È difficile parlare di questo film, perché questo film parla di noi. Parla di me doppiamente, perché in primo piano c’è il microcosmo di un laboratorio di chimica, in cui hanno lavorato e lavorano mio padre, mia sorella e mio cognato e perché sullo sfondo c’è il macrocosmo della ricerca universitaria, che è il mio mondo. L’impassibile indagine condotta da Quatriglio sul caso di Emanuele Patanè e della sua tragica morte non suggerisce una visione manichea, non ha la presunzione del racconto della storia vera che giornali e tribunali hanno deformato e distorto. Il memoriale di Emanuele, ‘tradotto’ dalla voce di Michele Riondino e incarnato dallo sguardo di Stella/Rohrwacher, sembra volere insinuare il dubbio nella certezza sulla quale si basano la scienza e l’ordine giudiziario. Ma nel passaggio dal documento alla fiction, dall’individualità del caso particolare alla sintesi del personaggio creato per lo schermo, la breccia aperta dall’obiettivo di Costanza Quatriglio scende più in profondità, dentro la carne, dentro le storie e i destini delle tante persone che ha conosciuto e frequentato (in un laboratorio di chimica dell’Università della Sapienza) per giungere alla verità del caso di Emanuele.
Il piccolo film che abbiamo visto ieri sera suona allora come un profondo atto di accusa per le speranze e le passioni ‘intossicate’ nei laboratori e nelle aule delle università italiane, dove si scontrano e si incontrano ogni giorno attese, aspettative, entusiasmo, sogni e cinismo, ignoranza, sfruttamento, prevaricazione. Lo sguardo intelligente e acuto di Costanza Quatriglio illumina al contempo sia la passione e la fiducia nella scienza e nel sapere, che l’ingiusta condizione in cui sono costretti a vivere coloro che non rinunciano a tale fiducia. Perché l’Università italiana è questo e quello, sembra dire il film.