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Abstract: ITA | ENG

Lo studio avanza una rilettura del genere artistico relativo ai confini geo-politici e concettuali (Border Art) nel contesto dell’Antropocene. Attraverso una metodologia interdisciplinare articolata tra geografia e arte contemporanea, si ripercorre un doppio binario, concreto ed epistemico. Lo studio sviscera, dunque, l’annoso dibattito attorno alla più adeguata (e decolonizzata) denominazione per la nuova era geologica e analizza una selezione di opere provenienti da diversi contesti frontalieri. Da quest’ultima, emergono due nodi principali — la “traccia” e la “mobilità” — attraverso cui la Border Art si rende un utile strumento per orientarsi all’interno delle dinamiche antropoceniche. Se la prima si presenta come un simbolo della forma mentis d’epoca moderna e coloniale, il secondo manifesta la necessità di concentrare l’attenzione verso l’idea di movimento, sostenendo così le tesi sulle kinopolitiche e sul Kinocene di Thomas Nail.

The study proposes a re-reading of the artistic genre concerning geo-political and conceptual borders (Border Art) in the Anthropocene context. The research moves through a concrete and epistemic double track, by following an interdisciplinary methodology between contemporary art and geography. By tracing the long-standing debate on the most adequate (and decolonized) denomination for the new geological era, the text analyzes a diversified selection of art pieces belonging to different border contexts. Two main concepts emerge from the latter: the idea of ‘trace” and the one of “movement”. They correspond to the main contribution that Border Art provides to grasp the anthropocenic dynamics. The first one represents a symbol of the modern and colonial thought, while the second one expresses the needs for a deeper attention towards the idea of movement and, by doing so, it sustains the thesis on kinopolitics and Kinocene proposed by Thomas Nail.

 

 

1. Introduzione, obiettivi e metodi

 

From up here the Earth is beautiful,

without borders or boundaries.

Jurij Gagarin 

 

Per via di un radicale allontanamento del punto di osservazione sulla Terra,[1] la celebre frase di Jurij Gagarin sull’impossibilità di vedere i confini territoriali dallo spazio ha fin da subito generato una collettiva, e non priva di invidia, fascinazione per quell'inedito belvedere e per l’illusione, da esso suscitata, di un mondo senza frontiere. Nonostante questa prima testimonianza, si è comunque diffusa nel tempo la diceria secondo la quale da una tale distanza sarebbe comunque ancora possibile osservare a occhio nudo la Grande Muraglia Cinese. Nel 2003, è intervenuto l’astronauta cinese Yang Liwei a sostenere[2], pur non senza persistenti difficoltà, l’irrealtà di tale radicata credenza, a sua volta confutata da spiegazioni sul funzionamento dell’occhio umano.[3] Nonostante ciò, la persistenza di questa leggenda pare suggerire un’ossessione del genere umano per i confini, se non addirittura l’incapacità stessa di immaginare il suolo terrestre completamente privo di demarcazioni territoriali. Oggi, sempre più artisti e studiosi, muovendo figurativamente dallo stesso punto di vista di Gagarin e Liwei, ci invitano a «re-imparare ad atterrare sulla Terra»[4] come reazione a un epocale disorientamento politico-sociale, di portata simile a quello post-copernicano e kepleriano. Si tratta dello sconvolgimento suscitato dalla consapevolezza di essere, ormai da tempo, dentro l’Antropocene.

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