] la Storia stessa deve incominciare a cambiare il senso di marcia».

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