1.6. L’interludio della donna schiva. Corpo, parola, suono e azione in Laura Morante

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La prima prova narrativa di Laura Morante – dopo la scrittura per il cinema a quattro mani con Daniele Costantini per due film di cui la Morante è anche regista e protagonista (Ciliegine, 2012 e Assolo, 2016) – appare simile al lavoro preliminare di un sarto: è come se sull’ampio pezzo di stoffa delle sue prove cinematografiche l’attrice avesse poggiato un cartamodello traendone un nuovo pezzo, una nuova forma. Soltanto un pezzo, certo, che lascia fuori tutto il resto ma che solo da questo poteva ricavarsi. E forse, per continuare la metafora, quel che appare più interessante dell’opera Brividi immorali. Racconti e interludi (2018) è non la nuova forma bensì proprio l’atto del poggiare la leggera carta sulla stoffa prima del taglio, sia per la scelta dei contenuti che per quella formale della brevità del racconto. Assomigliano tanto i protagonisti degli otto racconti, inframmezzati da sette interludi, ai ruoli interpretati dalla Morante al cinema, ruoli che vanno via via rinsaldandosi, seppur dentro generi cinematografici differenti, fino a costruire un’icona del cinema italiano contemporaneo riconoscibile e definita e per questo, dopo le primissime prove, voluta sempre più dai registi con cui ha lavorato per incarnare un certo tipo di donna – spesso madre e moglie – che non cela fragilità e nevrosi, ma anzi le restituisce come frutto e causa della complessità delle relazioni umane.

Qui si tenta di rilevare le convergenze dell’esperienza performativa con quella narrativa dell’attrice-scrittrice, al fine di comprendere la costruzione semiotica della Morante come diva attraverso i film, la scrittura narrativa e le molteplici interviste. Il punto di partenza è quello che Paul McDonald definisce principio di intertestualità dell’immagine divistica a un contesto intra-discorsivo di altre fonti e conoscenze che sono potenzialmente esplicative per la comprensione del significato di una diva, ivi compresa la sua opera narrativa (McDonald 1998).

Il regista Peter Del Monte allorché lavora a realizzare il suo Nessuno mi pettina bene come il vento (2014) dichiara di aver scelto la Morante perché «lei suggerisce un bisogno di autocontrollo sulla vita e sul disordine e al tempo stesso mostra una zona d’ombra che la mette a disagio» (De Tommasi 2014). In qualche modo l’immagine dell’attrice, al di qua e al di là dello schermo, può definirsi come uno sviluppo di queste due forze uguali e opposte: la volontà di controllo della vita psichica, innestata sul continuo emergere del disagio emotivo reso visibile nella paura della solitudine, nell’insicurezza, nella vulnerabilità. Tali forze che tanto hanno animato lo stile recitativo con cui la Morante ha costruito le personagge interpretate – dalla Silvia di Sogni d’oro di Moretti (1981) fino ad Arabella de L’età d’oro della Piovano (2016), passando, tra le altre, per Begoña de La mirada del otro di Aranda (1998) e per Giulia di Ricordati di me di Muccino (2003) – sembrano condensarsi nell’ultimo decennio sia nelle due pellicole in cui l’attrice è anche regista e co-sceneggiatrice, sia soprattutto all’interno della sua prima opera letteraria, rivelando convergenze tra la propria esperienza performativa, disegnatale addosso dai grandi registi con cui ha lavorato, e quella narrativa (Rizzarelli 2018). Se la prima forza tende a dotarsi di uno strumento di indagine scovato nella psicoanalisi, la seconda invece non può che attingere dal variegato e complesso mondo delle relazioni, in cui la figura della donna si trova a muoversi inerme, perché l’unico strumento necessario, a detta della Morante in varie interviste, potrebbe essere fornito soltanto da una nuova ondata di femminismo, inteso come elemento di coscienza e riscatto collettivo che dovrebbe permettere alla donna di diventare finalmente soggetto e non più soltanto oggetto dello sguardo degli altri e che però ciò mai trova modo di palesarsi nella produzione dell’attrice/scrittrice. Rimane dunque al centro della scena soltanto l’individuo donna, con le fragilità del suo io, l’insicurezza e la scarsa autostima, che non può fare altro che raccontarsi senza mostrare mai la possibilità di diventare altro (se non attraverso una ‘soluzione magica’ priva del necessario Spannung, come nel finale ‘sognato’ di Assolo) e per la quale il tentativo di affidarsi alla psicoanalisi anziché dare una direzione diventa esso stesso elemento narrativo per meglio rappresentare la condizione dell’esistente.

 

1. Il corpo e la parola

Anzitutto analizzeremo i segni di performance leggendoli come sistema infracomunicazionale interdipendentemente incorporato (Birdwhistell 1971) con il sistema della scrittura, a partire proprio dalla lettura del linguaggio analogico del corpo. Nucleo e spia malcelata rimane difatti il corpo e della donna attrice e della donna narrata, inteso come continuo oggetto della mirada del otro che sul piano performativo induce a concentrare l’attenzione della macchina da presa più sul volto che sul corpo dell’attrice: sul capo che si abbassa, sullo sguardo che repentinamente sfugge, a tratti con fare pudico e a tratti in maniera nevrotico, sulle labbra che si aprono a dire qualcosa e poi indugiano nel silenzio, malcelando la ritrosia del voler dire altro, del voler essere altro [fig. 1] e se il corpo, che all’inizio della carriera viene perlopiù diretto ad assumere una postura inflessibile, a volte persino algida (si pensi a Bianca, ma anche a Giulia di Colpire al cuore di Amelio, 1983) [fig. 2], via via sembra cominci ad assumere pose più morbide, in realtà ciò è quasi sempre dovuto alla posizione delle braccia, e delle mani soprattutto, che in accordo col viso esprimono, spesso con un ruolo di voluta enfasi, ancora una volta l’esondazione dell’insicurezza e di una condizione di svantaggio emotivo che la donna rappresentata porta con sé. Allo stesso modo, con lo stesso corpo, i segni di performance riappaiono tra le pagine dei racconti della scrittrice, quando si trova ad essere eticamente schierata dalla parte del bene: la donna che conserva un segreto per non tradire l’amica: «Sotto uno sguardo inquisitore, le mie labbra si torcono in un sorriso fasullo, i miei occhi sfuggono, il mio viso assume un’espressione meschina, non di rado attraversata da tic incontrollabili» (La mia amica Giovanna); oppure la madre preoccupata per la figlia: «la guarderebbe con occhi spauriti, quasi sul punto di piangere» o la psicoanalista che guarda «con occhi penetranti e con un sorriso melenso» (In famiglia); e anche quando sta invece dalla parte del male: la bambina invidiosa che scruta la compagna «con occhi cattivi, ha un mezzo sorriso minaccioso» o in maniera malevola: «Le labbra troppo sottili si stirano forzatamente sui denti piccoli e regolari, aprendo appena uno spiraglio dal quale filtra una luce debole e fredda, che si spegne con lentezza» (1966); o ancora l’amica che potrebbe tradire ha uno «sguardo [che] non si limita ad accompagnare le parole, ma piuttosto le scorta, e per un pezzo rimane lì a sorvegliare che siano arrivate a destinazione senza incidenti, senza incontrare ostacoli» (Controvoglia). I sentimenti, le emozioni, gli stati d’animo nella scrittura della Morante trapelano esclusivamente dagli sguardi e dall’espressione della bocca, mentre non una sola parola viene pronunciata sulla performatività del resto del corpo, quasi come se questo non fosse strumento abile a comunicare il sentire. Quale sentire? Quello di donne fragili, appunto, di bambine insicure, di ragazze che non hanno stima di sé, che vengono spedite da uno psicanalista, controvoglia o sperando di trovare una via per superare ciò che le fa sentire sempre nel posto sbagliato. Sono tutte donne che vengono tradite, per davvero o in maniera immaginaria, che non sono all’altezza delle altre, ovvero quelle altre donne considerate dalle protagoniste indiscutibilmente migliori ma solo perché a loro sconosciute, così come lo sono all’autrice stessa che difatti non sa tratteggiarne un profilo completo, non sa trasformare le donne presumibilmente antagoniste in autentiche personagge. Le loro caratteristiche rimangono abbozzate, non vere, partorite solo nella testa delle altre. E purtuttavia queste bozze di personagge, questi cartamodelli scartati perché non analizzati fino in fondo non sono personagge del tutto negative, anzi trapela la simpatia che la scrittrice ha nei loro confronti e in qualche modo il desiderio di rassomigliarvi, pur risultando incomplete in quanto non vere ma soltanto partorite dalla testa [fig. 3].

 

2. La parola e il suono

Forse l’origine di tutto è da ricercare nella personale lettura che la regista/scrittrice ha del cinema. Più volte racconta di come, sin dall’esordio a teatro sotto l’egida di Carmelo Bene (dopo l’esperienza della danza), per lungo tempo non avesse compreso il senso profondo dell’arte cinematografica, al contrario della sua chiara percezione del valore della letteratura. Per comprenderlo è servito guardare un film, quello che lei ritiene sia ‘il’ film, ovvero 8 e ½ di Fellini, esperienza che le ha permesso di rendersi conto per la prima volta che il cinema potesse ‘fare’ qualcosa di diverso della letteratura, nello specifico filmare il pensiero di un uomo, la sua immaginazione, i suoi sogni. Fellini è il protagonista anche all’interno di un racconto surreale della raccolta o, per meglio dire, tinto di «consustanziale verosimiglianza» (Sorelle); personaggio vivo nella storia mentre tutti sanno che è morto e la cui apparizione sconvolge la cerimonia che si sta svolgendo in memoria del Maestro nel decennale della scomparsa, a tal punto che tutti si concentrano nel non rovinarla allontanando Fellini (mai nominato nel racconto) assieme alla piangente moglie, piuttosto che assecondando il suo desiderio di comparire ad effetto sconvolgendo gli astanti. Di ispirazione felliniana è di certo l’incipit del film Assolo, con la scena in cui la protagonista sogna o immagina tutti gli uomini della sua vita racchiusi nella medesima stanza chiacchierando, accennando passi di danza, ridendo, mentre nella stanza attigua si svolge la sua veglia funebre.

C’è un filo nella Morante che tiene stretti questa idea di un cinema fantarealista con l’arte del racconto e il tipo di performance, che è interessante analizzare in termini formali, così come l’attrice stessa evidenzia nelle interviste rilasciate. La Morante si scaglia contro la disposizione stanislavskiana dell’interpretazione attoriale, ritenendo che l’attore debba avvicinarsi al personaggio come un musicista, allo stesso modo di come fa uno scrittore quando si avvicina alla parola. È attraverso quello che lei chiama ‘atteggiamento musicale’ che è possibile produrre nel cinema e nella letteratura altra verità, «non quella verosimile ma quella autentica»; così come per un attore, anche per un narratore non è possibile «mettere la realtà vera nella finzione», ma l’unica verità rappresentabile è quella di Guido Anselmi travolto dalla realtà dei suoi ricordi, è quella della recitazione non naturalistica di Buñuel che produce «un impercettibile, sottile scollamento della realtà», è quella surreale dei racconti di Cortázar «che non tollera l’arbitrio» dell’autore (secondo le parole dell’autrice). Il tentativo della Morante, attraverso l’esasperazione nevrotica dei suoi personaggi, per nulla scevri da una «sporcatura umoristica» con riferimenti a Woody Allen e alle strisce di Schulz, è quello di domare le parole «fingendo[si] impavid[a]», come descritto con acribia nel Breve interludio del domatore. Interludio per voce maschile, sapendo che «il suono di ogni parola è importante come il significato».

La scrittrice mescida forme e strutture della narrazione con tratti a volte autobiografici e a volte somiglianti a donne da lei interpretate creando storie surreali e dunque in quanto tali assolutamente rappresentative della realtà. Tale arte compositiva sfugge al controllo della Morante la quale teme di aver creato «una troppo esigua gabbia» per le parole che sente di aver rapito «ai liberi spazi della memoria» e dichiara che forse, come per la recitazione, anche i racconti saprebbero spiegare meglio la verità che vogliono narrare se fossero messi in musica. Se già l’intera raccolta palesa la volontà di essere architettata come un’opera musicale – a partire dalla presenza di brevi intermezzi tra i racconti definiti interludi (in alcuni casi per voci maschili, in altri per voci femminili, come recitano i sottotitoli) e della figura dei pentagrammi composti da Nicola Piovani che aprono e chiudono le pagine degli interludi, indicandone l’andamento temporale: allegro brillante o andante solenne o andantino misterioso o adagio onirico –, nell’ultimo racconto questo gioco diventa manifesto:

Per spiegarlo bene, dovrei scriverlo in Musica. Ci sarebbe il cameriere senza lineamenti né corporatura né colori che urla […] sopra il frastuono delle voci. E, simultaneamente, in un diverso pentagramma, io che sento e vedo Giovanni […] mentre gli altri strumenti, e cioé Anna Maria, Betta, Esmeralda, Patrizia, Gabriella e il cameriere vanno avanti, ciascuno con il suo timbro peculiare […] E, sopra o sotto nella partitura, ancora Giovanni che mi bacia sul collo […] e invece l’impazienza del cameriere grondante sudore è appena un frammento del presente, che mi trasporta immediatamente, per analogia, a noi due sudati questo pomeriggio (Controvoglia).

La musica permetterebbe dunque di ricomporre i piani temporali della realtà e narrarli con più verità, di quanto possa fare il semplice racconto, che tanta fatica nell’organizzazione costa alla protagonista. Lo stesso titolo di Assolo, come si scopre nel suo finale con la voce fuori campo che ne dà la definizione, è un’esplicita metafora dell’estrema e aggrovigliata verità delle relazioni: una voce o uno strumento che esegue da solo una composizione musicale ma che può essere accompagnata da altri strumenti o voci. La musica ritorna come un pensiero fisso nella Morante in quanto arte assoluta a cui aspira essendo l’unica in grado di non dover prestare il fianco a una necessità di verosimiglianza. Nella composizione di un film come di un racconto, l’artista, così come si è trovata più volte a dire, vorrebbe potere slegarsi dai lacciuoli della realtà allo stesso modo di come sente di fare quando recita: non avvicinandosi alla realtà di un personaggio o alla propria per ricercarvi delle verità di quel personaggio, ma «trovare un centro di gravità sufficientemente forte e poi lasciare che le cose accadano» (Pacifico 2014).

 

3. Il suono e l’azione

Per fare ciò, la Morante sa che è necessario indagare nell’interiorità del sentire e della psiche, e non è un caso che la figura dello psicoanalista è così tanto presente nelle sue opere, con probabilità già suggerito potentemente in alcune sue interpretazioni, sia da paziente come ne La mirada del otro, dove la protagonista è costretta dallo psicanalista a tenere un video-diario della sua vita, sia da psicologa, come ne L’amore è eterno finché dura (2004) di Verdone e ne La bellezza del somaro (2010) di Castellitto, entrambe peraltro figure nevrotiche. Ritorna nel suo Ciliegine prima, attraverso la costruzione del personaggio dello psicanalista che definisce la protagonista androfoba, e in Assolo soprattutto, dove la psicoanalisi è filo e cornice dell’intero film [fig. 4]. Trapela anche nelle pagine di Brividi immorali, anche se spesso è una figura indesiderata o tradita dalle protagoniste, soprattutto nell’ultimo racconto dove molte sono le analogie con la pellicola Assolo, a partire dalla costruzione sintattica del «dice che» riferito alla psicanalista che nel film agisce mentre la voce fuori campo racconta e che diventa in Controvoglia soggetto sottinteso e quindi ancora più presente: «Dice che potrebbe farmi bene. Dice che non importa come racconto le cose, se in ordine cronologico o in ordine sparso. Dice che l’importante è non tenersi tutto dentro». È la persona che permette l’avvio del discorso, interlocutore presente che dà avvio alla forma narrativa, necessario per la scrittrice, la quale in tutti i suoi racconti di rado scrive in terza persona e quando ciò accadde vengono messi in atto stratagemmi della narrazione che spingono prepotentemente verso la seconda persona, come nel caso della Storia dell’Ungherese, scritto ritrovato introdotto dal testo di una e-mail e da una lettera o negli altri tre racconti, dove la terza persona nasconde una esplicita focalizzazione interna, spesso denunciata da uno strano emergere di una prima persona che confonde il ruolo del narratore. Per il resto tutti i racconti e anche gli interludi sono caratterizzati da una narrazione in prima persona con un io finzionale, in pochi casi di genere maschile, che spesso ha bisogno di rivolgersi direttamente al suo lettore/spettatore secondo il modello della narrazione in seconda persona, modello che in realtà più che designare come narratario il generico lettore sembra piuttosto emulare la forma del raccontarsi all’interno di un setting terapeutico, dove esiste un tu assolutamente esterno alla storia e coinvolto come ascoltatore silente e privo di giudizio, ovvero lo psicoanalista. Di tale dispositivo diegetico vi sono spie disseminate qua e là tra le pagine dei racconti e sembrano utili a dare una valenza etica ai fatti rivelati attraverso il racconto, nel tentativo di superare l’annoso confine tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, fino ad aprire «prospettive infinite», ma che permettano finalmente, una volta scrutati i paesaggi interiori del come essere più che del dover essere, di «galleggiare tranquillamente sulla schiena, con lo sguardo rivolto al ponte oscillante, ai sentieri scabrosi e impervi» (Brividi immorali. Interludio per voce femminile). C’è un solo interludio contenuto al centro esatto della raccolta che sembra avere una struttura narrativa esule dal resto: si tratta di un «valzer gentile», secondo la corrispondenza del tempo musicale raffigurato dal pentagramma che lo apre, ed è una breve sequenza in terza persona al presente che narra di un uomo che varca la soglia di un’agenzia di investimenti perché intenzionato a depositare il brillio del mare. Si tratta di un uomo qualunque, con delle scarpe nuove, non dotato di particolari risorse: «a parte il brillio del mare, […] dispone a malapena di qualche ricordo d’infanzia, ma si tratta di spezzoni incoerenti, senza particolare pregio» (Investimenti), e che, ciononostante o forse proprio per questo, decide di rinunciare all’investimento perché lo angoscia l’idea di doversi separare da una cosa bella che possiede. Le inquadrature del personaggio sono scarne, la scena è breve, il personaggio non ha contorni né definizioni, eppure è l’unico tra tutti i personaggi dei racconti che si trova a compiere una scelta davvero importante e lo fa con determinazione e fermezza. Non importa se uscito da lì ritorna vacillante, la Morante ci chiarisce che dinanzi alle cose importanti e per cui vale la pena, nessuna ritrosia e fragilità può esimerci dallo scegliere cosa è giusto fare. Certo, ci sarebbe piaciuto che a rappresentare il superamento di una condizione di fragilità e insicurezza fosse stata una delle tante donne messe in scena, magari tutte insieme, sostenendosi l’un l’altra con lo sguardo vigile rivolto alla nuova ondata di femminismo che secondo la Morante starebbe arrivando. Ma così non è, e forse questo è uno dei tanti punti in cui l’attrice-scrittrice e regista perde l’occasione per generare una fantasia identificatoria (Stacey 1994) tale da rendere la sua immagine divistica davvero significativa, oltre le intenzioni espresse nelle interviste, per un pubblico di donne.

 

 

Bibliografia

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R. Dyer, Star, Torino, kaplan, 2003.

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S. Iachetti, Laura Morante. In punta di piedi, Roma, Edizioni Sabinae, 2018.

P. McDonald, ‘Riconsiderare il divismo’ [1998], in R. Dyer, Star.

L. Morante, Brividi immorali. Racconti e interludi, Milano, La nave di Teseo, 2018.

F. Pacifico, ‘Intervista a Laura Morante’, Minima et moralia, 4 marzo 2014, <http://www.minimaetmoralia.it/wp/intervista-a-laura-morante/> [accessed 10.10.2019].

M. Rizzarelli, ‘L’attrice che scrive, la scrittrice che recita. Per una mappa della diva-grafia’, in L. Cardone, G. Maina, S. Rimini, C. Tognolotti (a cura di), Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano, Arabeschi, V, 10, 2017, <http://www.arabeschi.it/13-/> [accessed 10.10.2019].

J. Stacey, Star Gazing: Hollywood Cinema and Female Spectatorship, Londra, Routledge, 1994.