«Lingua senza parole». Lo stato puro delle cose e dei pensieri

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La Cancellatura rappresenta il codice più identificativo del poeta, scrittore e drammaturgo Emilio Isgrò. Assieme alla poesia visiva, delinea ancora oggi l’indagine che l’artista siciliano conduce sul fronte linguistico, alla ricerca sempre di un significato nuovo della parola e dell’immagine, minacciate dalla cultura massmediatica. Negli stessi anni George Steiner riflette attraverso una serie di saggi raccolti in Linguaggio e Silenzio, sul senso della parola nel Novecento e sui valori ormai sbiaditi della cultura umanistica europea. Entrambi gli autori si soffermano, quindi, su una questione cruciale che riguarda il destino della parola e il suo valore semantico. Il linguaggio di Isgrò si affianca anche a quello di altri poeti e artisti che hanno rinnovato le loro espressività attraverso il silenzio e cercato con esso di sanare il rapporto con la parola per rinnovarne significati e rigenerare discorsi umani. 

The Erasure represents the most identifying code of the poet, writer and playwright Emilio Isgrò. It still outlines, together with visual poetry, the investigation that the Sicilian artist leads on the linguistic front, always looking for a new meaning of words and images, threatened by the mass media culture. In the same years, George Steiner reflects, through a series of essays collected in Linguaggio e Silenzio, on the meaning of the word in the twentieth century and on the faded values of the European humanistic culture. Therefore, both authors focus on a crucial issue that concern the destiny of the word and its semantic value. Isgrò's language also joins that of other poets and artists who have renewed their expressiveness through the silence and have tried, through it, to heal the relationship with the word to renew its meanings and to regenerate human discourses.

 

 

 

Così, per rassicurare il popolo dei credenti, andavo dicendo in giro che una notte, facendo l’editing di un articolo, mi ero accorto che le correzioni apportate a un al testo da me o dallo stesso autore […] avevano creato un mare di cancellature il cui peso era più forte delle parole.[1]

 

Nel 1964 Emilio Isgrò scopre la cancellatura. L’episodio che ricorda l’occasione di tale scoperta è quello avvenuto a Venezia negli anni in cui l’artista curava le pagine culturali de Il Gazzettino. L’articolo di giornale tanto incriminato apparteneva forse a Comisso, Palazzeschi o Zanzotto e i dubbi sul contenuto di quella scrittura costrinsero l’artista ancora giovane a cancellare tutte le parti ritenute spurie. Sebbene Isgrò rievochi quell’editing come una mezza bugia – che della parte opposta rivela una profonda verità – quell’episodio si ritiene significativo non solo per lui, che da quel momento diventa il ‘maestro cancellatore’, quanto per l’eco incisiva che quell’atto, quasi sacrilego, fece scaturire nel mondo dell’arte e della letteratura. L’invenzione della cancellatura, accompagnata dalla profonda e duratura riflessione sul suo valore estetico, sta a fianco alle audaci sperimentazioni del Novecento e diventava un gesto che, seppur nato quasi per caso, è destinato a diventare un linguaggio.

La cancellatura fino al quel momento era stata considerata, infatti, una pratica di poco valore, un segno funzionale alla scrittura, l’impronta di una mente che ragiona sull’errore. Cancellare significava mettere in discussione una parola o una frase (un’immagine) che per motivi di natura grammaticale o sintattica, semantica, non meritava di essere pronunciata sul foglio. Da Isgrò in poi, invece, all’interno del ‘mondo naturale’ della scrittura e del linguaggio, questo gesto quasi incauto diviene esso stesso segno poetico. L’artista lo considera «un processo dialettico in vitro»,[2] che riqualifica il gesto dell’errore, non interrompe più discorsi e significati ma è capace di generarne di nuovi. Sembra seguire un principio ‘fisico’ ben preciso; analogo a una ‘materia oscura’ del linguaggio, esiste come massa che conserva e si conserva. Non distrugge e non crea, ma trasforma le parole e le cose. «Una parola cancellata sarà sempre una macchia. Ma resta pur sempre una parola»,[3] una macchia che copre e la libera, separandola dal mondo.[4] L’intuizione profonda di quell’atto fisico rappresenta, nell’immediato, l’inizio di una ricerca che riflette sulle dubbie sorti della parola, sulla condizione del linguaggio che non sembra riuscire più a sprigionare vigore semantico. Sin dagli esordi della cancellatura però Emilio Isgrò medita anche sull’impatto visuale, suggestivo, che la parola cancellata, negata alla sua vocazione alfabetica e fonetica, aveva nell’universo delle immagini. Diventa dunque anche occasione per queste ultime, così volgarmente reiterate e consumate, per purificarsi nel segno della cancellatura.

Emilio Isgrò, Forse Gesù, 1991

Nei confronti dell’immagine, il pittore Isgrò interviene escogitando soluzioni formali inedite, eliminando cioè quasi totalmente dalla lettura iconografica parti cospicue di figure, attraverso ‘imbiancamenti’ o ancora ingrandendo frammenti fotografici di cui solo una frase in didascalia rende possibile identificare l’appartenenza. Legando in maniera indissolubile l’esperienza della cancellatura tanto alla parola, quanto all’immagine, l’artista raggiunge un’inedita forza espressiva diametralmente opposta alle esperienze della Pop Art che maturavano negli stessi anni anche in Italia. Lo spazio che Isgrò si appresta a indagare è quello creatosi tra immagine e parola.

 

C’è tra parola e immagine una tensione che genera allarme, pena, schizofrenia. Un buco, probabilmente una voragine nera. Questo c’è tra segno iconico e segno verbale. Nient’altro che questo. Lo spazio desolato che nessuno vorrebbe percorrere. Né oggi né ieri. […] Le immagini raggiungono apparentemente la perfezione, le parole diventano sempre più povere, sempre più deboli, sempre più miserabili; e forse occorre spremerle, caricarle, sollevarle dall’incarico concordato dagli uomini.[5]

 

Nella sua Teoria della cancellatura Isgrò rivela le origini delle sue riflessioni. Annunciata dai componimenti poetici di Mallarmé, questo genere di ‘distruzione’ era una pratica in uso all’interno dei recenti filoni avanguardistici ai quali tutte le arti indistintamente si erano convertite e, tanto la letteratura quanto le esperienze figurative, includevano simili procedimenti di omissione, estinzione e eliminazione. La pratica di Isgrò – ostile alle mode del suo tempo – prende però un’altra direzione. Il dubbio su cui s’interroga l’artista è lo stesso che aveva preoccupato Mallarmé, D’Annunzio e Artaud che scherniscono la parola sperando di restituirla purificata e vergine così come doveva essere all’origine. E ancora sull’immagine, l’esitazione di Isgrò riflette su Blake, diviso tra universo verbale e visuale, su Michelangelo, deluso del Mosè muto e incapace di proferire parola, su Leonardo persuaso di aver ‘cancellato’ un sorriso maschile tra le labbra ambigue della Gioconda.[6] Altri segni di forte impatto artistico hanno generato, nell’arte contemporanea, linguaggi inediti e inaspettati, uno fra tutti il taglio di Fontana. La cancellatura, tuttavia, intacca indistintamente immagine e parola e per tale ragione (squisitamente linguistica) la superficie pittorica delle opere di Isgrò è diventata poesia visiva, impegnata negli ambiti più disparati: quello della letteratura, dell’economia, della musica e della politica, della religione, della matematica e del cinema. Ogni ambito umano che rientri nel lògos è territorio da cancellare. La cancellatura considera, quindi, come criterio vitale un sovvertimento nell’arte. Dichiara l’artista stesso che:

 

L’amore per i grandi rivolgimenti, […] era sempre presente in me: il primo libro che lessi arrivato a Milano fu Lettereatura e rivoluzione di Trotzsky. Tutti pensavano che io fossi trotskista. Non lo ero. Ma, come il rivoluzionario russo concepiva una rivoluzione sociale permanente, anch’io concepivo l’arte come una rivoluzione permanente, e il mio modello ispiratore sotterraneo era Picasso […]Quando ho fatto le Storie Rosse davvero pensavo di fare la rivoluzione. Ma il linguaggio mi ha tradito, per fortuna.[7]

 

Una rivoluzione, quindi, che Isgrò è intenzionato a condurre anche in maniera solitaria, costretto in un secondo momento ad avere avversa anche l’Arte Concettuale con la quale, all’inizio, aveva condiviso gli stessi interessi. Il ‘concettuale’, infatti, secondo Isgrò, mostrando forme di manifesta tautologia e criteri di autosufficienza, si allontana sempre più dalla sua poetica che aderisce invece a un’arte, come afferma lo stesso autore, che per la vocazione politica insita al suo interno, non può nominare governi e stati, ma può intervenire sui fatti del mondo.[8]

 

La poesia visiva diventa dunque il luogo puro per eccellenza, scelto da Isgrò come laboratorio di questa sperimentazione dove, in maniera pacifica, possono coesistere icone e parole. Il testo teorico Dichiarazione 1 accompagna la nascita della forma espressiva e mette nero su bianco alcuni dei caposaldi della poetica di Isgrò. Evidenzia l’allontanamento dalla poesia concreta, da quella tecnologica e dal collage, e ribadisce, seppur una momentanea vicinanza al Gruppo 70 e un confronto con la sensibilità Fluxus, il completo distacco dal Gruppo 63 e la negazione totale dei valori da questi proclamati. La forma che assume la poesia visiva, anti-autoriale, ludica e immediata, si lascia alle spalle l’esperienza delle avanguardie letterarie e artistiche per maturare un carattere che non sia esclusivo della parola. «La nuova poesia vuole essere un’arte generale del segno».[9] Gli aggiustamenti che le avanguardie letterarie avevano tentato di trovare per un rinnovo della poesia in realtà non facevano altro che limitarsi nella maggior parte dei casi, «a un puro esercizio di manutenzione della parola novecentesca, giocando sul triangolo segno-significato-significante che storpiava la parola senza storpiare il mondo».[10] La poesia visiva portava allo stesso livello icona e parola e in questa nuova simbiosi veniva destruttura la grammatica testuale e disarticolata la grammatica visiva; la parola non è più parola, l’icona non è più icona.[11] Isgrò rovescia tutto e si accorge che la parola era morta, un lutto che andava rielaborato, un’affermazione così forte nel mondo della letteratura che l’amico Eugenio Montale, ferito da tanta iattanza gli tolse il saluto[12] cancellandolo dagli amici.

 Emilio Isgrò, Dittico Marx-Engels 1974 (sinistra)

Negli stessi anni in cui Emilio Isgrò preleva dall’assordante cultura degli anni Sessanta la cancellatura, George Steiner raccoglie interessanti considerazioni nel saggio Linguaggio e silenzio. L’indagine condotta dall’autore sul fronte letterario (ma anche artistico) e sull’‘inumano’, come dichiarato nel sottotitolo, rivela una metamorfosi del lògos. Il dubbio, forse più la certezza, che la parola nel Novecento abbia subito un’estenuante falsificazione assecondata dalla politica, un’imminente volgarizzazione che ha corroso i valori dell’umanesimo, sono da traino all’intera riflessione proposta da Steiner.[13] La cultura europea, che vanta radici profonde nel passato, non sembra essere più in grado di attuare nel presente quei valori che da secoli nutrono la stessa letteratura e le arti. La tragedia delle dittature e i loro più efferati crimini contro l’umanità, la società dei consumi nutrita dalla pubblicità, hanno eroso i fondamenti etici e culturali del vecchio continente riducendoli quasi a una mera reliquia del passato che non sa generare futuro. La crudeltà dell’uomo ha distrutto l’umano e quei pochi frammenti di verità e bellezza stentano ormai a rigenerarlo. La parola, così, rischia di perdere forza e di diventare strumento di approssimazione linguistica, di prevaricazione e persuasione, compromettendo seriamente il futuro della comunicazione tra uomini. Nelle fake news, nelle post-verità, precipita verso un vuoto incolmabile e sterile, un vuoto che si propaga e che genera confusione ‘liquida’. La questione che Steiner pone già dalle prime battute alla sua prefazione è chiara e concisa, vicina anche alle riflessioni di Emilio Isgrò:

 

Stiamo forse uscendo da un’epoca storica di predominio verbale – dal periodo classico dell’espressione letterata per entrare in una fase di linguaggio decaduto, di forme «postilinguistiche», e forse di silenzio parziale? […] Matura forse nella civiltà letterata un gran senso di noia e di sazietà che la predispone allo sfogo delle barbarie?[14]

 

Nell’esporre le sue posizioni Steiner orienta il suo pensiero verso una filosofia del linguaggio, l’unico approccio in grado, secondo lo scrittore, di riprendere il discorso sul valore della parola, troppe volte dimenticata dalla teoria e dalla critica letteraria. I saggi contenuti all’interno di questo contributo diventano per l’autore indicazioni provvisorie verso un approccio filosofico finalizzato a far sì che la parola non sia più data per scontata. Sia George Steiner che Emilio Isgrò, quindi, sollevano una questione cruciale. I due autori, uniti dall’appartenenza allo stesso contesto storico e sociale, hanno a cuore il destino della parola. Se la riflessione filosofica di Steiner si rivolge al mondo della letteratura, del linguaggio e dell’inumano, considerando anche la politica, Isgrò predilige la materia dell’arte, dell’icona, della poesia visiva. Per discutere della parola e del linguaggio, ne inventa uno tutto suo, quello, appunto, della cancellatura. Seppur con esiti diversi, il maestro cancellatore sembra così trovarsi vicino anche alle riflessioni che Steiner articola nella sua raccolta di saggi riguardo l’importanza e l’urgenza di pensare al linguaggio.

 

Il linguaggio è il mistero che definisce l’uomo, in esso l’identità e la presenza storica dell’uomo si esplicano in maniera univoca. È il linguaggio che separa l’uomo dai codici segnaletici deterministici, dalle disarticolazioni, dai silenzi che abitano la maggior parte dell’essere. Se il silenzio dovesse tornare di nuovo in una civiltà in rovina, sarebbe un silenzio duplice, forte e disperato per il ricordo della Parola.[15]

 

Uno spunto interessante che tesse le trame di questo confronto tra due autori è costituito dal contributo che Steiner dedica alla poesia, Il silenzio e il poeta. Come ricorda Aristotele, il poeta è ‘creatura della parola’ che custodisce e moltiplica la forza vitale del linguaggio creando in maniera pericolosamente simile agli dèi e per tale ragione rivaleggiando con questi. A lui, per la grande capacità di mediatore della realtà, è concesso di trascendere il linguaggio in una molteplicità di forme. Racconta Dante, nel verso 55 del XXXIII canto della sua Comedìa, che il linguaggio lirico si inarticola come quello di un bambino che non sa usare le parole, quando il poeta si avvicina alla luce divina.[16] Da ‘cantore’ di parole qual è, egli conduce la parola fino alle soglie della musica, superando la logica della sintassi linguistica e assumendo la forma e l’immediatezza della musica, come accade negli Inni alla notte di Novalis.[17] Altri poeti ancora, come Hölderlin e Rimbaud, sperimentano la forma di trascendenza più estrema alla parola, ammutolendo il linguaggio e consegnandolo al silenzio. «Qui la parola non confina più con il fulgore o con la musica, bensì con la notte».[18] Il silenzio, tra i versi delle poesie di Hölderlin, come il vuoto in tanta pittura e scultura moderna, e ancora, le pause di silenzio nelle composizioni musicali di Webern, diventano indispensabili all’atto poetico.[19] Ai limiti del linguaggio, quindi, la parola della lirica per non sottrarre forza e qualità espressive al suo dire, trova forme trascendentali che esulano da se stessa senza mai smaterializzarla.

Emilo Isgrò con la cancellatura ‘trascende’, ‘oltrepassa’, per dare dignità a una parola estenuata da tanti significati. L’artista parte dall’ipotesi che la parola abbia esaurito la sua forza espressiva e comunicativa.[20] Un’ipotesi da lui stesso ritenuta estrema, alla quale prova ad opporre una proposta estetica alternativa. Per salvare la parola è necessario «rianimarla con segni che verbali non erano. Immagini, suoni e rumori»,[21] con la consapevole conseguenza che l’immagine, vittima stessa di una società massmediatica, ossessionata dal linguaggio visivo, viene così recuperata dalla cancellatura. Una reciproca e salvifica subalternità che restituisce vigore semantico a entrambe.

 

Così, grazie alla cancellatura, aprii la caccia alle parole superflue, mentre mi accorgevo, quasi contemporaneamente, che quel dubbio sul potere liberatorio della parola poteva essere esteso, volendo, anche alle immagini sfavillanti della società mediatica. Non bisognava cancellare soltanto le parole dei libri, ma anche le immagini del cinema e del giornale. A un certo punto scoprii, per esempio, che una parola e un’immagine coesistono magnificatamente se sono monche, parziali. Se la parola non dice tutto e l’immagine dice di meno. Devono essere cieche, o almeno miopi, presbiti.[22]

 

Nell’atto stesso di cancellare c’è in primis il silenzio. La parola e l’immagine di Isgrò sono negate alla vista e, bendate dal nero o dal bianco, sembrano sprofondare nel buio. Ad esse non è più concessa la loquacità dei fonemi e delle sue cromie. Un silenzio da non confondere con una sorta di damnatio memoriae, ma che al contrario vuole avere un valore di resistenza che ricarica l’immagine e la parola, le quali in tal mondo appaiono pronte a generare nuove metafore. Si tratta di una finzione che, chiudendo le porte del linguaggio, le apre[23] per ritornare – dirà Pierre Restany – al suo stato di natura.[24] Linguaggio e silenzio, dunque, come in Steiner coesistenti in una relazione dialettica feconda, costituiscono due polarità inscindibili. Tuttavia il termine inumano, che Steiner utilizza già nel sottotitolo, appare inappropriato alle disquisizioni dell’artista-poeta Isgrò. La sfiducia nella cultura dell’umanesimo, che sottolinea Steiner, trapela dagli eventi storici che direttamente hanno coinvolto e coinvolgono tutti. Per Isgrò il silenzio della cancellatura, che lascia allo scoperto frammenti di parole e immagini, conduce a sentieri sconosciuti da risignificare, dove i discorsi umani possono tentare una rigenerazione. «La cancellatura di Isgrò rompe il nucleo compatto dei significati consegnatici dalla storia, mentre allude e spera un tempo nuovamente umano».[25]

 Emilio Isgrò, Codice ottomano della solitudine, 2010

Questa forza rigeneratrice assume nell’opera dell’artista una forma iconografica genuina e naturale. Le api laboriose e le formiche infaticabili, i semi pronti a germinare, lavorano senza sosta allo stato puro delle cose e dei pensieri, alla solidità del loro significato remoto, per una ‘fresca’ semantica delle parole. La fiducia è nell’innesto tra conoscenza e realtà, tra fatto culturale e naturale. È anche in questo che la cancellatura diventa un gesto di ricostruzione di discorsi umani. Tiene in vita la parola stessa, la sussurra appena, le promette di essere pronunciata, lascia balbettare poche sillabe, poche semiminime (alcune solitarie a ricordare Chopin), qualche virgola e campitura di colore, su spazi bianchi, rossi o neri, di tele, libri o partiture. Distrugge per creare, come Polifemo che nell’omonimo romanzo di Isgrò, divora i primi capitoli come nutrimento per le pagine a venire. Niente di simile al nichilismo quindi per l’artista siciliano: «la cancellatura sta alla morte come la calce sta alla peste».[26]

La cancellatura dunque è ancora oggi un gesto che conserva tutta la sua funzione costruttiva e dialettica, la stessa energia che aveva scandalizzato ai suoi esordi le istanze conservatorie dell’arte e della cultura. Esprime un’affermazione di fiducia e una volontà di critica e il suo valore attuale racconta ancora la fragilità del lògos. La forza incontrollata di questo linguaggio è tale che lo stesso Isgrò è costretto a subirlo quando immola le sue capacità verbali a favore di quelle visuali. La cancellatura, coerente a se stessa, il 6 febbraio del 1971, cancella l’identità stessa del suo creatore. La foto performance Dichiaro di non essere Emilio Isgrò che raffigura l’autore con un foglio in mano, reo di esistere, testimonia che il fatto sussiste. Una dichiarazione shakespeariana che salva il poeta e la sua vita, come Ulisse quando diventa Nessuno.

 Emilio Isgrò, Algebra, 2010

Il linguaggio di Isgrò si affianca al risveglio di certe espressioni culturali del Novecento. Il poeta visivo va annoverato tra gli scrittori, i poeti, gli artisti, che hanno sanato il linguaggio col silenzio, epurandolo dalle insidie della contemporaneità, che hanno ripercorso sentieri ostili, alla ricerca di una lingua pura che riporti l’eco di verità ormai sbiadite. Ancora Steiner viene in soccorso a fare chiarezza:

 

A uno scrittore che avverta che la condizione del linguaggio è posta in discussione, che la parola può forse perdere qualcosa del proprio genio umano, si presentano due linee d’azione fondamentali: può cercare di far sì che il proprio idioma sia rappresentativo della crisi generale, di comunicare tramite esso la precarietà e la vulnerabilità dell’atto comunicativo; oppure può scegliere la retorica suicida del silenzio.[27]

 

Su questo territorio del linguaggio, indubbiamente legato alla storia, Wittgenstein ha lasciato forse l’impronta più indelebile col suo Tractatus. Nell’indagare linguaggio e realtà delle cose, con scrupolosa logica, dichiara nella sua decisiva proposizione che «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere».[28] Su questa crisi del linguaggio, emersa agli inizi del Novecento, validi testimoni hanno affidato al silenzio le loro confutazioni e la loro ricerca poetica. Se Adorno asserisce l’inammissibilità del verso dopo Auschwitz (1949) – sollevando un dibattito che regge un confronto costruttivo con le posizioni del pensiero Steiner– è forse Tomas Tranströmer che nell’intrecciare silenzio e linguaggio propone interessanti ‘paesaggi’ poetici. Lo scrittore svedese trova nell’impossibilità della parola, una tensione poetica che prende la forma stessa del silenzio, senza rinunciare alla scrittura. La cancellatura di Isgrò e la poesia visiva mantengono una simile tensione poetica, pur rinunciando spesso alla parola, diventano lingua.

 

Stanco di chi non offre che parole, parole senza lingua
sono andato sull’isola coperta di neve.
Non ha parole il deserto.
Le pagine bianche dilagano ovunque!
Scopro orme di capriolo sulla neve.
Lingua senza parole.[29]

 

 


1 E. Isgrò, Autocurriculum, Palermo, Sellerio, 2017, p. 90.

2 E. Isgrò, ‘Teoria della cancellatura’, in M. Meneguzzo (a cura di), Emilio Isgrò. Fratelli d’Italia, catalogo della mostra presso la Galleria del Credito Siciliano, Acireale, 2009, p. 209.

3 Ivi, p. 210.

4 Ivi, p. 208.

5 Ivi, p. 209.

6 Ibidem.

7 M. Meneguzzo, Intervista con Emilio (2008), ivi, p. 43.

8 Ivi, p. 42.

9 E. Isgrò, Dichiarazione 1, ivi, p. 204.

10 E. Isgrò, Autocurriculum, p. 89.

11 D. Bondì, ‘Gesto penultimo. Una riflessione sull’arte di Emilio Isgrò’, in B. Benedetti, A. Rocco (a cura di) Emilio Isgrò, Modello Italia 2013-1964, catalogo della mostra presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Milano, Electa, 2013 p. 48.

12 E. Isgrò, Autocurriculum, p. 92.

13 Cfr. G. Steiner, Linguaggio e silenzio saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, trad. it. di R. Bianchi, Milano, Garzanti, 2006.

14 G. Steiner, prefazione a Linguaggio e silenzio, p. 7.

15 Ivi, p. 11.

16 G. Steiner, ‘Il silenzio e il poeta’, in Id., Linguaggio e silenzio, p. 63.

17 Ivi, p. 66.

18 Ivi, p. 70.

19 Ibidem.

20 E. Isgrò, ‘Introduzione alla cecità’, in M. Meneguzzo, Emilio Isgrò. Fratelli d’Italia, p. 214.

21 Ibidem.

22 Ivi, p. 215.

23 Cfr. E. Isgrò, ‘Teoria della cancellatura’, in M. Meneguzzo, Emilio Isgrò. Fratelli d’Italia, p. 208.

24 D. Bondì, Gesto penultimo. Una riflessione sull’arte di Emilio Isgrò, p. 48.

25 Ivi, p. 49.

26 Emilio Isgrò, in M. Moneta (regia) Ritratto Di Emilio Isgrò, SkyArte Italia, 2016. <https://www.youtube.com/watch?v=E-hlmHr7dzQ&t=1039s> [accessed 10.10.2019].

27 G. Steiner, ‘Il silenzio e il poeta’, p. 74.

28 Cfr. L.Wittgenstein, Tractaturs logico-philosophicus e quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1980.

29 T. Tranströmer, ‘Marzo ’79’, in Poesia dal Silenzio, prefazione di M. C. Lombardi, Milano, Crocetti, 2011, p. 131.