Sono sbarcata a Roma, ancora sulla ventina, con un paio di valigie da signorina di buona famiglia, accolta come se ci conoscessimo da sempre da una cugina di mio padre (mai vista prima). Era una casa di donne spiritose, la vecchia zia, la cugina e la giovane figlia della cugina. Tre complici, l’ho capito subito (Valeri 2010, p. 69).
Così Franca Valeri racconta nella sua autobiografia per frammenti, Bugiarda no, reticente, l’inizio della sua carriera. Come nei più classici romanzi di formazione, la sua prende avvio con un fallimento. È vicenda nota, infatti, che Valeri non verrà ammessa all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, come avrebbe voluto, restando tuttavia nella capitale sotto la protezione benevola di tre donne – «le tre complici hanno protetto la mia menzogna. “Tutto bene, promossa”» (Valeri 2010, p. 70) – che le permetterà di sperimentare la libertà, l’indipendenza e ancor più l’intraprendenza. Otterrà presto i primi successi teatrali assieme ad Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli con cui dà vita, nel 1951, al Teatro dei Gobbi, compagnia che rivoluziona la satira di costume in chiave minimalista. Il gruppo trova immediata fortuna tra le macerie della guerra e una società agli esordi del boom economico, che i tre comici tratteggiano in un susseguirsi di sketch caricaturali fondati su un raffinato equilibrio tra scrittura e gesto scenico. D’altra parte Valeri aveva già affinato le sue doti di osservatrice e cantora della nuova borghesia del dopoguerra nei suoi anni di attività in radio, dove nel 1949 aveva dato vita al personaggio, ben presto mitico, della Signorina Snob [fig. 1]. Personaggia, in realtà, e quanto mai autobiografica, che Valeri ci ricorda essere scaturita dalle attente e divertite esplorazioni adolescenziali, «quando con la mia amatissima amica Billa abbiamo cominciato a trovarci in testa e in bocca il linguaggio delle signore “bene” di Milano» (Valeri 2010, p. 26). «Tipo umano ben definito», la Signorina Snob entra in scena «vestita di parole scritte», con un eloquio «per metà inventato e per metà letterario» (Valeri 2010, pp. 26-27), prima e più evidente testimonianza di una predilezione dell’attrice per la scrittura, vista come pratica inscindibile da quella attoriale. Così ricorda ancora l’attrice-autrice:
visto che la maggior parte me li sono scritti io [gli spettacoli, N.d.R], dovrei peccare di modestia oppure di presunzione considerando che hanno avuto tutti un buon esito perché prima di farli ci ho pensato non so io quanto (Valeri 2010, p. 38).
Della biografia della Signorina Snob sappiamo poco, se non che appartiene saldamente alla borghesia milanese, che il padre è chiamato «il commendatore», la madre «l’augusta genitrice» e che è circondata da una serie di bizzarri e ovviamente borghesissimi amici, come «il Lele», «l’Ildefonsa» e l’impacciato e un po’ sfortunato Pierone. Valeri crea la sua personaggia nel difficile interstizio tra sottrazione ed eccesso, contrapponendo a una scrittura sintetica, frammentata e per singole immagini giustapposte una scelta linguistica in cui, come nota Laura Peja «le esagerazioni abbondano» (Peja 2009, p. 41): dai numerosi accrescitivi «Il Pierone», «il marchesone», «la seratona», all’uso costante di superlativi che, senza alcun rispetto delle regole grammaticali, si formano spesso su sostantivi o su avverbi che non ammetterebbero gradazioni. Compaiono dunque gli «sposatissima», «fidanzatissima» ma anche «suissimo» («una serata suissimo») fino a «l’orgia di ospiti esterissimi con spolveratura generale di tutte le lingue imparate in tenera infanzia tranne l’ottentotto» (Valeri 2003 [1951], p. 32).
È così che Valeri scolpisce l’iperbole di una borghesia immersa nella nuova civiltà di massa, classe a cui appartiene per nascita nonché per vocazione, e della quale sceglie di prendersi gioco con lo sguardo affettuoso e allo stesso tempo impietoso dell’autoetnografa. Non è un caso che quando, sull’onda del successo, le verrà proposto di declinare la personaggia in forma letteraria con la collaborazione dell’illustratrice Colette Rosselli in una strenna natalizia del 1951 [fig. 2] – dando così luogo a quello che Maria Rizzarelli classifica come «memorie di personagge» (Rizzarelli 2017) – la scelta cadrà sulla forma diaristica. Genere intimista per eccellenza, il diario, come ci ricorda Simonetta Piccone Stella, ha tra le caratteristiche fondamentali quella della sincerità. Caratteristica che Valeri non tradisce, e che tuttavia trasforma da strumento «di disvelamento dell’essenza ultima dell’identità» (Piccone Stella 2008, p. 62), a lente capace di svelare non le profondità invisibili dell’io, ma la sua totalizzante superficie. Nella sua scrittura ironico-parodistica, l’attrice milanese tesse la confessione involontaria di una classe che incarna, negli anni dell’incipiente boom economico, l’essenza stessa della modernità. Oltre alle già citate coloriture linguistiche, l’effetto comico della Signorina Snob risiede tutto nella completa mancanza di inibizione con cui mette a nudo la vacuità sfacciata dei suoi desideri (nel guardaroba non può mancare un abito «nero con particolari giocondi per funerali chic, necessario onde non affliggere troppo il morto», Valeri 2003, p. 44); il Natale non può celebrarsi senza albero ma
l’abete no! È un vegetale così qualunque, così montagnetta di quart’ordine, basta, e poi il birth (nascita) è avvenuto in Oriente, ovvio mi sono fatta arrivare una palma enorme da Maiorca e ci ho appeso tranquilla tutto il regalame!) (Valeri 2003, pp. 54-55).
La Signorina Snob ha la stoffa del dandy, di cui condivide l’amore per la dépense – «per strada mi venne un’idea talmente divertente che rido per un’ora da sola, cioè: andare a San Remo al casinò e tornare a casa sbancati a uso rovina, col Pierone in galera, io che mi sparo e quelle cose lì» (Valeri 2003, p. 45) [fig. 3], e un’indiscussa noia della banalità del vivere, ma da cui si distacca per assenza di sentimenti e di passione – «se se la trovasse tra le mani, se le laverebbe», chiosa Valeri. «Infelice senza saperlo» (Valeri 2010, pp. 27-28), commenta ancora la scrittrice-attrice, il suo spleen non trova sbocco, restando inceppato negli ingranaggi della moda. Tutt’altro che sciocca, la Signorina Snob è pienamente capace di sentire il gorgo del vuoto esistenziale creato dalle correnti della modernità, quella noia che Moravia descriverà di lì a pochi anni nell’omonimo romanzo per bocca del suo protagonista:
Per molti la noia è il contrario del divertimento, [...] io invece potrei dire che la noia per certi aspetti è simile al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà (Moravia 2017 [1960], p. 5).
E non è forse un’insufficienza di realtà quella che la Signorina Snob tenta continuamente di colmare nell’iperbole del gesto e della parola che è grido, pur grottesco, di disperazione? La ricerca incessante di distrazione e divertimento è la forma irriverente che la noia assume nello sguardo comico di Valeri. Nelle assurdità che balenano nella mente della Signorina Snob si avverte il pungolo del desiderio, di uno slancio vitale che non sa trovare parole e gesti se non quelli di una vuota stravaganza. La Signorina Snob è un’antieroina che rovescia, nell’autodeterminazione del riso, tutte le caratteristiche attribuite alle donne in secoli di letteratura al maschile. Non solo infatti la nostra è incurante dell’amore e del relativo rito borghese del matrimonio – «in fondo anche sposarsi è un’idea. Almeno è un divertimento per gli amici» (Valeri 2003, p. 52) –, ma trasforma l’empatia in dissacratorio sarcasmo – «Fatta! Ho comprato un’isola vendendo alcuni fronzoli sparsi qua e là per la casa. [...] Ho deciso che la inaugurerò con un ramadan benefico a favore degli amici disgraziati che devono andare nelle stazioni balneari» (Valeri 2003, p. 39) – e soprattutto è spinta da un egoismo e da un’impertinenza che riscattano in salsa comica quell’auto-abnegazione a cui per secoli le donne sono state condannate:
Il Pierone, pora stella, sta risalendo a vapore dalla Sicilia ché gli ho telegrafato che può gemere in cinese, in turco, in lituano, ma deve essere qui a giro di quadrante perché ho bisogno di lui. Ho pensato che caso mai mi saltasse la follia di traspormi in qualche loco in macchina, chi me la guida? (Valeri 2003, p. 56).
In questo Valeri ha avuto lontane e raffinate ‘genitrici’: che cosa fa, infatti, la penna di Jane Austen, quando crea la coraggiosa Elizabeth Bennet capace di rifiutare con fermezza proposte di matrimonio, se non disegnare la possibilità da parte delle donne di perseguire la loro felicità? Come dichiara il personaggio di Elizabeth: «I am only resolved to act in that manner which will, in my own opinion, constitute my happiness» (Austen 2010 [1813], p. 358). La protagonista di Pride and Prejudice [fig. 4], capolavoro di quella poetica dell’ironia di cui la scrittrice britannica è indiscussa maestra, persegue la sua felicità, come nota l’anglista Beatrice Battaglia,
con quella “liveness of mind” e “playfulness of manner”, quello spirito satirico talvolta consapevolmente perverso, che le donne non devono avere e, se hanno la disgrazia di avere, devono tenere ben nascosto, poiché esso è manifestazione di quel desiderio di “self-assertation” che è l’opposto del tanto raccomandato “self-denial" (Battaglia 1985, p. 112).
A un secolo e mezzo di distanza, Valeri sceglie ancora una volta la strada del satirico per dar corpo e indipendenza alle sue donne. Certo, ben più complesso è diventato ora il perseguimento di una personale felicità, sepolta com’è dalla superficie della modernità, ma le personagge di Valeri continuano ad abitare il mondo con quella dose di coraggio, sfrontatezza e intelligenza con cui vestono l’abito della loro libertà. Un tubino nero rigorosamente Capucci.
Bibliografia
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