«Your animated GIFs run on burnt coal and your computers are built by slaves»: l’estrattivismo come rappresentazione simbolica del Capitalocene

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Per mezzo di quali metafore visuali è possibile comprendere la logica culturale del Capitalocene all’interno del sistema dell’arte contemporanea? Possiamo intendere l’estrattivismo come rappresentazione simbolica di tale ‘nuova’ era geologica? Intento di questo paper è fornire una risposta a tali domande considerando vari casi studio legati all’arte contemporanea utili a stabilire una traiettoria narrativa che insista sul rapporto tra paesaggio, cambiamenti ambientali e infrastrutture tecnologiche. Dal punto di vista strutturale, dopo una breve riflessione sul termine Capitalocene e sulle sue specifiche occorrenze nella critica artistica contemporanea, l’articolo si compone di due sezioni tematiche finalizzate a tracciare un parallelismo concettuale tra i vecchi metodi di estrazione mineraria – e più in generale di risorse naturali – e le attuali pratiche legate al mining contemporaneo – attività, al pari della precedente, estremamente impattante sul piano ambientale e foriera di alcune contraddizioni etico-politiche sul piano della produzione artistica contemporanea.

Which metaphors can be used to understand the agency of the cultural logic of the Capitalocene within contemporary art? Can we consider the extractivism as a symbolic representation of this new kind of geological era? The aim of this paper is to answer these questions by tackling several contemporary art case studies useful to define a trajectory that focuses on the interplay between the landscape, environmental disasters and technological infrastructures. After a short introduction on the term Capitalocene and its success within contemporary art criticism, the article is made up by two thematic chapters devoted to establish a dialectic between the old minerary extractive methods and the current practices linked to the contemporary mining.

 

1. Presupposti terminologici: Antropocene versus Capitalocene

La frase riportata nel titolo è tratta da una dichiarazione di uno speaker della conferenza Ways Beyond Internet organizzata all’interno del Digital Life Design Festival del 2012, una delle rassegne più importanti al mondo dedicata al tema della creatività futura e all’impiego di nuove strategie commerciali per le grandi aziende e multinazionali. In quella cornice, durante una tavola rotonda moderata da Hans Ulrich Obrist – con vari artisti tra cui Rafaël Rozendaal, Oliver Laric, Cory Arcangel – Daniel Keller, fondatore del duo artistico AIDS-3D, ha preso la parola e, prima di intavolare un discorso sulla post-internet art, ha annunciato, con un misto di ironia e sarcasmo, che, per quanto possa essere sostenibile ed environmental-friendly, l’arte contemporanea – e più in generale la produzione culturale della contemporaneità – grava su un ineludibile paradosso; le GIF animate, le opere di net-art, per quanto sperimentali e all’avanguardia siano, esistono unicamente grazie a combustibili fossili e i computer, con cui in genere queste opere sono realizzate, sono stati assemblati da lavoratori schiavizzati dall’attuale sistema economico.[1] In altri termini: la produzione artistica contemporanea legata ai nuovi media e alle tecnologie, che talvolta fa affidamento alle criptovalute e ai processi di mining, benché spesso animata da un forte sostegno alla salvaguardia e alla tutela dell’ambiente, ha, e avrà sempre, un impatto non trascurabile in termini di etica, ecologia e coerenza produttiva.

Gli ospiti della conferenza Ways Beyond Internet, all’epoca non così famosi, attualmente sono tra le personalità più iconiche della cosiddetta post-internet art, una tendenza artistica contraddistinta dall’utilizzo massivo di internet e della speculazione sul suo immaginario ‘pop’. Come ricorda il critico Brian Droitcour la post-internet art è una categoria che pone sullo stesso piano una «hazy contemporary condition and the idea of art being made in the context of digital technology».[2]

La frase di Keller funziona come monito etico rispetto alla produzione artistica sperimentale degli ultimi dieci anni del XXI secolo. Termini come carbone e schiavitù possono apparire distanti dalla terminologia del contemporaneo, fatta di environmentally friendly entrepreneurship, cloud computing e weightless economy; questi ultimi espedienti linguistici, atti a oscurare un presente industriale e produttivo fatto di deregolamentazione e sfruttamento indiscriminato di risorse fossili e naturali, esprimono al massimo grado la contraddizione semantica che anima la definizione di Capitalocene, concetto formulato da Jason Moore nel suo articolo Anthropocene, Capitalocene and the Myth of Industrialization (2013).[3] Proposto come antitesi al fortunatissimo ‘Antropocene’ coniato da Paul Crutzen e Eugene Stoermer nel 2000, il termine coniuga i problemi legati all’industrializzazione selvaggia degli ecosistemi terrestri ai privilegi classisti e sociali che differenziano Nord e Sud del mondo, in termini di ricchezza economica e sfruttamento a vantaggio del primo e a scapito del secondo. Finalizzato a superare l’antitesi umano versus naturale proposta dall’Antropocene, il termine Capitalocene definisce una nuova era geologica nata dal prodotto del capitalismo globalizzato, delle recenti pratiche colonialiste a scapito dei paesi meno sviluppati e dell’attività indiscriminata e deregolamentata di estrazione di risorse fossili e naturali; tutto ciò, in contesti specifici, è definibile come estrattivismo.

 

The Capitalocene thesis speaks directly to the origins and development of a geohistorical era that unified new strategies of domination, exploitation and environment-making. The emergence of the capitalist world-ecology extended well beyond the economic. The Capitalocene knitted together new patterns of class exploitation and surplus accumulation in the web life. Its geological impact was immediate. We are accustomed to thinking today’s climate crisis is the first capitalogenic climate crisis.[4]

Stando alla trattazione di Moore, il concetto di Capitalocene riprende una terminologia cara alla critica marxista: uno dei suoi meriti è quello di mettere in discussione il concetto di post-colonialismo preferendo, al contrario, ‘colonialismo’ come termine descrittivo per definire la sistematica continuità secolare di pratiche spoliative delle risorse ambientali dei paesi più poveri e di sfruttamento di manodopera a basso costo a vantaggio dei contesti industriali e produttivi delle nazioni più ricche. Data l’ampiezza semantica del concetto è fondamentale comprenderne le differenti ricadute non solo in termini economico-sociali, come gli attuali studi in merito stanno già facendo.[5] Come noto esistono una molteplicità di termini atti a definire l’attuale presente storico che vede l’uomo come principale attore del cambiamento climatico terrestre; tuttavia, a partire dalla definizione di Antropocene e, soprattutto in funzione di critica a quest’ultimo termine, sono stati formulati molti neologismi che problematizzano il rapporto tra conoscenza, epistemologia, uomo – in senso estensivo – e Natura.[6] L’adozione del termine Capitalocene, ai fini del nostro discorso, permette di focalizzarsi sulla stretta interrelazione tra sistemi di produzione, sfruttamento di risorse e narrazioni simboliche di tale dialettica; in questo contesto l’industria artistica contemporanea rappresenta un caso unico che offre numerosi spunti di indagine sul tema. In altri termini intendo comprendere per mezzo di quali metafore narrative e visuali si può capire meglio l’agency del termine Capitalocene all’interno della produzione artistica contemporanea.

Un primo sistematico tentativo riguardo al problema è riscontrabile nel saggio di Nicolas Bourriaud Inclusioni pubblicato nel 2020. Noto alla critica internazionale per l’elaborazione del concetto di ‘estetica relazionale’, nel suo ultimo saggio il critico francese impiega il termine Capitalocene come espediente narrativo per analizzare la produzione artistica contemporanea e, attraverso alcune formule semantiche accattivanti – «antropocene come paesaggio relazionale», «decrescita estetica», «artista come antropologo molecolare», «estetica inclusiva» – fornisce alcuni percorsi tematici utili alla critica militante impegnata nella discussione di questi temi.[7] Le citate metafore erano già state oggetto di indagine, e motivo di critica, in occasione della sedicesima biennale di Istanbul The Seventh Continent da lui curata nel 2019, che aveva come oggetto tematico il rapporto tra arti, Antropocene e il simbolico settimo continente, il cosiddetto pacific trash vortex – un agglomerato galleggiante composto in gran parte da scarti in plastica e dai rifiuti non compostabili provenienti dalle nazioni che si affacciano sul Nord Pacifico, grande circa un milione e mezzo di chilometri quadrati, pesante milioni di tonnellate, attualmente alla deriva in una zona imprecisata dell’Oceano Pacifico.[8] In tale continuità critica è opportuno riconoscere una certa attenzione da parte degli artisti a questi temi – peraltro già presente nelle pratiche artistiche, stando alle parole di Bourriaud, almeno dall’inizio degli anni Novanta[9] – e delle istituzioni e fondazioni artistiche più importanti impegnate nel riflettere su una specifica estetica dell’antropocene.[10]

Dall’impostazione metodologica presente nel saggio di Bourriaud intendo pertanto derivare e sviluppare nei prossimi paragrafi alcuni snodi irrisolti riguardo al rapporto tra Capitalocene e sistemi produttivi dell’arte contemporanea recente, ovvero le nuove condizioni di visualità inaugurate a partire dall’adozione di questo termine e quanto queste influenzino l’immaginario narrativo che è andato sviluppandosi attorno a esso.

 

2. Sichuan, 2018. Il farsi immagine del mondo.

 

When you compare cryptocurrency mining to gold mining, why the process is referred to as mining becomes clear. In both forms of mining, the miners put in work and are rewarded with an uncirculated asset. In gold mining, naturally occurring gold that was outside the economy is dug up and becomes part of the gold circulating within the economy. In cryptocurrency mining, work is performed, and the process ends with new cryptocurrency being created and added to the blockchain ledger. In both cases, miners, after receiving their reward — the mined gold or the newly created cryptocurrency — usually sell it to the public to recoup their operating costs and get their profit, placing the new currency into circulation. The cryptocurrency miner’s work is different from that of a gold miner, of course, but the result is much the same: both make money. For cryptocurrency mining, all of the work happens on a mining computer or rig connected to the cryptocurrency network — no burro riding or gap-toothed gold panners required![11]

Nel 2020 viene pubblicata sulla piattaforma social Reddit un’immagine dal titolo Flooded Bitcoin Farm all’interno del thread ‘r/WellThatSucks’.[12]

Anonimo, Fattoria di criptovalute allagata, Sichuan, Cina, 2018. Image in the public domain

La fotografia, scattata con uno smartphone, reca in primo piano un’ampia distesa di processori distrutti, schede video inutilizzabili, cases sfondati e strumentazioni per il mining di criptovalute coperte di fango. Sullo sfondo, una farm per il cryptomining, un edificio in mattoni rossi che ospitava al suo interno una fitta rete di ASIC (Application-Specific Integrated Circuit) e GPU (Graphics Processing Unit) per il mining di criptovalute;[13] accanto, un fiume impetuoso avvolto dalla rigogliosa flora cinese. L’immagine documenta l’impatto disastroso delle alluvioni tropicali su una fattoria di criptovalute abbattutesi sulla provincia cinese dello Sichuan tra il 27 e il 28 giugno 2018.[14] A partire dagli anni Dieci, lo Sichuan è stata una zona, assieme allo Xinjian, interessata dall’aumento spesso non normato di queste nuove realtà produttive all’interno di contesti periferici urbani o in hangar semi occultati dalle foreste cinesi.

Sotto il post ‘Flooded Bitcoin Farm’ sono presenti numerosi commenti ironici degli utenti di Reddit riguardo all’accaduto. Nei due anni successivi la pubblicazione del post, l’immagine è stata pubblicata numerose volte in threads differenti, al punto da diventare un meme ironico sulla possibilità di perdere, nell’arco di una notte, interi asset finanziari in criptovalute a causa di un evento atmosferico imprevedibile;[15] «Flooded Bitcoin Farm for your viewing pleasure», «here, have this picture of a flooded bitcoin mining farm, as a treat», «Should I invest in NVIDIA right now?» sono alcuni dei commenti sarcastici sull’impatto ambientale che le miniere e le fattorie di criptovalute hanno attualmente.[16] Le farms generalmente sorgono nelle vicinanze di sorgenti di corrente elettrica a cui possono sottrarre energia per alimentare le dispendiose e costose unità di mining meticolosamente stipate all’interno di centri e hub costruiti ad hoc. Si stima che la nascita di miniere e fattorie di criptovalute nelle aree dello Sichuan, Xinjian e Hubei sia strettamente correlata alla scarsa densità abitativa, alla possibilità di procurarsi energia elettrica a prezzo bassissimo e non meno importante, al clima mite di quelle regioni – da un massimo di -10° in inverno fino ai +25° gradi estivi.[17] In relazione all’accaduto, con i recenti sconvolgimenti meteorologici, nessun clima può più dirsi mite e nessuna fattoria di criptovalute può dirsi al riparo dai sempre più consueti imprevisti atmosferici; l’impatto climatico – la carbon footprint – del processo di ‘estrazione’ o mining di criptovalute risulta essere correlato agli stessi effetti nefasti che contribuisce a creare. Basti pensare che una semplice ricerca su Google, stando alle parole del citato Daniel Keller, consuma in termini di combustibili fossili quasi quanto la preparazione di un pasto caldo; è stato altresì dimostrato come l’impatto globale dell’estrazione di Bitcoin corrisponda al consumo energetico annuo di stati industrializzati come l’Argentina o la Svezia.[18] Simili eventi catastrofici, improvvisi e imprevedibili, influenzano anche l’hash rate globale – il ritmo di ‘estrazione’ e le operazioni algoritmiche – dei miners, a testimonianza della precarietà strutturale su cui si fonda questo settore.[19]

L’immagine del post di Reddit rappresenta il simbolo del processo ricorsivo del Capitalocene: maggiore richiesta di criptovalute, maggiore la richiesta di fattorie e miniere, maggiore l’impatto ambientale che queste comportano; conseguentemente, il contributo che queste hanno sull’instabilità climatica sarà maggiore. Nella fotografia osserviamo la causa ‘metaforica’ dell’alluvione – benché non vi sia una reale correlazione causa-effetto in questo specifico evento – che danneggia gli apparati tecnici della miniera di criptovalute e, allo stesso tempo, il suo drammatico risultato: una distesa di oggetti resi inutilizzabili dalla violenza della natura, strumentazioni un tempo assai costose che devono la loro creazione – a loro volta – a ulteriori processi minerari senz’altro più tradizionali, ma ugualmente dispendiosi, come l’estrazione delle terre rare e altri minerali fondamentali per lo sviluppo dell’industria informatica. L’effetto ricorsivo descritto dalla fotografia confuta, inoltre, l’abusato dogma digitale dell’invisibilità, leggerezza e sostenibilità delle criptovalute dal punto di vista climatico; questo aspetto si può estendere all’attuale panorama tecnologico. Come ricorda l’artista e teorico James Bridle, autore del saggio New Dark Age (2018), uno dei principali problemi irrisolti della contemporaneità sta nella mancanza di trasparenza delle prospettive tecnologiche future, in termini etici e sociali. Bridle muove contro le metafore narrative che hanno posto sullo stesso piano efficienza produttiva tecnologica e un ‘presunto’ minor impatto ambientale; tra tutte il concetto di cloud, che

 

non è un luogo mitico e senza peso, tantomeno invisibile se si sa dove cercarlo […]. Si tratta semmai di una struttura fisica composta di linee telefoniche, fibre ottiche, satelliti, cavi sul fondo dell’oceano…È un nuovo tipo di industria, ed è anche particolarmente famelica.[20]

 

Alla luce della necessità di una maggior chiarezza sugli sviluppi delle società durante il Capitalocene, l’autore considera fondamentale l’importanza di nuove metafore per comprendere le nuove sfide poste in essere dal cambiamento climatico.

In virtù di quanto precedentemente affermato, l’ambiguità semantica del processo ricorsivo e nefasto del mining, e soprattutto la sua continuità storica con i processi minerari che hanno connotato il mondo sociale ed economico dall’Ottocento a oggi, costituisce un valido punto di partenza con cui confrontarci e attraverso cui verificare la sua efficacia come metafora narrativa utile a raccontare il presente. Lo è per molte ragioni: in primis, perché racconta il reale volto del Capitalocene e, non meno importante, perché il processo metaforico del mining testimonia come a un radicale cambiamento del modo di vedere il paesaggio – la fotografia di Sichuan – corrisponda un mutamento dei nostri rapporti con la conoscenza della realtà. Tali sconvolgimenti, ricorda Bridle, sono «un qualcosa che ci circonda, ci avviluppa e ci collega», troppo grandi per osservarli nella loro complessità, tuttavia li percepiamo

 

attraverso l’influenza che esercitano su altre cose […] siamo inclini a percepirli come eventi personali perché ci toccano direttamente, o a immaginarli come prodotti della teoria scientifica; in realtà, sfuggono tanto alla nostra percezione quanto alla misurazione.[21]

Prova documentaria della concretezza delle infrastrutture digitali e del loro impatto sul paesaggio, la fotografia dell’inondazione nello Sichuan situa noi stessi all’interno dell’immagine, privandoci della possibilità di adottare una prospettiva distaccata o differente. Oltre a documentare una tragedia annunciata, l’anonimo fotografo – probabilmente uno degli stessi addetti alla fattoria di criptovalute – ha testimoniato quanto il Capitalocene dia forma ai «current anthropogenic environmental changes, forcing nature into the role of a world external to the logic of capital, where it serves as a provider of resources and a dumping ground for waste and emissions».[22] Pertanto, ricorda lo storico della scienza tedesco Jürgen Renn, ciò può essere definito come cambiamento epistemico dei rapporti di forza tra livelli di comprensione scientifica – in termini di oggettività di rappresentazione – e consapevolezza individuale del problema climatico. Se oggi assistiamo a una profonda divergenza dei due termini, ciò è da imputare in primo luogo alla difficoltà di raccontare e visualizzare il cambiamento climatico. È illusorio pensare che una singola immagine, e un unico accadimento, possano comunicare l’intricata complessità della contemporaneità. Tuttavia vale la pena considerare come l’evoluzione dei modi di visualizzare e rappresentare il Capitalocene, l’estrattivismo e gli effetti a esso collegati, sia in senso tecnico, sia in senso artistico, come vedremo in seguito, possa veicolare una migliore comprensione del problema e, auspicabilmente, il superamento di sensazionalismi e semplificazioni.

 

3. L’immagine della macchina estrattiva: dalle miniere al mining.

In quest’ultima parte della mia riflessione intendo considerare l’efficacia di alcune convenzioni rappresentative del Capitalocene e della sua principale esplicazione simbolica sia in termini di linguaggio sia in termini di impatto visivo: la miniera e il processo del mining.

A oggi esistono centinaia di multimedia artists che hanno cercato di visualizzare l’estetica dell’estrattivismo del Capitalocene; prima ancora pittori, scrittori, artisti in senso ampio, hanno prestato attenzione alle implicazioni del capitalismo a livello naturalistico. Il teorico e critico americano Jonathan Crary ha visto ne Il cotonificio Arkwright di notte (1793) del pittore inglese Joseph Wright of Derby la prossimità fisica della realtà naturale e artificiale trasmettendo anche l’idea della loro incommensurabilità e della loro fatale incompatibilità; il dipinto del pittore inglese rappresentava la radicale ridefinizione dei rapporti fra il lavoro e il tempo, introducendo «l’idea di un sistema in cui le operazioni produttive non si fermano mai, di un lavoro che, per diventare più redditizio, funziona appunto 24/7»,[23] oltre ad anticipare la dimensione estrattivistica della massa lavoro. Crary afferma implicitamente che la raffinazione delle materie prime durante il processo industriale coincide anche con l’estrazione e la conseguente privazione delle risorse biologiche umane – tempo, sonno, svago; non a caso l’attivista ambientale Andreas Malm ha impiegato, tra i primi a farlo, il termine Antropocene proprio in uno studio sull’impatto antropico dell’industria di cotone sul paesaggio rurale inglese.[24] Cent’anni dopo la tela di Wright of Derby sarebbero venute le prime rappresentazioni della ‘macchina estrattiva’ per eccellenza; attraverso le parole dell’artista inglese William Morris possiamo già intravedere un modello efficace che permane ancora oggi: in News from Nowhere (1890) egli si espresse in maniera diretta, da ‘eco-socialista’ diremmo oggi, contro il depauperamento e lo sconvolgimento del paesaggio rurale inglese, allora vessato dai progetti di estrazione mineraria della borghesia inglese, capaci di mettere a nudo «the very skin and surface of the earth on which man dwells, such as a lover has in the fair flesh of the woman he loves»[25] e di violare l’ancestrale patto di convivenza tra uomo e natura.[26] In relazione a quest’ultimo patto dai toni tardo-romantici è situabile il pamphlet di John Ruskin The Storm-Cloud of the Nineteenth-Century (1884) – con protagonista una grande nube scaturita dalle attività minerarie in grado di minacciare lo sviluppo dell’Uomo – o le considerazioni di Alexander Von Humboldt durante i suoi viaggi in Sud America, oggi viste come anticipatrici dell’idea di ‘interrelazionalità’ degli ecosistemi terrestri – non molto distanti dall’idea di Sympoiesis e di Cat’s Cradle Game di cui scrive oggi la teorica e attivista Donna Haraway.[27] Estremamente significative sono le testimonianze pittoriche e artistiche di Costantin Meunier e Maximilien Luce, che rappresentarono con grande efficacia i «massive changes brought about by large-scale mining and ironworking» del paesaggio rurale belga di inizio Novecento, mettendo in scena delle «apocalyptic man-made forces turning a Virgilian landscape in a hellish, unbreathable, barren landscape»[28].

Il fatto che la critica recentemente si sia dedicata alla storicizzazione dei primi sentimenti ecologisti non è soltanto indicativo della necessità di nuovi paradigmi narrativi e visuali in grado di comprendere meglio il fenomeno antropocenico, ma è anche attestazione della secolarità dell’estrattivismo nato in seno al Capitalocene e tutt’ora in corso.

Tra i risultati contemporanei più significativi occorre considerare i media di ‘registrazione’, in particolare la fotografia e in seconda battuta il video, in grado di rappresentare, non senza contraddizioni, lo sfruttamento e la spoliazione delle risorse terrestri. Sempre restando all’interno del contesto minerario è opportuno ricordare l’attività del fotografo canadese Edward Burtynsky; la sua serie fotografica Mines, iniziata nel 1984 e tuttora in sviluppo, è un punto fermo nella rappresentazione fotografica del paesaggio minerario, oltre a costituire un canone di riferimento per innumerevoli epigoni.

Edward Burtynsky, Silver Lake Operations, Lake Lefroy, Western Australia, 2007 © Edward Burtynsky, courtesy Nicholas Metivier Gallery, Toronto

Nelle fotografie dell’artista canadese emerge una dimensione in continuità con i tradizionali modi di intendere il paesaggio naturale depauperato dalle pratiche estrattive; i ‘manufactured landscapes’, da lui così definiti, richiamano l’alterità uomo-natura in senso oppositivo e si situano a metà tra la connotazione simbolica e quella documentaria.

If the human experience can be considered a manifestation of dreams, and desires, mines can be thought of as the source for the raw material of that experience. On one level of understanding, that mineral-rich ore is manufactured into the objects of our collective desire […]. If gold, silver and diamonds are the greatest valuables we bestow upon each other, to honour great citizens and profess our love, then are not the great voids we leave in that residual landscape a lasting testament to these ambitions? The imagery I derive from these landscapes therefore becomes symbolic.[29]

Le risorse minerarie intese come «materiale grezzo dell’esperienza del desiderio» risultano essere il motore simbolico della macchina estrattiva che anima e mette in moto il Capitalocene nella sua incessante e sistematica ricorsività, fatta di estrazione, sfruttamento e creazione di disuguaglianze.

Al centro di numerose esposizioni internazionali sul tema, autore assieme a Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier del documentario Anthropocene: The Human Epoch (2018), Burtynsky insiste su una estetizzazione turneriana del paesaggio minerario, insieme sublime e tragica, tematicamente in linea con la dialettica uomo versus natura, oggetto di critica di molti alla luce dei bias cognitivi su cui il concetto di Antropocene (e la sua antinomia oppositiva) si fonda. Dal punto di vista metodologico – attenta ricerca formale, visione a ‘volo d’uccello’, grande formato di stampa – le fotografie di Burtynsky costituiscono forse uno dei modi più imitati per raccontare i disastri climatici e l’impatto antropico sugli ecosistemi terrestri. In parallelo ai lavori di Burtynsky è opportuno situare la serie fotografica dell’artista David Maisel dal titolo The Mining Project (1989 – in corso) dedicata alla rappresentazione del paesaggio minerario durante gli ultimi quarant’anni: nell’opera menzionata l’artista esplica la sua «fascination with the undoing of the landscape and with the aesthetics and environmental politics of this process»[30] al punto da ipotizzare un possibile ‘antropocene sublime’ non dissimile dalle riflessioni di Burtynsky e, prima ancora, dalle speculazioni artistiche nate in seno all’eco-socialismo morrisiano. Se da un lato è possibile seguire un persistente filo rosso che unisce contesti e pratiche differenti, nella rappresentazione dell’estrattivismo resta da chiarire se l’approccio estetizzante così evidente nei casi sopracitati sia in grado di offrire allo spettatore l’occasione di formarsi una coscienza ambientale critica derivante dalla mera contemplazione del contenuto di tali fotografie.

What might an aesthetics of the sublime attuned to the Anthropocene be? It implies both the distance of the observer’s point of view and the immediacy of being confronted with changes in the world which exceed our capacity of perception and comprehension. Its most emblematic visual paradigm may, in fact, be the gaze of aerial photography. Capturing the scope and scale of environmental destruction from high above, the photographer’s distanced gaze is able to give visibility to as elusive a phenomenon as climate change or massive pollution.[31]

È significativo osservare come il tratto distintivo delle pratiche citate sia l’evidenziazione del processo estrattivista insito nell’Antropocene – o, meglio, nel Capitalocene. La manifestazione dell’elusività dell’estrattivismo si trova però declinata in un, seppur eloquente, dialogo a due, tra spettatore e artista, all’interno della dicotomia uomo, indistinto nel suo appartenere al genere umano, e natura, inteso come soggetto passivo ‘altro’, in grado di parlare esclusivamente per mezzo di una convenzionalità visuale. Non esiste, tuttavia, una narrazione univoca, benché quanto descritto costituisca la narrazione maggioritaria.[32]

Come anticipato in precedenza il parallelismo tra processo estrattivo-minerario tradizionale trova un’importante affinità con il processo di data mining; tale bizzarra letteralità attesta implicitamente le specifiche logiche di sfruttamento dell’estrattivismo durante il Capitalocene. Ricordano infatti i teorici Sandro Mezzadra e Brett Neilson, autori del fondamentale The Politics of Operations (2019), dedicato all’interrelazione tra pratiche estrattive e sfruttamento di forza lavoro all’interno del piano economico-politico globale:

Attention to literally extractive practices is additionally important because the logics that impel them seem to be spreading to other realms of capitalist activity, prompting claims that capitalism has entered a new stage of extractivism. Today we do not just mine coal, nickel, and other raw materials; we also mine data.[33]

Come rappresentare le nuove forme di estrattivismo insite nel mining contemporaneo? La fotografia dell’alluvione di Sichuan, benché amatoriale e simbolica, documentava la dialettica tra visibilità e invisibilità del processo estrattivo-tecnologico del Capitalocene e l’intrinseca precarietà delle infrastrutture del mining rispetto all’imprevisto naturale. Al contrario, la difficoltosa sfida nel rappresentare la nuova stagione ‘immateriale’ dell’estrattivismo sta nella possibilità, grazie ai nuovi media, di poter orchestrare una riflessione in grado di coniugare non soltanto l’evidenza distruttiva del Capitalocene, ma anche di pensare l’impatto a livello di sistemi della supposta ‘invisibilità’ delle nuove tecnologie finanziarie ed economiche.

L’insorgenza delle narrative legate alla smaterializzazione della tecnologia, ai falsi miti del cloud e della wireless industry, ha trovato un’importante controparte nell’emersione di pratiche artistiche finalizzate alla resa tangibile e alla concretizzazione di tale universo apparentemente immateriale e improntato alla salvaguardia dell’ambiente.

Propongo, in conclusione, un caso studio utile a far luce su come l’estrattivismo e la sua rappresentazione possano essere raccontati in maniera inedita e fortemente differente rispetto al passato.

Tra gli artisti che più hanno insistito sulla materializzazione dell’invisibile – presunto – universo neo-tecnologico e sulla sua influenza sulla quotidianità, figura l’artista neozelandese Simon Denny, personalità di spicco nel panorama artistico internazionale e ospite del menzionato convegno internazionale del 2012. Nel 2021 ha esposto presso la galleria Petzel di New York una serie di lavori incentrati sul rapporto tra nuove tecnologie e mining contemporaneo. In occasione della personale lo spazio espositivo si presentava come una grande installazione animata da cartonati che rappresentavano gli strumenti e i macchinari deputati allo scavo minerario; all’interno dello spazio asettico della galleria, lo spettatore si trovava pertanto immerso in una miniera fittizia, tra escavatrici, betoniere, pannelli esplicativi e percorsi minerari.

Simon Denny, Mine, installation view, 2021, Courtesy of the artist and Petzel, New York Simon Denny, Mine, installation view, 2021, Courtesy of the artist and Petzel, New York

Oltre a riflettere sul rapporto tra meccanizzazione e automazione nel campo minerario, intento specifico di Mine consisteva nell’offrire una rappresentazione complessiva del Capitalocene in grado di superare la compassata dialettica – in parte vittimistica e colpevolizzante – del rapporto uomo-natura; come sostengono i critici Boaz Levin e Vera Tollmann nel catalogo a corredo della mostra, il problema affrontato da Denny è la mancanza di una vera e propria immagine capace di visualizzare gli attori in gioco durante il Capitalocene.[34]

The only representation we have of such processes (from rare earth mines to seemingly innocuous hand-held machines and their omnivorous collection of behavioural data, and the absorbing of this data into ‘cloud-storage’) are stock images, blinking server farms, ‘smart machines’ or automated mines seen from drone view. The challenge is to think about labour, resources, and data together. In narrative terms, the difficulty posed is that of breaking away from sequence, into a sort of expanded and spatialized montage, but also of allowing for the viewer’s identification nonetheless through AR interactivity, offering multiple nodes of entry.[35]

A corredo di Mine, Simon Denny, assieme ai curatori della mostra Jarrod Rawlins e Emma Pike, ha realizzato un gioco da tavolo ‘d’artista’ intitolato Extractor, da intendersi come una rappresentazione fittizia delle dinamiche tra sfruttamento delle risorse terrestri, gestione delle stesse e dei big data attraverso modelli di interazione ispirati a Monopoli e al board-game australiano Squatter.[36]

La scelta di rappresentare il Capitalocene e l’estrattivismo in forma giocosa – come fosse un parco giochi di cartone e con rappresentazioni fittizie delle strumentazioni concrete delle pratiche estrattive – implica una partecipazione forzosa da parte dello spettatore, immerso così in una teatralizzazione simbolica dello sfruttamento minerario. La pubblicazione di Extractor è da intendersi come parte integrante dell’opera di Denny:

This board game, 'Extractor', is a fictionalised attempt to imagine the dynamics of six global data-driven businesses as they grow, against a backdrop of the planetary impact of an 'extractive' mindset, with small groups of people accelerating towards centralised ownership of increasingly automated industries. The game imagines a possible future where global businesses, skewing towards monopoly, accelerate and automate processes and dominate industry, hurtling towards global exhaustion and societal polarization.[37]

Simon Denny non è certo il solo a essersi espresso in termini simili, tuttavia è possibile riconoscere nell’attività dell’artista neozelandese un significativo punto di riferimento. Come è emerso in una mia intervista fatta a Denny, suo intento era generare

some kind of affective experience that makes this kind of extraction real, in a felt sense, for a viewer. Within the installation, the connections between various processes of data business – most which are so dispersed and large-scale that they often evade perception – come into view, and we can situate ourselves within them.[38]

Il complesso approccio adottato dall’artista neozelandese può essere preso come modello di riflessione concreta per la risignificazione del concetto di ‘estrattivismo’ in relazione alla pervasività del Capitalocene nelle infrastrutture culturali – arti contemporanee in primis. A titolo di esempio si possono citare numerosi artisti che, in tempi recenti, hanno riflettuto sulla dimensione spoliativa e di sfruttamento del Capitalocene. Si pensi ad esempio alla complessità concettuale delle opere sul tema di Pierre Huyghe e Anicka Yi, a Conversations (2019) dell’artista polacca Agnieszka Kurant, fino al video di Iki Yos Piña Narváez e Jota Mombaça Black Eldorado – We are the earthquake (2021), una toccante riflessione sul corpo umano come luogo di ‘estrazione’ di significati e di senso, di battaglie politiche e di prospettive bio-ecologiste.

All’interno di questo quadro teorico la scelta di proporre un denso e variegato panorama sulla rappresentazione delle metafore dell’estrattivismo ha pertanto coinciso con una riflessione ad ampio respiro sulle prospettive politico-culturali future offerte dalle citate soluzioni artistiche, in grado di non limitarsi a un’estetizzazione della tragedia ecologica e sistemica in atto, ma capaci appunto di proporre articolate riflessioni sulla complessità del Capitalocene e delle sue strutture simbolico-narrative.

 


1 L’evento è trattato in C. Jones, ‘Conceptual Blind Spot’, Mousse, 1° aprile 2013, < https://www.moussemagazine.it/magazine/caitlin-jones-conceptual-blind-spots-2013/ > [accessed 10/07/2022]

2 B. Droitcour, ‘The Perils of Post-Internet Art’, Art in America, 29 ottobre 2014, < https://www.artnews.com/art-in-america/features/the-perils-of-post-internet-art-63040/ > [accessed 10 July 2022]. Per le interrelazioni tra post-internet ed ecologismo si veda anche E. G. Rossi, Mind the Gap. La vita tra bioarte, arte ecologica e post internet, Milano, Postmedia Books, 2020.

3 La paternità del termine non è ascrivibile unicamente a Moore, ma senz’altro è stato colui che più ha contribuito alla applicazione teorica del concetto. Cfr. J. Moore (a cura di), Anthropocene or Capitalocene. Nature, History, and the Crisis of Capitalism, Oakland, PM Press, 2016, p. 5, e J. Moore, Capitalism in the Web of Life. Ecology and the Accumulation of Capital, Londra, Verso, 2015, pp. 176-189.

4 J. Moore, ‘Opiates of the Environmentalists? Anthropocene Illusions, Planetary Management & the Capitalocene Alternative’, novembre 2021, < https://jasonwmoore.com/wp-content/uploads/2021/12/Moore-Opiates-of-the-Environmentalists-2021-Abstrakt.pdf > [accessed 10 July 2022]

5 Per il contesto storiografico si veda J.R. McNeill, P. Engelke, La grande accelerazione. Una storia ambientale dell’Antropocene dopo il 1945, Torino, Einaudi, 2018; per quanto riguarda le arti contemporanee, oltre alle formule di Donna Haraway – Chthulucene e il suo ‘making kin’ –, di T. J. Demos, e alla New Dark Age di James Bridle, è utile rifarsi a N. Axel, D. Barber, N. Hirsch, A. Vidokle, (a cura di), Accumulation: The Art, Architecture, and Media of Climate Change, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2022.

6 C. Bonneuil, J. Fressoz, La Terra, la storia e noi. L’Evento Antropocene, Milano, Treccani, 2018.

7 N. Bourriaud, Inclusioni. Estetica del Capitalocene, Milano, Postmedia Books, 2020.

8 G. Demirkazik, ‘16th Istanbul Biennial’, Artforum, novembre 2019, < https://www.artforum.com/print/reviews/201909/16th-istanbul-biennial-81079 > [accessed 10 July 22]. Per quanto riguarda il pacific trash vortex rimando a C. Moore, C. Philips, Plastic Ocean: How a Sea Captain’s Chance Discovery Launched Determined Quest to Save the Oceans, New York, Avery, 2011.

9 N. Bourriaud, op. cit., p. 21.

10 Estremamente significativo è stato Anthropocene Project (2013-2014), progetto curatoriale del gruppo di attivisti Territorial Agency (John Palmesino e Ann-Sofi Rönnskog) in collaborazione con l’artista Armin Linke e il curatore tedesco Anselm Franke pensato per l’Haus der Kulturen der Welt di Berlino.

11 P. Kent, T. Bain, Cryptocurrency Mining For Dummies, New York, John Wiley & Sons, 2020, p. 56.

12 Il post è tuttora attivo ed è reperibile al seguente indirizzo: < https://www.reddit.com/r/Wellthatsucks/comments/h7evem/flooded_bitcoin_mining_farm/ > [accessed 10 July 22]

13 Se l’attività della farm è regolamentata dalle autorità locali viene definita crypto mine.

14 Tra le piattaforme che per prime hanno riportato la notizia a livello internazionale si veda N. Maurya, ‘Rumors: Huge Bitcoin Mining Devastated in China due to Floods’, Coingape, 1° luglio 2018 https://coingape.com/bitcoin-mining-centers-devastated-in-sichuan/. L’articolo è stato successivamente aggiornato nell’aprile 2022 con alcune considerazioni sul progressivo declino dello Sichuan come zona mineraria a causa delle sempre più frequenti inondazioni.

15 A titolo di esempio si vedano alcuni post su Twitter come < https://twitter.com/JoanieLemercier/status/1480287222830145541 >

16Si veda il post su Reddit u/lessthancale reperibile al seguente link: < https://www.reddit.com/r/Buttcoin/comments/s9q6zd/flooded_bitcoin_farm_for_your_viewing_pleasure/ > [accessed 10/07/22]

17 Attualmente a causa dei provvedimenti legislativi del governo cinese molti miners si sono trasferiti in altri contesti più favorevoli – alcuni di questi, si pensi agli Stati Uniti e al Canada, hanno già superato il volume di operazioni precedentemente raggiunto dalla Cina.

18 Faccio riferimento al Cambridge Center for Alternative Finance e ai dati presenti nel Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index: < https://ccaf.io/cbeci/mining_map > [accessed 10/07/22]

19 S. Tully, ‘How much Bitcoin comes from dirty coal? A flooded mine in China just spotlighted the issue’, Fortune, 20 aprile 2021 < https://fortune.com/2021/04/20/bitcoin-mining-coal-china-environment-pollution/ > [accessed 10/07/22] La questione è molto complessa dal punto di vista delle responsabilità e delle politiche locali; a titolo informativo si veda anche ‘Sichuan floods blamed as crypto currency mining hashrate dips’, Financial Times, < https://www.ft.com/content/1f2ad808-80f2-11e8-8e67-1e1a0846c475 > [accessed 10/07/22]

20 J. Bridle, Nuova era oscura, Roma, Nero Editions, 2019, pp. 15-16.

21 Ivi, pp. 85-86.

22 J. Renn, The Evolution of Knowledge. Rethinking Science for the Anthropocene, Princeton, Princeton University Press, 2020, p. 382. Utile considerare anche I. Emmelheinz, ‘Conditions of Visuality Under the Anthropocene and Images of the Anthropocene to Come’, eflux, marzo 2015, n. 63, < https://www.e-flux.com/journal/63/60882/conditions-of-visuality-under-the-anthropocene-and-images-of-the-anthropocene-to-come/ > [accessed 10 July 22]

23 J. Crary, 24/7. Il Capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino, 2015, pp. 67-68.

24 A. Malm, ‘The Origins of Fossil Capital: From Water to Steam in the British Cotton Industry’, Historical Materialism, 21(1), 2013, pp. 15-20.

25 A. Biggs, G. Shankland (a cura di), William Morris. News from Nowhere and Selected Essays and Designs, Penguin Books, Harmondsworth, 1984, p. 298. Si veda E. C. Miller, ‘William Morris, Extraction Capitalism, and the Aesthetics of Surface’, Victorian Studies, vol. 57, n. 3, 2015, pp. 400-402.

26 A. Taylor, ‘Inhaling the Forces of Nature: William Morris’s Socialist Biophilia’, The Trumpeter, n. 14, 1997, pp. 207-209.

27 F. Lai, ‘Connessioni. Alexander von Humboldt precursore degli studi sull’Antropocene’, América Crítica, 4(2), 2020, pp. 179-180. Cfr. A. Wulf, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, LUISS University Press, Roma, 2017. Per quanto riguarda la riflessione di Haraway rimando a D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere a un pianeta infetto, Roma, Nero Editions, 2019.

28 C. Weidinger, ‘Picturing Industrial Landscapes. Ecocriticism in Costantin Meunier’s and Maximilien Luce’s Paintings of Belgium’s Black Country’, in M. Coughlin, E. Gephart (a cura di), Ecocriticism and the Anthropocene in Nineteenth-Century Art and Visual Culture, New York, Routledge, 2020, p. 112.

29 Si veda < https://www.edwardburtynsky.com/projects/photographs/mines > [accessed 10 July 22]. L’artista canadese ha all’attivo un importante progetto intitolato The Anthropocene Project (2016 – in corso), un complesso corpus di opere dal taglio multidisciplinare che spaziano dalla fotografia tradizionale alla realtà aumentata e alla ricerca scientifica.

30 N. Egan, ‘Eliciting Anxiety in the Presence of the Sublime’, in D. Maisel (a cura di), Black Maps: American Landscape and the Apocalyptic Sublime, Göttingen, Steidl, 2013, p. 7.

31 E. Horn, The Anthropocene sublime: Justin Guariglia’s Artwork, in J. Reiss (a cura di), Art, Theory and Practice in the Anthropocene, Wilmington, Vernon Press, 2019, p. 4.

32 I tentativi di visualizzare il Capitalocene e la simbolica ‘macchina estrattiva’ possono essere riscontrate in varie mostre recenti, anche in Italia, come la rassegna espositiva curata da Marco Scotini presso il Parco di Arte Vivente a Torino. Mostre come La Macchina Estrattiva. Neo-colonialismi e risorse ambientali (2017) o The God-Trick (2018) possono essere intese come restituzioni narrative della complessità del Capitalocene da parte degli artisti. Lungi dall’essere un caso isolato a livello internazionale, l’attività espositiva del PAV – connotata da una forte presenza di artisti internazionali – rispecchia una tendenza contemporanea che cerca di rileggere attivamente le consuetudini rappresentative del Capitalocene al fine di sfuggire da rigide categorie descrittive. Parimenti significative le recenti pubblicazioni di Marco Armiero sul concetto di wasteocene e di tossicità; M. Armiero, Wasteocene. Stories from the Global Dump, Cambridge, Cambridge University Press, 2021.

33 S. Mezzadra, B. Neilson, The Politics of Operations. Excavating Contemporary Capitalism, Londra, Duke University Press, 2019, p. 38.

34 Assieme all’artista Hito Steyerl, i due curatori hanno fondato il Research Center for Proxy Politics.

35 B. Levin, V. Tollmann, ‘Canaries in the Clouds’, in J. Rawlins, E. Pike (a cura di), Extractor, Berriedale, Museum of Old and New Art Editions, 2019, p. 24.

36 Il corpus di opere presente in mostra era in preparazione da vari anni: a partire dal 2016 Simon Denny ha cominciato a sviluppare una riflessione a riguardo in occasione della mostra al Museum of Old and New Art (Tasmania, 2019) e presso la Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Düsseldorf (2020).

37 J. Rawlins, E. Pike, Preface, in J. Rawlins, E. Pike (a cura di), Extractor, p. 4.

38 Durante le ricerche per la stesura di questo saggio ho avuto modo di intervistare personalmente l’artista. L’intervista risale al luglio 2022.