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Non c’è salvezza se non nell’imitazione del silenzio.

Ma la nostra loquacità è prenatale.

Razza di parolai, di spermatozoi verbosi,

noi siamo chimicamente legati alla parola.

 

Cioran

 

La traduzione iconografica della Divina Commedia procede da sempre a fianco al suo secolare commento verbale: una tradizione, quella visuale, che ha consentito di risemantizzare nel tempo le qualità ecfrastiche delle terzine dantesche, consegnandole al denso universo delle immagini moderne, impegnate a tramandare il poema trecentesco fino ai giorni nostri. Le nuove visioni e ricostruzioni iconiche sono diventate uno stimolo e un pretesto.

Anche la spregiudicata libertà immaginifica professata dalle arti del Novecento non si è sottratta al fascino del poema dantesco e ha ritrovato, nei luoghi dell’ultraterreno, nei racconti delle anime sventurate e meritevoli, la metafora perfetta del viaggio dell’uomo, dando nuovo corpo e nuova voce al sentimento di finitezza e smarrimento che disorienta l’uomo moderno.

Gli artisti contemporanei, infatti, per riportare all’attenzione del nostro sguardo un riverbero della poesia dantesca non hanno solo ricercato le forme più audaci e le cromie più consone al loro sentire. Il magnetismo visuale, per niente sbiadito della Commedia, ha concesso loro di vestire i panni del viaggiatore/sognatore in cammino, alla ricerca di un sé frammentato da quella ormai nota modernità baudelairiana, transitoria, fuggitiva e contingente.

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  Se le sale dell’Ermitage all’improvviso dessero fuori di matto, se i quadri di tutte le scuole e di tutti i pittori, all’improvviso si staccassero dai chiodi, penetrassero l’uno nell’altro, si mischiassero fra loro e riempissero di urla futuristiche e di una furiosa eccitazione cromatica l’aria che odora di chiuso, ne deriverebbe qualcosa di simile alla Commedia dantesca (Mandel’stam 2007, p. 118).

In un passo della sua Conversazione su Dante, il poeta russo Osip Mandel’stam concepisce l’opera dantesca come una fusione cromatica intensa e violenta e compone, a parole, un’immagine che desta fascino e terrore. Dentro questa bufera di colori l’autore scopre un Dante diverso, nuovo, che la tradizione letteraria è restia a tramandare; ci presenta un poveraccio, «un uomo senza fiducia in se stesso», goffo, tormentato e ramingo, incapace di mettere un piede avanti all’altro e costretto a farsi accompagnare da un poeta latino. L’intento di Mandel’stam è di tramandare la Commedia che sente più reale e vera, non ancorata agli aspetti simbolisti e romantici esibiti dalla cultura europea e vivi nella Russia del suo tempo; un poema, per usare i termini dello stesso autore, «sonoro e minerale», in grado di andare oltre la visione esclusivamente storica, politica e teologica di Dante. È «un’inquietudine spirituale», scrive Mandel’stam, che fa da sfondo alla scrittura del poeta fiorentino, «una imprimitura psicologica» – e ritorna di nuovo la pittura – che conferisce all’intero poema incanto e dramma.

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1. Lettrici pericolose

Che cosa c’è di più pericoloso di una donna che legge? Per rispondere a questo interrogativo è sufficiente osservare delle rappresentazioni di una lettrice in arte e in letteratura: perlopiù danno luogo a temibili crisi mimetiche; il libro si trasforma nella porta d’accesso per mondi ‘altri’, nei quali le donne si lasciano risucchiare confondendo realtà e finzione, bene e male.

Il noto episodio dantesco dei due cognati di Rimini rientra a pieno titolo in una galleria visiva e letteraria di lettrici affette da pericolose patologie legate ai libri. Francesca, infatti, occupa il centro della scena come protagonista quasi assoluta di tutto il canto; anche nella scena della lettura, nella quale a Paolo viene momentaneamente trasferita la agency – saldamente detenuta per il resto dalla cognata – nel momento del fatidico bacio, il fulcro della narrazione resta inequivocabilmente la lettrice, fino al «punto che li vinse» (v. 132).

Tuttavia, sebbene la centralità della lettura e dei suoi effetti sia innegabile, i commentatori del canto V dell’Inferno, sin dai tempi di Boccaccio, spesso si sono lasciati distrarre da elementi accessori rispetto alla straordinaria essenzialità e forza narrativa con cui Dante mette in scena l’incontro con i due «peccator carnali» (v. 38). La vicenda di amore e morte ha suscitato infatti reazioni molto accese sia in coloro che, sull’onda dell’Esposizione sopra la Comedia di Boccaccio, hanno voluto assolvere Francesca da ogni colpa, sia in chi ha acerbamente castigato la fedifraga signora di Rimini (su questi due schieramenti opposti si veda almeno la ricostruzione di Renzi 2007, pp. 105-240).

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Il rapporto che lega testo e illustrazioni e l’interazione tra icona e parola nella Divina commedia hanno da sempre interessato gli studiosi, i quali hanno prestato attenzione sia alla precoce fortuna iconografica del poema dantesco, sia al «visibile parlare» del suo autore. La capacità, quasi naturale, della poesia della Commedia di evocare immagini reali e mentali trova dunque, a ragione, ampio spazio nelle celebrazioni dantesche.

Questa Galleria si inserisce nel solco delle molte iniziative legate alla fortuna visuale di Dante, focalizzando però l’attenzione non soltanto sulle prime traduzioni iconiche del poema dantesco, ma spingendosi a esplorare la ricezione visiva della Commedia attraverso un arco cronologico ampio: prendendo le mosse dalle prime illustrazioni trecentesche, la Galleria si concentra poi sulla fiorente produzione artistica legata al poema che si sviluppa a partire dall’Ottocento, fino a giungere alle transcodificazioni (iper)contemporanee. Insieme al desiderio di mappare la vitalità della ricezione per immagini del capolavoro di Dante nel corso dei secoli, si è voluto esplorare anche territori meno indagati della fortuna iconica del poema, dal fumetto al cinema, dal teatro ai videoclip musicali. È apparso opportuno, dunque, in occasione delle celebrazioni dantesche, riflettere sulla lunga durata della fortuna visiva, e transmediale, della Commedia attraverso una prospettiva pluridisciplinare che ha coinvolto studiose e studiosi dalle competenze diverse, ma uniti dalla comune attenzione alla visualità.

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