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È difficile parlare di questo film, perché questo film parla di noi. Parla di me doppiamente, perché in primo piano c’è il microcosmo di un laboratorio di chimica, in cui hanno lavorato e lavorano mio padre, mia sorella e mio cognato e perché sullo sfondo c’è il macrocosmo della ricerca universitaria, che è il mio mondo. L’impassibile indagine condotta da Quatriglio sul caso di Emanuele Patanè e della sua tragica morte non suggerisce una visione manichea, non ha la presunzione del racconto della storia vera che giornali e tribunali hanno deformato e distorto. Il memoriale di Emanuele, ‘tradotto’ dalla voce di Michele Riondino e incarnato dallo sguardo di Stella/Rohrwacher, sembra volere insinuare il dubbio nella certezza sulla quale si basano la scienza e l’ordine giudiziario. Ma nel passaggio dal documento alla fiction, dall’individualità del caso particolare alla sintesi del personaggio creato per lo schermo, la breccia aperta dall’obiettivo di Costanza Quatriglio scende più in profondità, dentro la carne, dentro le storie e i destini delle tante persone che ha conosciuto e frequentato (in un laboratorio di chimica dell’Università della Sapienza) per giungere alla verità del caso di Emanuele.

Il piccolo film che abbiamo visto ieri sera suona allora come un profondo atto di accusa per le speranze e le passioni ‘intossicate’ nei laboratori e nelle aule delle università italiane, dove si scontrano e si incontrano ogni giorno attese, aspettative, entusiasmo, sogni e cinismo, ignoranza, sfruttamento, prevaricazione. Lo sguardo intelligente e acuto di Costanza Quatriglio illumina al contempo sia la passione e la fiducia nella scienza e nel sapere, che l’ingiusta condizione in cui sono costretti a vivere coloro che non rinunciano a tale fiducia. Perché l’Università italiana è questo e quello, sembra dire il film.

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Le vie dell’adattamento cinematografico sono (in)finite? A giudicare dalla folta schiera di opere tratte, o liberamente ispirate, da testi letterari – vero rompicapo per i cultori dei fidelity studies – viene da dire che c’è ancora spazio per nuove strategie di contaminazione fra verbale e visuale. Lo dimostrano in modo convincente i quadri di pietoso squallore di Gomorra, in cui l’ambiguità narrativa di Saviano si scioglie in corpi e luoghi che alternano precisione documentaria e tensione pittorica; i margini slabbrati e lividi di È stato il figlio, dentro i quali Daniele Ciprì riesce a reinventare la Palermo di Alajmo attraverso un efficace gioco di astrazione geografica; i sobborghi desolati di Bellas Mariposas, dove Salvatore Mereu immerge l’epica amara, febbrile di Sergio Atzeni. Il talento visionario di Garrone, Ciprì, Mereu risolve in immagini i varchi del testo, disegna spazi di solitudine e ferocia, affida ai ritmi del dialetto le oscillazioni delle coscienze, e così la traccia romanzesca giunge a incarnare i fantasmi del reale, nel pieno rispetto della grammatica filmica.

Fra le più recenti ‘traduzioni’ cinematografiche di opere letterarie merita una menzione speciale Terramatta di Costanza Quatriglio (Italia, 2012), per la singolare invenzione di uno stile visivo in grado di esprimere con forza la tanto «male tratata» e «desprezata» vita di Vincenzo Rabito. L’epopea autobiografica del bracciante siciliano, premiata nel 2000 dalla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e poi apparsa in volume per i tipi di Einaudi nel 2007, grazie alla cura editoriale di Evelina Santangelo e Luca Ricci, è saldamente ancorata a una lingua ancestrale, ‘inaudita’, priva di codice ma forgiata – come scrive Buttafuoco – «da un’aspirazione alle regole dell’alfabeto». Non è facile attraversare un muro di parole così fitto, ma una volta entrati dentro il labirinto di carta di Rabito ci si abbandona al flusso dei pensieri, alle traiettorie del destino, ai diversi suoni della vita e della morte, del coraggio e della disperazione. Quel che più sorprende è l’accanimento della scrittura, la direzione ostinata di ogni vocabolo, per lo più sgrammaticato eppure potentissimo. Vale per l’avventurosa epica di Rabito quel che Celestini scrive a proposito dei racconti del padre sulla Seconda guerra mondiale: «mio padre diceva che camminò contromano rispetto alla Storia. Adesso che la Storia non coincide più con la geografia […] la Storia stessa deve incominciare a cambiare il senso di marcia».

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