Con la macchina da presa incollata al volto Stella ci racconta la sua storia universitaria, il suo ingresso nel laboratorio di chimica, la sua ricerca per la tesi, le sue speranze, le sue frustrazioni, i suoi dubbi, la sua passione e non la sua malattia. Attraverso questo personaggio, che è la «sintesi» (lo ha affermato la stessa regista nel corso della presentazione del film che si è svolta ieri sera a Catania) delle testimonianze e delle esperienze vissute nei quattro anni di ricerca condotta attorno allo scandalo della morte per cancro di alcuni ricercatori che avevano lavorato nel laboratorio di Chimica presso la Facoltà di Farmacia di Catania, Costanza Quatriglio punta l’obiettivo su uno dei punti dolenti del nostro presente. In appena trentacinque minuti Con il fiato sospeso, ricreando le modalità di una intervista, ci trasporta dentro il laboratorio dove si consumano le speranze di molti giovani ricercatori italiani, appassionati e convinti esploratori dei segreti della ‘materia’, disposti a condurre i propri studi anche in dubbie condizioni di sicurezza.
È difficile parlare di questo
film, perché questo film parla di noi. Parla di me doppiamente,
perché in primo piano c’è il microcosmo di un laboratorio di
chimica, in cui hanno lavorato e lavorano mio padre, mia sorella e
mio cognato e perché sullo sfondo c’è il macrocosmo della ricerca
universitaria, che è il mio mondo. L’impassibile indagine condotta
da Quatriglio sul caso di Emanuele Patanè e della sua tragica morte
non suggerisce una visione manichea, non ha la presunzione del
racconto della storia vera che giornali e tribunali hanno deformato e
distorto. Il memoriale di Emanuele, ‘tradotto’ dalla voce di
Michele Riondino e incarnato dallo sguardo di Stella/Rohrwacher,
sembra volere insinuare il dubbio nella certezza sulla quale si
basano la scienza e l’ordine giudiziario. Ma nel passaggio dal
documento alla fiction, dall’individualità del caso particolare
alla sintesi del personaggio creato per lo schermo, la breccia aperta
dall’obiettivo di Costanza Quatriglio scende più in profondità,
dentro la carne, dentro le storie e i destini delle tante persone che
ha conosciuto e frequentato (in un laboratorio di chimica
dell’Università della Sapienza) per giungere alla verità del caso
di Emanuele.
Il piccolo film che abbiamo visto
ieri sera suona allora come un profondo atto di accusa per le
speranze e le passioni ‘intossicate’ nei laboratori e nelle aule
delle università italiane, dove si scontrano e si incontrano ogni
giorno attese, aspettative, entusiasmo, sogni e cinismo, ignoranza,
sfruttamento, prevaricazione. Lo sguardo intelligente e acuto di
Costanza Quatriglio illumina al contempo sia la passione e la fiducia
nella scienza e nel sapere, che l’ingiusta condizione in cui sono
costretti a vivere coloro che non rinunciano a tale fiducia. Perché
l’Università italiana è questo e quello, sembra dire il film.
Ciò che colpisce, comunque, è
soprattutto la scelta di capovolgere i moduli dell’inchiesta
televisiva, della televisione del dolore. Se le tante storie
raccontate in tv, ‘nella vita in diretta’ che ci perseguita
quotidianamente, suonano profondamente false (pur essendo a volte
vere), il racconto di Stella al contrario risplende, anche grazie
alla bravura di Alba Rohrwacher, di una profonda verità che va al di
là della finzione del suo personaggio. Costanza Quatriglio ci ha
spiegato, infatti, che la via della fiction le è sembrata l’unica
strada percorribile per salvaguardare la verità della storia di
Emanuele e rispettare il dolore e la sofferenza di cui essa è
intessuta. Non è un caso che la narrazione in presa diretta non
comprenda anche il racconto della malattia. Per quello vale il
linguaggio muto delle immagini, accompagnate dalla musica di Paolo
Buonvino, con la presenza di Anna (amica e coinquilina di Stella, che
non ha accettato i compromessi della vita accademica e ha scelto la
libertà del mondo della musica) a chiudere con discrezione la
storia. Il suo ruolo di testimone, che attende nelle sale d’aspetto
dell’ospedale, permette di sporgere delicatamente lo sguardo su ciò
che il cinema, forse, non ha il diritto di raccontare. La voce di
sottofondo di Riondino che recita le parole del diario di Emanuele (e
richiama forse un po’ il procedimento sperimentato per Terramatta)
si mescola alla musica, per dare un sommesso ma deciso sapore di
realtà al film o per riportarlo all’origine da cui è scaturita la
storia (non a caso i titoli di coda scorrono sul dettaglio delle
pagine del memoriale). E anche il sigillo di verità impresso
dall’inserzione dell’unico frammento documentario dura appena
qualche minuto. La breve sequenza dell’intervista al padre di
Emanuele, che mostra le foto del figlio in un lettino del pronto
soccorso nell’ultima fase della sua agonia, ci ricorda il senso e
il valore del cinema che più amiamo. Quatriglio chiede al padre del
ragazzo come mai ha scattato delle foto in quella circostanza, lui
risponde che sperava di mostrarle in Italia per fare vedere come
funzionano gli ospedali in America: «Ancora non sapevo che sarebbe
morto, ed è stato poi un bene per me».
Per noi, invece, è un bene sapere che il cinema prova a raccontare la verità.