2.1. Nada nello sguardo di Costanza Quatriglio

di

     
Categorie



Le mie madri (2003) di Nada Malanima è un libro composito, ibrido, che alterna brevi paragrafi in prosa a fitti passaggi in versi: un esperimento ben calibrato di autofiction, che si chiude con una rivelazione per certi aspetti spiazzante:

Ho sei anni, ho una madre che tutti conoscono ma la mia vera madre la conosco solo io, quella vive dentro di me e ha tutto quello che non ha la madre che tutti conoscono. Lei è dolce, piena di attenzioni, mi accarezza…

La cantante-scrittrice nell’ultimo capitolo – che non a caso dà il titolo all’intera opera – confessa l’invenzione di un doppio materno, figura indispensabile per colmare le intermittenze affettive di un’infanzia segnata dalla malattia di colei che con grande tenacia l’aveva messa al mondo. In poche righe emerge il dramma di un’intera vita («adesso che la vita ti ha rimpicciolita io ti guardo e ti odio, perché ho ancora bisogno di te»), e allo stesso tempo si rende manifesta tutta la fragilità di una appassionata donna-bambina. Si tratta di un brano cruciale per intendere il denso groviglio di sentimenti da cui scaturisce l’immaginario biografico e musicale dell’autrice, attraversato da alcuni motivi cardine e da una ‘ossessione’ materna mai banale. Il fantasma di una madre finalmente presente, attenta e dolce («che vive dentro di lei») non è una finzione letteraria ma la proiezione di un desiderio reale, destinato a diventare ritmo, grido, silenzio. E di nuovo letteratura. Nel 2008 Nada pubblica, infatti, Il mio cuore umano, un romanzo in cui quel cupo grumo di illusioni e strappi condensato ne Le mie madri si scioglie in racconto, distillando fatti, memorie, occasioni di una fanciullezza a suo modo felice, prima del brusco ingresso nel mondo dello spettacolo. La storia si arresta lungo i binari del treno che porta Nada a Roma, in vista dell’audizione che avrebbe invertito il senso di marcia della sua esistenza; i lampi abbaglianti dei fotografi, gli studi televisivi, il profumo di celebrità della kermesse sanremese sono ancora lontani: contano solo i battiti di una famiglia un po’ sghemba, le fibrillazioni di una bambina a cui basterebbe qualche carezza in più. Lo stile di Nada è semplice e avvolgente, sa di terra e pianto, a tratti può sembrare scoperto ma conserva una fibra autenticamente poetica, che incanta e commuove.

Lo sa bene Costanza Quatriglio che, dopo aver letto il romanzo, convince Nada a superare la ritrosia nei confronti della macchina da presa per raccontarsi senza filtri sullo schermo. L’esito di questo incrocio di sguardi è un documentario vibrante e per certi aspetti anomalo, capace di creare un sottile equilibrio fra testimonianza di sé, materiali di archivio e strategie retoriche. Per riuscire a toccare il ‘cuore umano’ di Nada, Quatriglio mette in campo la consueta attenzione verso i mondi che circondano i soggetti che sceglie di rappresentare: da qui l’idea di «immergere la voce di Nada nel vento, nella quiete della campagna, nel suono delle sirene delle navi al porto di Livorno» (Quatriglio, Note di regia, 2009). I luoghi della memoria diventano soglia e cornice, riflettono umori, stati d’animo, abitudini e infine si fanno specchio di parole che contano, pronunciate (e cantate) di fronte a due occhi che sanno capire. Se le immagini di repertorio «tessono la trama della giovinezza di Nada», «il ritratto della sua maturità artistica e umana è affidato ad un ascolto attento e divertito» (Quatriglio, Note di regia, 2009).

Fin dalle prime scene del film si intuisce che in gioco non c’è tanto l’immagine pubblica della protagonista, ma il tentativo di porre in primo piano il suo essere donna, le cicatrici di una storia personale travagliata e autentica che solo una regista sensibile e complice poteva maieuticamente ‘dare alla luce’. Pur essendo abituata ai riflettori, Nada si ritrova dentro l’obiettivo di Quatriglio a fare i conti con il proprio pudore, a consegnare senza riserve il proprio vissuto (in una delle sequenze più toccanti di tanto ‘cinema materno’ la cantante piange in close-up mentre racconta la malattia della madre) e questo accade perché fra loro avviene «un mutuo riconoscimento» (Quatriglio, Intervista alla Rai, 2009).

La temperatura emotiva della relazione tra Costanza Quatriglio e Nada si misura innanzitutto dalle loro dichiarazioni, che aggiungono al testo filmico una sorta di controcanto gioioso, vitale. Intervistata dalla Rai in occasione della messa in onda del documentario, Quatriglio sottolinea la fiducia con cui la ‘sua personaggia’ ha abitato il set, tra risate e commozione, e poi con un tocco di tenerezza sorniona definisce «dolcemente infantile» la sua reazione di fronte alle sequenze girate. Nada appare ancora più diretta nel definire le coordinate del rapporto con la regista, le sue note a margine ci offrono una delle chiavi di lettura più vere – rispetto anche al tema dell’intera Galleria.

Nada, lei odia nostalgia e celebrazioni. E ora è protagonista di un documentario?
«Quando Costanza mi ha parlato di questa idea rimasi perplessa. Di solito il documentario è qualcosa di autocelebrativo, da fine carriera. E poi non amo parlare del mio passato, soprattutto quello lavorativo: io sono sempre e inevitabilmente proiettata in avanti. Avevo detto di no, anche se l’incontro con lei mi aveva colpito. Era impazzita per il mio libro, non era un interesse superficiale, ma vero, riflessivo e profondo. E quel volume parlava di una parte della mia vita precedente alla fama, la mia vita di Gabbro, la mia storia vera, quello che sono. Lei voleva raccontare una persona umana che ha avuto la fortuna e il destino di fare un lavoro particolare».
Un amore a prima vista.
«Parlando con lei sentivo tutto così vero, era come farlo con un’amica, una sorella. Capiva la mia storia, tutto quello che mi era successo, cosa sono diventata. Intuiva la mia vita intima, i miei sentimenti, le svolte che mi hanno segnato. Per questo mi sono lasciata guidare da lei, dalla sua delicatezza, pulizia, profondità. Doti preziose, soprattutto al giorno d’oggi, perché nel mio ambiente e nel mio lavoro è molto difficile trovarle». (Sollazzo 2009)

Questa complicità si respira già nel backstage, come si intuisce dai pochi scatti che descrivono le diverse fasi di ripresa: due immagini [figg. 1 e 2], più di altre, richiamano quel senso di empatia che ha segnato il lavoro di produzione. Nada e Costanza ‘sfogliano’ una serie di fotografie da inserire nella colonna visiva del film; i loro corpi, le loro mani sembrano toccarsi, ma quel che più colpisce è la densità dei loro volti, la lieve oscillazione – nel passaggio dalla prima alla seconda – fra una piega delle labbra (più di un accenno di sorriso) e la rigorosa concentrazione dello sguardo. Siamo ancora ai bordi del racconto, in quello spazio di confine fra realtà e finzione che spesso, nelle opere di Quatriglio, invade i margini del campo, proiettando dentro l’inquadratura il riverbero di gesti, piani e frasi fuori copione.

La costruzione drammaturgica dei suoi film prevede del resto quasi sempre lo slittamento fra tempi e luoghi diversi ma soprattutto poggia saldamente su un’idea di cinema come apertura, come «soglia» (è utile a tal proposito l’articolo della stessa Quatriglio intitolato Oltre la soglia. La nuova radice del cinema documentario italiano). Si pensi all’andirivieni fra parole e immagini di Terramatta, oppure alla congiunzione analogica fra presente e passato in Triangle (2014), o ancora al cortocircuito straziante fra potere e sorveglianza in 87 ore (2015). Il mio cuore umano si affida invece alla poesia del paesaggio e, insieme, alla sottile vibrazione di rime visuali e sonore che fanno sì che tutto scorra al ritmo dei battiti di Nada. Tra le ‘figure di varco’ più ricorrenti mi pare sia significativa la presenza di una grande finestra [fig. 3] che consente a Nada di sporgersi verso l’orizzonte del paesaggio e agli spettatori di cogliere la sottile osmosi fra dentro e fuori: il vetro è materiale trasparente, che filtra e protegge, offrendosi a molteplici effetti di rifrazione metaforica.

Al di là di facili rimandi all’estetica baziniana, che probabilmente hanno nutrito la formazione della regista, quel che più conta è che nel suo ‘cinema dell’attenzione’ la «restituzione è qualcosa di più del risultato di un procedimento di analisi e sintesi; ha a che fare con l’interpretazione e con la scelta del punto di vista, quello attraverso cui ogni cosa ha valore perché fa parte di un disegno organico, coerente, di bellezza e necessità». Non è certo un caso, allora, che Nada canti in Come faceva freddo «le finestre non sono tutte uguali»: neanche i film lo sono, soltanto alcuni portano con sé la grazia di una carezza.

 

 

Bibliografia

L. Cardone, C. Jandelli, C. Tognolotti (a cura di), ‘Storie in divenire: le donne del cinema italiano’, Quaderni del CSCI, 11, 2015.

N. Malanima, Le mie madri, Roma, Fazi Editore, 2003.

N. Malanima, Il mio cuore umano, Roma, Fazi Editore, 2008.

F. Proietti, ‘Il mio cuore umano’ di C. Quatriglio, Sentieri selvaggi, 23 febbraio 2010, <http://www.sentieriselvaggi.it/doc-il-mio-cuore-umano-di-c-quatriglio/> [accessed 31 July 2016]

C. Quatriglio, Note di regia, 2009.

C. Quatriglio, Videointervista alla Rai, <http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-0915f513-0848-4d4b-aee6-a2f26876c34b.html> [accessed 31 July 2016]

C. Quatriglio, ‘Oltre la soglia. La nuova radice del cinema documentario italiano’, Arabeschi, <http://www.arabeschi.it/oltre-la-soglia-la-nuova-radice-del-cinema-documentario-italiano-/> [accessed 31 July 2016]

B. Sollazzo, ‘Nada Malanima: il piacere di essere libera’, ioacqua&sapone, 8 ottobre 2009.