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  • «Noi leggiavamo…». Fortuna iconografica e rimediazioni visuali dell’episodio di Paolo e Francesca fra XIX e XXI secolo →

  Se le sale dell’Ermitage all’improvviso dessero fuori di matto, se i quadri di tutte le scuole e di tutti i pittori, all’improvviso si staccassero dai chiodi, penetrassero l’uno nell’altro, si mischiassero fra loro e riempissero di urla futuristiche e di una furiosa eccitazione cromatica l’aria che odora di chiuso, ne deriverebbe qualcosa di simile alla Commedia dantesca (Mandel’stam 2007, p. 118).

In un passo della sua Conversazione su Dante, il poeta russo Osip Mandel’stam concepisce l’opera dantesca come una fusione cromatica intensa e violenta e compone, a parole, un’immagine che desta fascino e terrore. Dentro questa bufera di colori l’autore scopre un Dante diverso, nuovo, che la tradizione letteraria è restia a tramandare; ci presenta un poveraccio, «un uomo senza fiducia in se stesso», goffo, tormentato e ramingo, incapace di mettere un piede avanti all’altro e costretto a farsi accompagnare da un poeta latino. L’intento di Mandel’stam è di tramandare la Commedia che sente più reale e vera, non ancorata agli aspetti simbolisti e romantici esibiti dalla cultura europea e vivi nella Russia del suo tempo; un poema, per usare i termini dello stesso autore, «sonoro e minerale», in grado di andare oltre la visione esclusivamente storica, politica e teologica di Dante. È «un’inquietudine spirituale», scrive Mandel’stam, che fa da sfondo alla scrittura del poeta fiorentino, «una imprimitura psicologica» – e ritorna di nuovo la pittura – che conferisce all’intero poema incanto e dramma.

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