Incontro con Costanza Quatriglio (King Multisala Cinestudio, 14 settembre 2013)

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Con la macchina da presa incollata al volto Stella ci racconta la sua storia universitaria, il suo ingresso nel laboratorio di chimica, la sua ricerca per la tesi, le sue speranze, le sue frustrazioni, i suoi dubbi, la sua passione e non la sua malattia. Attraverso questo personaggio, che è la «sintesi» (lo ha affermato la stessa regista nel corso della presentazione del film che si è svolta ieri sera a Catania) delle testimonianze e delle esperienze vissute nei quattro anni di ricerca condotta attorno allo scandalo della morte per cancro di alcuni ricercatori che avevano lavorato nel laboratorio di Chimica presso la Facoltà di Farmacia di Catania, Costanza Quatriglio punta l’obiettivo su uno dei punti dolenti del nostro presente. In appena trentacinque minuti Con il fiato sospeso, ricreando le modalità di una intervista, ci trasporta dentro il laboratorio dove si consumano le speranze di molti giovani ricercatori italiani, appassionati e convinti esploratori dei segreti della ‘materia’, disposti a condurre i propri studi anche in dubbie condizioni di sicurezza.

È difficile parlare di questo film, perché questo film parla di noi. Parla di me doppiamente, perché in primo piano c’è il microcosmo di un laboratorio di chimica, in cui hanno lavorato e lavorano mio padre, mia sorella e mio cognato e perché sullo sfondo c’è il macrocosmo della ricerca universitaria, che è il mio mondo. L’impassibile indagine condotta da Quatriglio sul caso di Emanuele Patanè e della sua tragica morte non suggerisce una visione manichea, non ha la presunzione del racconto della storia vera che giornali e tribunali hanno deformato e distorto. Il memoriale di Emanuele, ‘tradotto’ dalla voce di Michele Riondino e incarnato dallo sguardo di Stella/Rohrwacher, sembra volere insinuare il dubbio nella certezza sulla quale si basano la scienza e l’ordine giudiziario. Ma nel passaggio dal documento alla fiction, dall’individualità del caso particolare alla sintesi del personaggio creato per lo schermo, la breccia aperta dall’obiettivo di Costanza Quatriglio scende più in profondità, dentro la carne, dentro le storie e i destini delle tante persone che ha conosciuto e frequentato (in un laboratorio di chimica dell’Università della Sapienza) per giungere alla verità del caso di Emanuele.

Il piccolo film che abbiamo visto ieri sera suona allora come un profondo atto di accusa per le speranze e le passioni ‘intossicate’ nei laboratori e nelle aule delle università italiane, dove si scontrano e si incontrano ogni giorno attese, aspettative, entusiasmo, sogni e cinismo, ignoranza, sfruttamento, prevaricazione. Lo sguardo intelligente e acuto di Costanza Quatriglio illumina al contempo sia la passione e la fiducia nella scienza e nel sapere, che l’ingiusta condizione in cui sono costretti a vivere coloro che non rinunciano a tale fiducia. Perché l’Università italiana è questo e quello, sembra dire il film.

Ciò che colpisce, comunque, è soprattutto la scelta di capovolgere i moduli dell’inchiesta televisiva, della televisione del dolore. Se le tante storie raccontate in tv, ‘nella vita in diretta’ che ci perseguita quotidianamente, suonano profondamente false (pur essendo a volte vere), il racconto di Stella al contrario risplende, anche grazie alla bravura di Alba Rohrwacher, di una profonda verità che va al di là della finzione del suo personaggio. Costanza Quatriglio ci ha spiegato, infatti, che la via della fiction le è sembrata l’unica strada percorribile per salvaguardare la verità della storia di Emanuele e rispettare il dolore e la sofferenza di cui essa è intessuta. Non è un caso che la narrazione in presa diretta non comprenda anche il racconto della malattia. Per quello vale il linguaggio muto delle immagini, accompagnate dalla musica di Paolo Buonvino, con la presenza di Anna (amica e coinquilina di Stella, che non ha accettato i compromessi della vita accademica e ha scelto la libertà del mondo della musica) a chiudere con discrezione la storia. Il suo ruolo di testimone, che attende nelle sale d’aspetto dell’ospedale, permette di sporgere delicatamente lo sguardo su ciò che il cinema, forse, non ha il diritto di raccontare. La voce di sottofondo di Riondino che recita le parole del diario di Emanuele (e richiama forse un po’ il procedimento sperimentato per Terramatta) si mescola alla musica, per dare un sommesso ma deciso sapore di realtà al film o per riportarlo all’origine da cui è scaturita la storia (non a caso i titoli di coda scorrono sul dettaglio delle pagine del memoriale). E anche il sigillo di verità impresso dall’inserzione dell’unico frammento documentario dura appena qualche minuto. La breve sequenza dell’intervista al padre di Emanuele, che mostra le foto del figlio in un lettino del pronto soccorso nell’ultima fase della sua agonia, ci ricorda il senso e il valore del cinema che più amiamo. Quatriglio chiede al padre del ragazzo come mai ha scattato delle foto in quella circostanza, lui risponde che sperava di mostrarle in Italia per fare vedere come funzionano gli ospedali in America: «Ancora non sapevo che sarebbe morto, ed è stato poi un bene per me».

Per noi, invece, è un bene sapere che il cinema prova a raccontare la verità.