Emilio Isgrò. Profilo

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 Emilio Isgrò, foto di A.Valentini, 1991

Emilio Isgrò (1936) è oggi riconosciuto come una delle figure più importanti del panorama artistico italiano del secondo Novecento. Questi ha infatti dato vita, sin dalla metà degli anni Cinquanta, ad una vasta ed eterogenea produzione artistica e intellettuale che, tutt’oggi, spazia dalla poesia visiva alla scrittura tout court, passando per la drammaturgia e il teatro.

Pur senza ‘cadere’ in sintesi troppo riduttive, è possibile osservare come ci sia, alla base di questa suggestiva tensione multidisciplinare, la volontà da parte dell’artista di esplorare zone liminali del linguaggio che costeggiano tanto il regno del verbale quanto quello del visivo. In questo senso si può dire che è la parola, intesa quale segno generatore della comunicazione umana, a suscitare da sempre l’interesse artistico di Emilio Isgrò. Questi ha di fatti cominciato la sua produzione intellettuale operando nel campo, se vogliamo, più prossimo all’universo dell’espressione verbale: quello della poesia.

È il 1956 quando, da poco trasferitosi a Milano dalla Sicilia, la neonata casa editrice di Arturo Schwarz pubblica infatti la sua prima raccolta di poesie Fiere del sud, opera che, accolta positivamente dalla critica, gli permette di entrare in contatto, oltre che con il suo vecchio compagno di scuola Vincenzo Consolo, con alcune delle figure più rilevanti del panorama letterario dell’epoca, quali: Vittorio Sereni, Elio Vittorini e Luciano Anceschi. All’attività poetica Isgrò affianca ben presto anche le prime esperienze di scrittura giornalistica, prima lavorando come collaboratore presso l’Avanti! poi, grazie alla conoscenza con Giuseppe Longo, ottenendo il posto di responsabile della terza pagina del Gazzettino.

Così nel 1960 l’artista lascia Milano per trasferirsi a Venezia, sede editoriale del giornale, dove rimarrà fino al ‘67. Qui inizia un periodo molto intenso di lavoro che lo porterà non solo in viaggio per l’Europa fino all’America, ma anche a frequentare artisti e scrittori tra i più importanti per la sua formazione intellettuale. Luogo privilegiato per questi incontri oltre all’effimera Biennale ‒ la quale proprio in quegli anni sancisce il trionfo storico ed economico della Pop Art americana sull’arte europea ‒ è la Fondazione Cini, dove l’artista frequenta Eugenio Montale e Aldo Palazzeschi. È proprio in questi anni che, parallelamente alla produzione poetica (‘L’anteguerra’, Il Menabò, 1963), hanno luogo i primi esperimenti verbo visivi di Isgrò.

Spinto dalla necessità di formulare un rapporto inedito tra la parola e l’immagine elabora le regole per la creazione di un nuovo linguaggio artistico. Un «arte generale del segno» ‒ così denominata dall’artista nel testo teorico Dichiarazione 1 del 1966 ‒ che si fonda sulla messa a punto della ‘tecnica della cancellatura’: strisce di colore nero sostituiscono contenuti linguistici preesistenti (frasi, porzioni di testo ma anche immagini) dei quali vengono, di volta in volta, lasciati scoperti alcuni frammenti o lemmi.

 Emilio Isgrò, Wolkswagen, 1964

Un’operazione, quest’ultima, insieme pars destruens e costruens dell’azione creativa di Isgrò, che si pone quindi come ancora di salvataggio per un linguaggio che, in quel determinato momento storico, viene come ‘morente’ ‒ ‘assediato’, cioè, dall’eccessivo rumore di fondo prodotto dai mezzi di comunicazione di massa. Una ricerca che non mira tanto a uno svuotamento, quanto, semmai, a un accrescimento qualitativo del senso: è compito del singolo spettatore e del lettore creare, con l’atto stesso della fruizione, sempre nuovi, e mai ripetibili, significati insiti nell’opera.

Nel 1964 realizza infatti Volkswagen e le prime Cancellature, opere che, insieme alla successiva Jacqueline del ‘65, suscitano presto l’interessamento di alcuni esponenti della neoavanguardia italiana. Nonostante la partecipazione ad alcuni progetti già nel ’66 l’artista siciliano, con la stesura del testo teorico Dichiarazione 1, prende pubblicamente le distanze dalle sperimentazioni di poesia tecnologica e concreta dei colleghi avanguardisti.

 Emilio Isgrò, Bandiera,1974

Gli anni a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta segnano così non solo la fine dell’attività giornalistica a Venezia, e il suo conseguente ritorno a Milano, ma anche l’incipit della sua vera e propria attività espositiva, inaugurata dalla prima personale alla Galleria Apollinaire nel 1967.

In questo periodo Isgrò realizza tra le opere più significative della sua carriera: il suo primo libro cancellato, Cristo cancellatore, presentata sempre alla Galleria Apollinaire nel ‘68, cui fa seguito nel ‘70 Enciclopedia Treccani cancellata (Galleria Schwarz), opera che gli varrà la sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia nel ‘72, con l’esposizione di alcuni volumi all’interno della mostra Il libro come luogo di ricerca, curata da Renato Barilli e Daniela Palazzoli. Non si arresta, nel frattempo, nemmeno la produzione di poesie visive iniziata con Jaquline che, attraverso la messa a punto di nuove tecniche formali, indaga questioni politiche e di cronaca: sono del ‘74 le serie dei Particolari Ingranditi, Kissinger e Storie rosse e del ‘75 l’installazione Giap!.

 Emilio Isgrò, Giap,1975, foto E. Cattaneo

Tra il ‘71 e il ‘72 Isgrò giunge poi a ‘cancellare’ se stesso con l’opera Dichiaro di non essere Emilio Isgrò (realizzata per il Centro Tool) e con L’avventura vita di Emilio Isgrò nelle testimonianze di uomini di Stato, scrittori, artisti, parlamentari, attori, parenti, familiari, amici, anonimi cittadini (installata presso lo Studio Sant’Andrea), in cui la sua identità di artista viene oggettivata in personaggio e fatta scomparire dietro le negazioni e le smentite di personaggi verosimili estrapolati dal contesto della realtà sociale. Quest’ultima nel ‘74 verrà raccolta in volume e stampata dalla casa editrice il Formichiere, divenendo di fatto il suo primo romanzo sperimentale. Nel corso degli anni seguiranno altri sconfinamenti letterari in forma di romanzo: Marta De Rogatiis Johnson (Feltrinelli 1977), Polifemo (Mondadori 1989), Asta delle ceneri (Camunia 1994) e ultimo Autocurriculum (Sellerio 2017).

 Emilio Isgrò, Autocurriculum, 2017

Allo scadere del decennio Isgrò riceve poi un importante incarico dal sindaco della città di Gibellina Ludovico Corrao, distrutta dal terremoto del Belice del ‘68: la scrittura e la progettazione di un’opera teatrale da rappresentare sulle rovine della città. Un’occasione che permette all’artista di affrontare per la prima volta una pratica da sempre rimasta marginale nella sua produzione artistica: quella del teatro.

Isgrò decide così di dirottare il linguaggio della cancellatura all’interno dello spettacolo con la riscrittura dell’Orestea di Eschilo. Fondamentale nella messa a punto della drammaturgia è la scelta dell’uso del dialetto siciliano che da un lato permette di calare il contenuto della tragedia eschilea nel contemporaneo, tra il 1943 e gli anni Sessanta, e dall’altro favorisce la costruzione dei versi secondo una partitura musicale e ritmata. Viene così realizzata, grazie anche alla coproduzione del Teatro Massimo di Palermo, lo spettacolo l’Orestea di Gibellina, le cui tragedie andarono in scena a Gibellina nelle estati tra l’‘83 e l’’85. La realizzazione venne affidata a Arnaldo Pomodoro per la costruzione delle macchine sceniche, a Francesco Pennisi per la composizione delle musiche e a Filippo Crivello per la regia.

L’attività drammaturgica continuerà a tenere occupato Isgrò fino ad anni più recenti: dopo le opere ancora siciliane Gibella del Martirio (1981), la processione in versi San Rocco legge la lista dei miracoli e degli orrori (1981) e Didone Adonàis Dòmine (1986), troviamo Giovanna D’arco: tragedia elementare, messa in scena nell’‘89 da Memè Perlini, fino ad arrivare alla performance del 2014 Maledetti toscani, benedetti italiani: una cancellazione in tre tempi che omaggia Curzio Malaparte, prodotta dal Teatro Metastasio di Prato insieme al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato.

Nella seconda metà degli anni Ottanta riprende poi l’attività espositiva con la produzione di vere e proprie installazioni multimediali ‒ pratica iniziata già nel ‘79 con l’opera Chopin in cui dodici pianoforti a coda vengono esposti insieme a spartiti musicali bianchi: Veglia di Bach per il Teatro alla Scala di Milano del ‘84, cui segue L’ora Italiana, dedicata alla strage di Bologna del 1980, e il ciclo Guglielmo Tell per la Biennale di Venezia del ‘93 curata da Achille Bonito Oliva.

Di fatto fino e oltre lo scadere del millennio Isgrò continuerà a sperimentare sia con il linguaggio della cancellatura ‒ la quale inizia ad assumere forme ‘altre’, dal colore bianco all’uso di animali come api e formiche, passando per contenuti dal carattere fortemente civico, come il ciclo Costituzione e Cancellazione del Debito Pubblico ‒ ma anche con la scrittura, tornando, dopo trent’anni, a pubblicare poesie con Oratorio dei ladri (Mondadori, 1996) e con la raccolta Brindisi all’amico infame (Aragno, 2002).

 L'occhio di Alessandro Manzoni, 2016

Dai primi anni Zero sono poi state organizzate importanti mostre antologiche sull’opera di Isgrò: a Palermo nel 2001, al Centro Pecci di Prato nel 2008, al Palazzo Reale di Milano nel 2012, per cui l’artista ha realizzato l’inedita cancellatura dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, e alla Fondazione Cini di Venezia da settembre a novembre del 2019, nella quale è stata esposta l’ultima cancellatura dell’artista: il romanzo Moby Dick di Herman Mellville.