1. L’archivio illuminante
I 70810 scatti realizzati dell’agenzia americana DIAL Press rappresentano un prezioso strumento per inquadrare la storia della Hollywood sul Tevere nel Secondo dopoguerra, la Roma del grande cinema tra il 1951 e il 1967. Attualmente, il prodotto del lavoro italiano dell’agenzia è custodito dall’archivio fotografico dell’Istituto LUCE, compresa la parte denominata Servizio a casa, oggetto di quest’articolo, fondo che racconta gli spazi privati di personaggi dello spettacolo e della cultura. In prevalenza, gli shooting sono dedicati a volti mediamente noti, che possono vantare in filmografia uno o due titoli di successo; più di qualche servizio è tuttavia focalizzato su dive affermate, o a un passo dall’esserlo. Sono presenti anche svariati personaggi della televisione e del mondo della cultura in generale. Purtroppo non si hanno notizie esaustive sui singoli materiali e sono incerte persino le date di molti scatti. Sicuramente, le fotografie coprono un arco temporale che va dall’inizio del sesto alla fine del settimo decennio del secolo scorso. Con ogni probabilità, le immagini nascono per essere vendute ai giornali allo scopo di arricchire approfondimenti sul ‘nome’ del momento. Se considerata nella sua interezza, in una prospettiva di ‘messa in relazione’ dei documenti (Foucault, 1999), la raccolta Servizio a casa traccia una rete di discorsi che stimola potenziali riflessioni su quanto la quotidianità privata di personalità famose illumini le mutazioni del rapporto delle donne con un ambiente di cui, fino a pochi decenni prima, sono state ‘succubi’, imprigionate nel ruolo dell’‘angelo del focolare’. La ricorsività delle scelte nella composizione delle inquadrature inonda la collezione di ciò che Jacques Derrida definirebbe «unicità violenta» (Derrida, 1996), perché costruita da un solo punto di vista, schiacciata da una prospettiva monotona. Tuttavia, la possibilità di ‘riesumare’ queste tracce, di interpretarle attraverso un’analisi puntuale, genera movimenti differenziali: l’indagine infatti individua alterità che producono nuovo senso (Leghissa, 2020). A un attento esame, nelle decine di fotografie di cucine, camere da letto, salotti, terrazzi dove dive e ‘divette’ si mettono in posa, ogni stanza della casa è suscettibile di essere un palcoscenico esclusivo su cui si può ostentare un aspetto ben diverso da quello più spesso esibito o, al contrario, confermare i cliché legati al proprio personaggio.
La casa rispecchia il contesto storico ed è in parte frutto dell’organizzazione politica, economica e sociale del momento, ma, simultaneamente, è «porosa e permeabile» (Meloni, 2014, p. 423), perché possibile passaggio tra interno ed esterno, luogo attraversato da intimità rasserenanti, in cui tutti si possono riconoscere. Come osserva Doreen Massey, almeno fino a qualche decennio fa la casa è stata considerata il «posto delle donne […] fonte di stabilità, affidabilità e autenticità» (Massey, 1994, p. 180). Senza dubbio tra gli anni Cinquanta e Sessanta la struttura dei locali domestici rispetta ancora fortemente il controllo patriarcale della sfera privata. La donna è collocata tra la stanza da letto e la cucina, mentre il salotto è camera di rappresentanza. Eppure è proprio all’interno di queste mura che possono intercettarsi le prime, piccole rivoluzioni.
La casa è sì garanzia di continuità con il passato, ma anche ‘gate’ di passaggio verso il futuro. Non stupisce, allora, che, nel tentativo di comunicare altre dimensioni del sé, forse più accessibili, dive simbolo di una sensualità potente come Sophia Loren o, come vedremo, Jayne Mansfield, si mostrino negli spazi di famiglia circondate dai propri affetti. Tra gli ambienti raffigurati, il salotto è preponderante. Esso diventa, luogo di «emancipazione psicologica» (Habermas, 2005, p. 63), spazio in cui mostrare le multiple forme della propria immagine pubblica.
2. Rassicurante consapevolezza
Tante le attrici, le soubrette televisive, le cantanti catturate dall’obiettivo mentre compiono gesti quotidiani, scontati, casalinghi, come ascoltare la radio, parlare con un’amica o un familiare, addobbare la casa per le feste di fine anno. È così che viene rappresentata Antonella Lualdi [fig. 1] in una fotografia non datata, ma collocabile, vista la foggia degli abiti, alla fine degli anni Cinquanta. Seduta ai piedi di un albero di Natale, l’attrice si offre all’obiettivo nei panni della brava padrona di casa in grado di accogliere gli ospiti alla maniera di una lady di qualche secolo prima, quando ogni signora della borghesia era «la sacerdotessa dell’arte della conversazione» (Mancini, 2020, p. 234). Ripensando alla storia personale dell’attrice, la memoria corre al suo matrimonio (1955) con Franco Interlenghi, unione che all’epoca è stata oggetto di numerosi articoli giornalistici. Al tempo in cui quest’immagine è stata realizzata (forse 1959, secondo una supposizione degli archivisti), Lualdi è già convolata a nozze con l’attore, alla cui figura la sua visibilità è strettamente legata. Eppure, sola, davanti alle decorazioni festive, le si riconosce la capacità di gestire lo spazio con decisione, nonostante la conformazione ai precisi canoni visivi della buona società.
Nel ventaglio delle attitudini da brava signora borghese, alla cura della casa si aggiunge l’attenzione alla famiglia, ancora una volta espressa negli spazi della stanza più ‘pubblica’ delle dimore occidentali. La già citata Jayne Mansfield, scandalosa ex coniglietta di Playboy, seduta sul divano insieme al secondo marito, il culturista ungherese Mikey Hargitay, e ai due figli, è moglie e madre esemplare. L’intera serie di Mansfield è centrata sulla riproduzione del più canonico nucleo familiare, all’interno del quale la futura protagonista di Promises! Promises! (King Donovan, 1963) appare un passo dietro al consorte. L’abbigliamento composto, in opposizione alla fisicità prorompente della ‘rivale’ di Marylin, è in netto contrasto, nel suo candore lucente, con il corpo esplosivo dell’attore-atleta, che in qualche scatto deborda dallo scopo del servizio e si esibisce, ancora vestito di tutto punto, in improbabili allenamenti con i pesi. La fotografia è senza data, ma, dall’età attribuibile al figlio più giovane, siamo forse alla fine del 1959, inizio 1960 [fig. 2]; probabilmente Mansfield e Hargitay si trovano a Roma per la lavorazione di Gli amori di Ercole (Carlo Ludovico Bragaglia, 1960), di cui la coppia è protagonista. Nel confronto con la debordante passione di qualche scena del film [fig. 3], colpisce la misura con cui Jayne lascia spazio al compagno, come qualsiasi buona padrona di casa degli anni Cinquanta. La diva mostra un fare contenuto, non volendo esibire nulla dell’esuberanza per cui è conosciuta; pare quasi una dama di inizio secolo che riceve l’omaggio floreale nel suo salottino privato. Per lei, per questo suo particolare atteggiamento di estrema moderatezza, si potrebbero usare le parole che Chiara Tognolotti scrive a proposito di Sophia Loren, altra diva casalinga: Mansfield non varca i confini perché in fondo è sostenuta da «quella storia e quella memoria che le derivano da una star persona innervata per l’appunto dai caratteri dell’eros e della dismisura» (Tognolotti, 2019, p. 108). La maternità e il matrimonio sono un sicuro strumento per ricondurre un’immagine debordante nei più accettabili «termini dell’ordinarietà» (Busetta, 2018, p. 163). Eppure, dietro queste manifestazioni di familiare conformità occhieggia la professionista che sceglie di usare gli ambienti della sua casa romana per pubblicizzare il frutto del lavoro condiviso con il compagno. La caduta del diaframma tra pubblico e privato consente di assegnare all’abitare una nuova funzione: la casa non è più lo scrigno segreto dell’esistenza femminile, ma spazio da modellare in base a precisi interessi personali e professionali.
3. Trasgredire… o continuare a stupire
Il salotto emerge come luogo dell’espressione cosciente, come, d’altronde, sotto altre forme e per altri scopi, è sempre stato, perché territorio della riconoscibilità di uno status sociale. Per questa sua qualità da ribalta, esso è però anche lo spazio adatto a promuovere personalità più singolari, che eleggono la propria dimora a dimensione di creatività o di rilancio di un’immagine altra di sé, discorde da quella comunemente conosciuta sul grande schermo.
Eccentrica è sicuramente Vicky Ludovisi, l’attraente Floriana di L’audace colpo dei soliti ignoti (Nanni Loy, 1959), che nel suo ‘servizio a casa’ conferma la personalità audace e provocatoria interpretata nella pellicola. Fotografata nel suo salotto nell’anno dell’uscita del film, guarda l’obiettivo in maniera ammiccante, si siede sul divano e, in atteggiamento sfacciato, mostra la schiena scoperta [fig. 4]. Un po’ di tempo dopo, nel 1961, le stesse stanze diventano un vero e proprio spazio performativo: coperta da una camicia da notte leggera e trasparente, Vicky apre le braccia spiegando due ali di stoffa che le fanno acquisire il profilo ambiguo della seduttrice buffa e angelica [fig. 5]. La memoria corre alla sua prima apparizione nella pellicola di Loy: osservata dall’improbabile banda di scassinatori mentre prende il sole completamente nuda su un terrazzo, nelle vesti di Floriana, lascia intravedere le forme del suo corpo riparandosi dietro un lenzuolo bianco steso ad asciugare [fig. 6]. Ma se il salotto di Vicky Ludovisi non fa altro che confermare la sua pubblica immagine da sirena ammaliatrice, in altri casi questa stanza svela lati nascosti delle protagoniste, comportamenti che in un certo modo le rimettono in gioco, anche provocatoriamente. Maria Fiore, la Carmela di Due soldi di speranza (Renato Castellani, 1951), molto attiva come attrice e doppiatrice tra gli anni Cinquanta e Sessanta, abbandona il modo sobrio legato ai ruoli da ragazza modesta per esprimere una sensualità prorompente. Gli scatti della DIAL la ritraggono in vario modo, poggiata al mobile bar del suo salotto con un bicchiere di liquore in una mano o seduta in poltrona in pose che lasciano interamente scoperte le gambe. Spicca il contrasto tra due opposte tipologie di rappresentazione. In una, Fiore è ritratta da diverse angolazioni davanti alla tenda che copre l’entrata del balcone del salotto: il trucco è sobrio, i capelli ben pettinati, un ampio golf bianco le avvolge le spalle, lo sguardo pare rivolgersi all’obiettivo sfiorandolo con un’ombra di timidezza [fig. 7]. È una raffigurazione consueta: l’attrice qui potrebbe essere una qualsiasi ragazza ripresa durante un pomeriggio di noia. Dall’altro lato, le fotografie che la immortalano in body intimo e scarpette da camera, mentre ‘gioca’ con una sedia al centro della stanza [fig. 8], rompono gli argini dell’ordinario restituendo una variante sconosciuta della sua personalità, imprevista, ma verosimilmente necessaria a cercare una nuova modalità di comunicazione con il proprio pubblico. La ‘stanza della formalità borghese’ esplode davanti alla volontà di trasgressione.
4. Casa: cosmo di possibilità
Le fotografie che raffigurano Maria Fiore creano una sorta di spaesamento perché si passa dalla fanciulla dall’aspetto bon ton alla seduttrice aggressiva.
La raccolta è piena di questi scatti in cui il salotto è usato alla maniera di un palcoscenico dove esibirsi presentando apparenze inaspettate del proprio essere. La ‘stanza pubblica’, un tempo luogo in cui la famiglia esponeva la versione ‘ufficiale’ di sé, qui si apre – con la camera da letto – a una dimensione performativa in cui ricrearsi. Non è un caso che dive famose o meno note abbiano scelto questo speciale proscenio come «campo di espressione» (Brogi, 2022, ed. Kindle, cap. I, par. ‘Spazi vitali’), facendosi testimoni incisive di un cambiamento.
Preso nel suo insieme, il fondo DIAL disegna una costellazione di pose, atteggiamenti, espressioni che registrano piccole e grandi scosse determinanti nel rapporto delle donne con l’ambiente domestico, sempre più spazio di «verifica dell’identità» (Brogi, 2022 ed. Kindle, cap. I, par. ‘Spazi vitali’). D’altro canto, le fotografie delle attrici (e degli attori) per la loro «ambiguità e densità […] sono state, e continuano a essere oggi, tra i principali strumenti con cui il cinema rinsalda il rapporto con il pubblico» (Pierini, 2021, p. 26). Accade con gli scatti di scena, ma, forse, in maniera più marcata con questa tipologia di servizi, volontariamente ‘alieni’ rispetto alla versione più diffusa della protagonista di turno, perché collocati al di fuori del set, in un contesto, quello casalingo, che dovrebbe essere chiuso allo sguardo estraneo. Un sentimento di alterità la fa da padrone. Ciò accade sia in alcuni scatti in cui la rappresentazione segue lo ‘stereotipo’ del personaggio – provocatorio sullo schermo, trasgressivo nella vita (Vicky Ludovisi, per esempio) – sia quando lo capovolge – donna fatale sullo schermo, madre e moglie ordinaria nella quotidianità (Jayne Mansfield). Nel primo caso la ridondanza del comportamento genera una sorta di osmosi fra realtà e finzione: la trasgressività non è un più solo relegata nei confini della scena, ma vissuta nella vita di tutti i giorni. Nel secondo caso, lo scontro tra immagini contrastanti sembra il canale attraverso cui il pubblico può approfondire la conoscenza di un personaggio. C’è poi un terzo caso, una specie di sincrasi tra i primi due, quello incarnato da Maria Fiore, che nelle raffigurazioni della DIAL è una ninfa cangiante: pacifica ragazza bon ton e conturbante spogliarellista improvvisata allo stesso tempo. Il corpo cambia funzione, innesca un capovolgimento di paradigma, non si modella più «facendosi agire dagli spazi» (Meloni, 2014, p. 430) ma li controlla, li trasforma e li rinnova. E che questo avvenga attraverso i corpi delle attrici è significativo: l’‘autorevolezza’ di cui esse godono presso il proprio pubblico fa di questi gesti aperture verso il futuro. La casa non è confine che limita, ma passaggio a un cosmo di creatività consapevole.
Bibliografia
D. Brogi, Lo spazio delle donne, Torino, Einaudi, 2022.
L. Busetta, ‘Più belle e più popolari le dive che hanno bambini: maternità e divismo nel rotocalco generalista del Secondo dopoguerra’, Mantichora, 8, 2018, p. 160-174.
J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana [1995], Napoli, Filema, 1996.
M. Foucault, L’archeologia del sapere [1969], Milano, Rizzoli, 1999.
J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica [1962], Roma-Bari, Laterza, 1999.
D. Massey, Space, Place, and Gender, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1994.
P. Meloni, ‘Introduzione. L’uso (o il consumo) dello spazio domestico’, Lares, 3, 2014, pp. 419–38.
M. Pierini, ‘Fotografare I divi: rivelare e celare’, in G. Carluccio, D. De Gaetano, ‘Introduzione’ in Id., Photocall. Attori e attrici del cinema italiano, Torino, Museo Nazionale del cinema, 2021, pp. 25-27.
G. Leghissa, ‘La nozione di archivio. Prospettive antropologiche e filosofiche’, in M. Corgnati (a cura di), Archivi, Luoghi, paesaggi digitali, Canterano, Aracne, 2020, pp. 231-255.
C. B. Mancini, Spazi del femminile. Nelle letterature e culture di lingua inglese fra settecento e ottocento, Milano, Mimesis, 2020.
C. Tognolotti, ‘Una diva fragrante. L’immagine divistica di Sophia Loren nei libri di ricette’, Arabeschi. Rivista internazionale di studi su letteratura e la visualità, 14, 2019, pp. 104-109.