La rabbia di Pasolini: come da un film sperimentale di montaggio può rinascere l’antica forma tragica *

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Nel film La rabbia (1962), Pasolini taglia e rimonta pellicole di un vecchio cinegiornale, commentandole con due voci fuori campo, in prosa e in versi. Non è un documentario storico, come a volte viene erroneamente considerato, ma un esperimento cinematografico di grande interesse ancora oggi. Per la tecnica usata, e per i contenuti politici di analisi della società, esso è simile a quello che un decennio più tardi realizzerà Guy Debord con il film La société du spectacle, ma per la forma poetica e per la visione della Storia, Pasolini ci porta in tutt’altra dimensione, raramente praticata al suo tempo e anche nel nostro. Una dimensione tragica che sussume anche il politico dentro al suo più ampio orizzonte. La mia ipotesi di lettura è che questo singolare esperimento di montaggio ricrei, con i mezzi specifici del cinema, la potenza lirica ed etica dell’antico coro tragico.

Pasolini shot several screen adaptations of ancient Greek tragedies such as Medea by Euripides and the Oresteia by Aeschylus. But with La rabbia (1962) he does something different and something more: he does not adapt an existing tragedy for the screen, but recreates the very form of ancient tragedy through specific filmic techniques and especially through its most distinctive device: the montage. As in ancient tragedy, the newsreel footage that Pasolini edited for the film stages the conflicts, joys and mourning losses of the recent history of mankind, captured from a broad, planetary and universal perspective. The voice-over commentary takes on the role of a tragic chorus.

 

1. Per il film La rabbia, realizzato nel 1963, Pasolini non ha girato una sola scena. Ha usato esclusivamente delle vecchie pellicole di un cinegiornale degli anni ’50, intitolato Mondo libero,[1] e fotografie tratte dai giornali. Le ha selezionate, montate e accompagnate con un commento scritto appositamente per il film, che è in parte in versi in parte in prosa, ed è letto rispettivamente dalle voci fuori campo di Renato Guttuso e di Giorgio Bassani.

Per comprendere il senso dell’operazione, occorre innanzitutto richiamare alla mente i cinegiornali di un tempo, brevi filmati che mostravano notizie e varietà, e che venivano proiettati nelle sale cinematografiche prima del film principale. Erano un po’ come i telegiornali di oggi – sono scomparsi alla fine degli anni ’50, quando la televisione li ha soppiantati. Anche Mondo libero, durato circa un decennio, era cessato nel ’59. Oggi i cinegiornali sono considerati documenti storici importanti, essendo spesso le uniche registrazioni audiovisive degli eventi del tempo. E infatti molti documentari storici hanno attinto a quei repertori: in Italia, per esempio, si può ricordare All’armi siam fascisti! di Cecilia Mangini e Lino Micciché, con testo di Franco Fortini, un’analisi critica della presa di potere da parte del fascismo, realizzato nel 1961, due anni prima della Rabbia.[2]

Ma Pasolini usa quei materiali di repertorio in un modo assai diverso. Non li considera dei documenti, e ancor meno delle ‘immagini-verità’. Anzi, egli è ben consapevole della loro banalità e della loro falsità, come si legge in questa dichiarazione, fatta da Pasolini durante la lavorazione del film, dopo aver visto 90.000 metri di quelle pellicole:

Una visione tremenda, una serie di cose squallide, una sfilata deprimente del qualunquismo internazionale, il trionfo della reazione più banale. In mezzo a tutta questa banalità e squallore, ogni tanto saltavano fuori immagini bellissime: il sorriso di uno sconosciuto, due occhi con una espressione di gioia o di dolore, e delle interessanti sequenze piene di significato storico. Un bianco e nero in massima parte molto affascinante visivamente. Attratto da queste immagini, ho pensato di farne un film, a patto di poterlo commentare con dei versi. La mia ambizione è stata quella di inventare un nuovo genere cinematografico. Fare un saggio ideologico e poetico con delle sequenze nuove.[3]

I cinegiornali erano fatti per il grande pubblico – come i programmi televisivi di oggi – ed erano pieni di luoghi comuni, di cliché, talvolta anche reazionari, agli occhi di Pasolini. Sono le immagini con cui la società del tempo si racconta e si autorappresenta, spesso anche con ipocrisia. Per poterli usare occorreva quindi tagliarli, decontestualizzarli, soprattutto commentarli, e così piegarli a un nuovo significato. Il taglio, il montaggio e soprattutto il commento sono perciò determinanti. Hanno una funzione non semplicemente narrativa o didascalica, ma di decontestualizzazione e di risemantizzazione delle immagini stesse: qualcosa di analogo a ciò che, qualche anno dopo, il teorico e cineasta francese Guy Debord avrebbe chiamato détournement – anche se, come vedremo, i risultati artistici sono diversi.

La rabbia viene talvolta frettolosamente definita un ‘documentario’. Ma se si guarda alla tecnica compositiva, si tratta più propriamente di un ‘film di montaggio’, o di un found footage film, o collage film, come altre volte vengono chiamati i film che fanno uso di materiali preesistenti. Qualunque ne sia l’etichetta, essi vengono comunque sempre considerati sotto la categoria di ‘cinema sperimentale’. La rabbia è in effetti un vero e proprio esperimento, nel senso che con questo film Pasolini scopre e porta alla luce nuove possibilità insite nel mezzo espressivo che usa, che non erano ancora state condotte fino a quel punto. Certamente, nel 1963, il cinema sperimentale di montaggio ha ormai alle spalle una lunga tradizione internazionale, che risale agli anni ’30 e che, ai suoi inizi, fu influenzata dalla tecnica surrealista del collage. L’espressione inglese found footage film riecheggia del resto l’objet trouvè dadaista e surrealista. I primi esempi americani lo confermano, come ad esempio Rose Hobart (1936) dell'artista Joseph Cornell, che tagliò e rimontò sequenze di un film precedente, East of Borneo (1931), combinandoli con pezzi di altri film. Poi gli esperimenti si moltiplicarono, nelle direzioni più diverse.[4] Eppure, anche rispetto a questo cinema Pasolini realizza qualcosa di inedito. In generale i film sperimentali di montaggio piegano i materiali di repertorio verso esiti comici, parodici, oppure di sovversione dei codici. Pasolini ne fa invece un uso lirico, di tonalità alta, in un film che si interroga sul futuro dell’umanità, ripercorrendo gli avvenimenti della storia recente. In questo egli ha precorso esperimenti successivi, tra i quali i film di montaggio dello stesso Guy Debord, di cui parlerò più avanti. Se invece lo si definisce ‘documentario’, è evidente che l’aspetto sperimentale passa totalmente in secondo piano.[5]

 Rovine di un teatro greco

Si tratta però di un esperimento che, anche rispetto a quello successivo di Debord, continua ad avere una sua originalità inedita. Punta infatti verso il lirico e il tragico. Secondo la mia ipotesi di lettura, che illustrerò man mano, La rabbia ricrea una forma simile a quella della tragedia antica, usando i mezzi specifici che il cinema gli offre, in particolare il montaggio e la voce fuori campo. Ed è proprio per questa forma che ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, questo piccolo capolavoro è capace di parlarci. Anzi, direi persino che esso parla a noi spettatori degli anni 2000 ancor più che a quelli degli anni ’60, perché nel frattempo sono caduti diversi schermi ideologici della modernità – che Pasolini aveva in qualche modo già oltrepassato – e che allora potevano fare diaframma alla giusta comprensione del film: tra questi la visione storicista della storia e, non da ultimo, l’avversione modernista per il lirico, o per il ‘troppo poetico’.

 Un fotogramma de La rabbia Un fotogramma de La rabbia

Le immagini di repertorio che scorrono nel film riguardano alcuni degli eventi più significativi degli anni ’50, sia lieti sia dolorosi: l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica, la guerra di Corea, la guerra d’Algeria, le guerre di liberazione in Africa, la rivoluzione cubana, l’esplosione della bomba atomica, l’arrivo della televisione nelle case degli italiani, le alluvioni, l’elezione di papa Giovanni XXIII, l’incoronazione della Regina Elisabetta, la vittoria di Eisenhower negli USA, la morte di Marilyn, il primo volo nello spazio. Sono gli stessi fatti, gli stessi personaggi e persino le stesse immagini che uno spettatore di allora poteva aver visto nei cinegiornali durante i dieci anni appena passati. Le stesse, ma montate e commentate in un altro modo, capace di suscitare nello spettatore una reazione conoscitiva e emotiva assai diversa da quella dei cinegiornali – e anche dei telegiornali di oggi – mobilitando non solo la comprensione storica o politica degli eventi ma anche il sentimento, la gioia, il lutto, la pietà, con un senso tragico della storia, colta nei suoi aspetti universalmente umani.

Per Pasolini gli anni ’50 sono del resto un periodo particolarmente significativo. Da un lato sono anni di pace e di ripresa economica dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dall’altro lato sono ancora carichi di conflitti e di lutti per le tante guerre ‘locali’ che continuano a scoppiare in più parti del mondo, per la povertà e per le condizioni miserabili in cui vivono tanti strati della popolazione mondiale, e per il ricordo ancora vivo della bomba di Hiroshima, che continua a gettare la sua luce spettrale su un futuro incerto. Sono anche gli anni in cui in Italia scoppia il cosiddetto boom economico, con tutta una serie di mutamenti che Pasolini descriverà nei suoi scritti saggistici come una sorta di ‘genocidio culturale’. Questi conflitti sono però come sepolti sotto la copertura di una tranquillità apparente, nel clima di ripresa economica e di normalità borghese o piccolo-borghese che gli stessi cinegiornali tendono a diffondere. Ed è proprio questa calma apparenza che la ‘rabbia’ del poeta, evocata nel titolo, mira a bucare, con la sua inquietudine. Un intento che sorreggerà anche il film di Debord. Ma mentre quest’ultimo mira allo choc intellettuale, Pasolini mira al canto corale, ricreando miracolosamente, attraverso i mezzi specifici del cinema, una forma che è quasi costitutivamente estranea a quel tipo di sperimentazioni cinematografiche: la forma tragica, appunto.

Schematicamente, le principali somiglianze tra il film di Pasolini e l’antica tragedia sono queste:

1) come il pubblico delle antiche tragedie, anche lo spettatore della Rabbia ‘conosce già’ gli avvenimenti narrati. Non c’è bisogno che il film gli spieghi, ad esempio, chi è quell’oratore che parla alle folle in Algeria sotto gli aerei militari che ronzano nell’aria, perché egli sa già che è Charles de Gaulle, né occorre che gli si narrino i fatti e le circostanze, che egli già conosce. Anche i personaggi e gli intrecci delle antiche tragedie, come è noto, erano patrimonio culturale comune dei Greci, e quindi già conosciuti dal pubblico. Spesso si trattava di materiale mitico, ma in qualche caso anche di storia recente, come nei Persiani di Eschilo, dove si mette in scena la vittoria sui Persiani, avvenuta appena otto anni prima, con la battaglia di Salamina.

2) inoltre, come nelle antiche tragedie, anche nella Rabbia gli eventi sono accompagnati da un commento poetico, che si alza come un canto, aprendoli a una partecipazione emotiva e a una comprensione più profonda. La voce fuori campo, ora in prosa, ora in versi, viene dunque ad avere nella Rabbia una funzione analoga a quella del coro tragico.[6]

Quest’ultimo è senz’altro l’aspetto più singolare dell’esperimento cinematografico di Pasolini. Tra tutti i caratteri della tragedia antica il coro (in tutte le sue parti: parodo, stasimo, o commo) sembrerebbe infatti quello più improbabile da riattualizzare in un’opera moderna. Pur essendo, come sosteneva Nietzsche, il momento più arcaico e fondante della tragedia, già incomincia a indebolirsi con Sofocle, e poi scompare in epoca ellenistica. Inoltre, come osservava Leopardi, i moderni ormai percepiscono il coro come «contrario alla verosimiglianza», e perciò lo hanno bandito – cosa che per lui costituiva una grave perdita, perché così veniva bandita anche la poesia.[7]

Ma se il coro può apparire artificioso in un dramma moderno, non così in un film. Il cinema, grazie alla sua caratteristica di poter usare due piani, le immagini e il sonoro – e quel particolare sonoro che è il commento fuori campo – rende possibile una riattualizzazione non artificiosa, non ‘antiquaria’ del coro. Pasolini fa questa scoperta quasi inconsapevolmente, nel senso che non ci costruisce su una teoria, e quando si trova a definire il «nuovo genere cinematografico» che ha inteso fare con La rabbia, parla, come abbiamo visto, di un «saggio ideologico e poetico». Ma quel che è interessante notare è che egli scopre questa possibilità non nel teatro, e nemmeno in un film a soggetto, bensì in un film di montaggio. Egli ha sempre nutrito un forte interesse per la tragedia antica, che ha cercato di ricreare nel teatro, e di cui ha fatto anche diversi adattamenti cinematografici (Edipo Re, Medea, Appunti per un’Orestiade africana). Ma nella Rabbia fa qualcosa di diverso; non traspone al cinema storie riprese da un genere ormai morto, ma lo ‘ricrea’, con i mezzi che solo il cinema può offrirgli: la possibilità di montare filmati preesistenti e di usare la voce fuori campo, cioè una voce dislocata rispetto alle vicende rappresentate.

 

2. La forma tragica, ricreata da Pasolini, si porta dietro anche una peculiare visione dell’uomo dentro la storia, che è in urto con quella allora dominante, cioè con la visione storicista, di tradizione idealista, hegeliana o marxiana. Prendiamo ad esempio i primi due versi del commento del film. Mentre sullo schermo si vedono i funerali di De Gasperi, la voce fuori campo recita: «Il tempo fu una lenta vittoria/ che vinse vinti e vincitori».[8] Così, fin dall'inizio, il commento fa uscire i fatti storici dalla dimensione strettamente storica, per trasportarli su di un altro piano, dove prende forma una temporalità diversa, più ampia, tipicamente tragica: un tempo che lentamente disfa le vittorie, rendendo eguali i vinti e i vincitori. Come nelle antiche tragedie, anche qui gli avvenimenti, i conflitti, le vittorie gioiose e i lutti della storia recente dell’umanità, vengono colte in una prospettiva vasta, universale, proponendo allo spettatore un interrogativo di portata generale sull’uomo, sulla sua condizione e il suo futuro.

Nella sequenza sull'invasione dell’Ungheria, mentre sullo schermo scorrono le immagini dei morti e dei profughi, la voce fuori campo recita:

Queste nevi erano dell’altro anno,
o di mille anni fa, prima di ogni speranza.
Dove le abbiamo conosciute, queste nevi,
queste nevi che incorniciano giorni di pianto?
Sono madri nostre, figlie, nipoti,
vecchi parenti nostri, queste figure identiche,
sopravvissute dai giorni del pianto - che piangono.
Il quarantatré, il quarantaquattro […]
erano qui, con le loro indelebili nevi,
con le loro ereditarie lacrime.

È come se il film ci mostrasse non dieci anni di storia, con le sue sequenze storicamente legate e interpretate, ma quello che avviene da sempre agli uomini lungo le «sanguinanti vie della terra».[9] Il frame di riferimento, entro cui sono collocati gli eventi, si apre fino ad abbracciare l’intera storia dell’umanità nei suoi tempi lunghi, millenari.

La tensione ad allargare la cornice di riferimento si nota anche nell’abbandono della prospettiva etnocentrica a favore di una più grande «estensione del mondo», che accoglie nel canto i bambini di colore e i miserabili dell’intero pianeta, come si può notare nelle sequenze sul Terzo mondo: «Si chiama colore, la nuova estensione del mondo». In questa parte del film vengono letti anche dei versi che riprendono, variandola, la nota poesia di Eluard («Su i quaderni di scolaro / Sui miei banchi e gli alberi / Su la sabbia su la neve / Scrivo il tuo nome... libertà») che Pasolini così riscrive, allargando il quadro: «Sui nomadi del deserto / Sui braccianti di Medina / Sui salariati di Orano [...] / Scrivo il tuo nome. Libertà».

Già questo andare oltre l’Occidente è un allargamento notevole del frame. Ma quello che è ancora più importante è che viene ‘sfondato’ l'orizzonte stesso della Storia e dei suoi tipici concetti esplicativi, di tipo politico, economico, sociale o ideologico, che qui si rivelano insufficienti e angusti. Ne è un esempio la sequenza su Cuba. Anche in questo caso, come per l’invasione dell’Ungheria, non ci viene data nessuna interpretazione storico-politica o ideologica dei fatti.[10] Il commento parla solo di una vittoria che «costerà terrore» perché «i nemici sono tra gli stessi fratelli»:

La vittoria costerà sudore.
I nemici sono tra gli stessi fratelli.
La vittoria costerà terrore.
I fratelli attaccati al terrore antico.
La vittoria costerà ingiustizia.
I fratelli, nella loro ferocia, innocenti.

Difficilmente troveremmo una notazione simile in un saggio storico, e ancor meno in un saggio di impianto marxista. Invece, nel coro di una tragedia antica, riflessioni di questo tipo erano comuni, e anzi costituivano l’essenza stessa della coscienza tragica. La guerra, giusta o ingiusta, vinta o persa, ci mette sempre di fronte a un nemico che è tragicamente innocente, e fratello (come i persiani dell'omonima tragedia, i cui lutti venivano pianti dallo spettatore greco).

Ma è soprattutto nei versi che seguono che si coglie quell’andare oltre le analisi storiche, portando in primo piano proprio ciò che la Storia non riesce a spiegare:

Morire a Cuba!
Forse solo una canzone
Poté dire cos'era il morire a Cuba
 
Morire a Cuba!
Forse solo un ballo
Poté dire cos'era il morire a Cuba
[...]
Ora Cuba è nel mondo:
nei testi d'Europa e d'America
si spiega il senso del combattere a Cuba.
Una spiegazione feroce
che solo la pietà può rendere umana
nella luce del canto, il combattere a Cuba.[11]

Questi versi vengono ripetuti poco dopo con una piccola variazione:

una spiegazione feroce,
che solo la pietà può rendere umana
nella luce del pianto, il morire a Cuba.

La storia, quella che si legge nei «testi d'Europa e d'America», dà solo una «spiegazione feroce», e quindi non riesce a spiegare fino in fondo il senso di quelle vicende e di tutto quel dolore. In ogni guerra, e così anche nella rivoluzione cubana, resta un vuoto di senso, che nessuna analisi storica, o politica, o ideologica può riempire, ma di cui la collettività si fa carico con il suo canto corale. E rendere umana la ferocia nella luce del canto, del pianto, della danza non era forse ciò che spettava al coro nelle antiche tragedie?

 

3. La société du spectacle, nonostante sia più vicino all’esperimento di Pasolini per gli aspetti politici e di critica sociale, resta nel solco della tradizione dei film sperimentali di montaggio, che, come ho già ricordato, conosce per lo più esiti comici, parodici, sarcastici, sovversivi, ma raramente lirici, mai comunque tragici. Debord chiama il suo film «détournement di film preesistenti» (la definizione compare nei titoli di testa). Questa tecnica, che può essere ben considerata uno sviluppo originale della pratica surrealista del collage, fu adottata dai situazionisti negli anni ’50 non solo nel cinema ma anche in altri campi culturali e artistici. In generale essa consiste in una variazione su un precedente prodotto mediatico, dove la nuova opera, così creata, viene ad avere un significato critico o antagonista rispetto all’originale.

 dai titoli di testa di La société du spectacle

Nel film La société du spectacle, realizzato nel 1972, Debord svolge una critica radicale della società contemporanea, en détournant le stesse immagini con cui essa si rappresenta: fotografie di moda, di vedette, combinate con altri materiali di repertorio, con film di «cineasti burocratici dei paesi detti socialisti» e anche con film a soggetto di registi come John Ford e Nicholas Ray. Egli declina così, per immagini, le tesi da lui già esposte nel saggio La Société du Spectacle, uscito nel 1967, che ebbe grande influsso sul pensiero critico successivo e anche sui movimenti, a cominciare da quello del ’68. In quella che Debord chiama la ‘società dello spettacolo’ la vita sociale autentica è stata sostituita dalla sua rappresentazione, e tutta la vita si trova ormai in una condizione in cui il vero non si distingue più dal falso («il vero è un momento del falso», come è detto anche nel sonoro del film).

Non solo il libro, ma anche il film di Debord è stato molto influente. Secondo alcuni, proprio per l’uso innovativo del montaggio, avrebbe influenzato lo stesso Godard, come nota Giorgio Agamben in un saggio del 1995, intitolato Il cinema di Guy Debord:

Quali sono allora i trascendentali del montaggio? Due e due soltanto: la ripetizione e l'arresto. Questo Debord non lìha inventato, si è limitato a portarlo alla luce, a esibire i trascendentali come tali (portare alla luce le condizioni trascendentali di qualcosa è spesso un gesto rivoluzionario). E Godard farà lo stesso nelle sue Histoire(s). Non c’è più bisogno di girare; non si farà altro che ripetere e arrestare. Si tratta di un evento epocale nella storia del cinema.[12]

Il montaggio è ovviamente una tecnica connaturata al cinema, ma Debord, secondo Agamben, ne porta per la prima volta allo scoperto i «trascendentali», cioè le sue condizioni di possibilità: si fa del cinema a partire dalle immagini del cinema, ripetendole e arrestandole, sottraendole così al contesto narrativo originario e esponendole in quanto immagini.[13]

Ora, la tecnica usata da Debord è, come abbiamo visto, la stessa che Pasolini aveva messo a punto dieci anni prima nella Rabbia. Non solo taglia e rimonta assieme pellicole preesistenti, ma le commenta con un sonoro che è altrettanto denso e importante di quello di Pasolini: non è semplicemente informativo o di analisi storica, ma volto a esprimere una particolare visione della società contemporanea. Esso è infatti formato da brani tratti dal saggio La Société du Spectacle, letti da Debord stesso.

Ma le analogie tra i due film non finiscono qui. Vi troviamo a volte persino le stesse immagini, o quanto meno gli stessi soggetti: De Gaulle, Fidel Castro, Marilyn Monroe, gli astronauti, l’Unione Sovietica, le folle, i cortei, le armi, le bombe, gli aerei militari, la televisione.

Ma c’è ancora un terzo punto di contatto, a cui abbiamo già accennato, ma che vale la pena di precisare meglio. Entrambi hanno per oggetto il mondo che rinasce dopo la guerra, quello dell’industrializzazione e della società di massa (appena agli albori nel film di Pasolini, già pienamente sviluppata in quello di Debord). Ed è in entrambi i casi un mondo che appare sospeso su di un futuro che inquieta, dipinto con toni in senso lato ‘apocalittici’. Del resto, pochi anni dopo aver realizzato La rabbia, proprio mentre Debord in Francia elabora La société du spectacle, anche Pasolini in Italia parlerà di una nuova forma di potere prodotta dal tardo capitalismo, ben più terribile di quelle che l’hanno preceduta, alla quale anch’egli, come Debord, sente il bisogno di dare un nuovo nome. Debord la chiama «società dello spettacolo», Pasolini «nuovo potere» o «nuova Preistoria», con i concetti correlati di «mutazione antropologica» e di «genocidio culturale».

Eppure, nonostante le somiglianze e i punti in comune, i due film sono diversi, addirittura quasi opposti nel risultato, perché opposte sono le formae mentis che li sorreggono: apocalittica quella di Debord, tragica quella di Pasolini, come spiegherò meglio tra poco.

 

4. Analizziamo ora comparativamente i due film, soffermandoci su due sequenze che trattano gli stessi soggetti. Il primo è la rivoluzione cubana. Anche nel film di Debord c’è infatti una breve sequenza su Cuba, dove però non si vedono né i morti, né i funerali, né le lacerazioni dei nemici-fratelli, né la festa per la vittoria. Si vede solo Fidel Castro che parla, inquadrato da una telecamera, anche lui quindi risucchiato, come tutto il resto del mondo, dentro all’imbuto della società dello spettacolo. Non c'è qui nessun vuoto di senso da riempire con il canto. Se per Pasolini la storia non riesce a spiegare tutto ciò che accade, nel film di Debord, al contrario, ogni evento trova la sua piena spiegazione politico-sociale.

 Un fotogramma de La rabbia

La seconda sequenza che vorrei analizzare è quella su Marilyn. Quello che incontriamo nella Rabbia è, giustamente, il pezzo più famoso del film. Pasolini stesso lo considerava il migliore, degno di rimanere, e la poesia che lo accompagna, estrapolata dal film, fu pubblicata anche come testo autonomo. La corrispondente sequenza nella Société du spectacle è invece un breve passaggio, non particolarmente significativo. Perciò il confronto potrebbe sembrare ingeneroso verso Debord. Ma quello che ci interessa notare non è il valore del pezzo in sé, ma le diverse forme che sottendono i due film, e a questo scopo il confronto si rivela utilissimo.

Nello stesso anno della Rabbia, cioè un anno dopo la morte di Marilyn, Andy Warhol riprodusse il volto dell'attrice in una serie di serigrafie, notissime. In quelle immagini spariscono sia il corpo che l’anima di Marilyn. Ne resta solo il volto, colto come mera icona, proiezione di uno stereotipo, di un oggetto di consumo di massa. La stessa ‘riduzione’ a icona si nota anche nel film di Debord. Inserita nella sequenza delle vedettes, assieme ai Beatles e ad altre figure della cultura di massa, Marilyn resta qui soltanto un’immagine, che illustra in maniera esemplare la maniera in cui lo spettacolo seduce e falsifica la vita. Alcune delle fotografie di Marilyn montate da Debord coincidono con quelle usate da Pasolini, compresa quella in cui posa nuda, parzialmente coperta da un accappatoio. Eppure il montaggio e il commento di Pasolini la fanno diventare qualcosa di più di un’icona, consentendoci di avvicinarci alla persona, alla sofferenza segreta di quella creatura ingaggiata dall’industria dello spettacolo – senza dimenticarne la morte («Sparì, come un pulviscolo d’oro»). Pasolini mostra anche le foto di Marilyn bambina, inconsapevole della bellezza che porta addosso come un carico, come «una fatalità che rallegra e uccide». E così ci permette di rivivere quella storia particolare come una storia universale, in una parabola dell’innocenza (tipica dell’eroe tragico), dell'inconsapevolezza del proprio ruolo nel mondo, e del mondo che gliela provoca.

Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro ai fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,
 
tu sorellina più piccola,
quella bellezza l’avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.
Il mondo te l’ha insegnata.
Così la tua bellezza divenne sua.
[...]
Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.
E per questo era bellezza,
la stessa che hanno le dolci ragazze del tuo mondo,
le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.
Sparì, come una colombella d’oro.

In un breve fotogramma, Marilyn è persino accostata al Cristo frustato a sangue in una processione, nel folklore cristiano paesano. Pasolini ne fa quasi una martire, dentro a uno scenario collettivo di paura, sotto i cieli neri rischiarati dalla nube atomica, la cui immagine apre e chiude la sequenza.

Ora sei tu, quella che non conta nulla,
poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte.

In questa sequenza si può quindi cogliere il diverso rapporto che Pasolini ha con le immagini di repertorio di cui fa uso. Si tratta anche per lui, come per Debord, di immagini intrise di falsità. Eppure, anche in mezzo a quel flusso insincero, c’è sempre qualcosa che si fa portatrice di una verità e che riesce a emergere anche dalle sequenze più corrive. Volti di bambini, di donne, di uomini, volti di chi «nulla sa e in sé ha la coscienza dell’universo intero», rigati da «lacrime ereditarie». La concreta realtà della vita è infatti sempre sovrabbondante rispetto agli schemi ideologici di chi la riprende e la racconta. Così anche il volto di Marilyn.

Debord invece le usa come una esemplificazione dello spettacolo, che altro non è se non indistinzione di vero e di falso. Tutte le immagini del film vengono piegate a significare e a rendere criticamente visibile questa condizione. Come scrive Agamben, con Debord il cinema entra «in una zona di indifferenza, dove tutti i generi tendono a coincidere, il documentario e la narrazione, il telegiornale e la storia romanzata, la realtà e la finzione, il già fatto e il da fare».[14] Al contrario, ciò che emerge dal montaggio di Pasolini non è affatto l’indistinzione di vero e di falso, ma una verità che riesce a bucare il falso. E in questo si vede l’istanza tragica al lavoro. Le formae mentis che orientano i due film sono in effetti completamente diverse.

Ma prima di definirle con maggior precisione, continuiamo ancora un po’ il confronto. Una differenza che colpisce immediatamente guardando i due film è che La rabbia è un’opera di forte impatto emotivo, mentre La société du spectacle coinvolge più che altro la dimensione intellettuale. E infatti il commento del film di Debord è privo di canto, non è per nulla un ‘coro’. La voce fuori campo descrive la mutazione che sta per accadere nel mondo in una forma dottrinaria e sistematica. E il suo sguardo è privo di pietà. Nel commento di Pasolini invece, anche nei momenti concettualmente più impegnativi, la voce resta poetica, tragica, a volte enfatica. La rabbia mobilita la capacità degli spettatori di provare pietà per ciò che vedono. Il film di Debord riesce a suscitare stupore, riflessione, ma non pietà.

Si potrebbe pensare che il diverso esito derivi dal tipo di montaggio, che nel film di Debord crea forti attriti tra le immagini: ad esempio le cover girl e subito dopo le armi, la pornografia e la polizia, la moda e la Nomenclatura sovietica. È del resto questo l’effetto a cui mira la tecnica del détournement situazionista, decontestualizzando le immagini mediatiche e usandole per nuovi obiettivi. Il montaggio viene così ad assumere un carattere di resistenza allo spettacolo capitalista, avendo in sé la forza di straniarlo, creando una consapevolezza critica nello spettatore. Questo tipo di montaggio, ci è del resto diventato con gli anni molto familiare, usato anche nei videoclip musicali, nella pratica del cosiddetto culture jamming (usata da molti movimenti per sovvertire gli spot pubblicitari dei grandi marchi), e persino in televisione. La nota trasmissione italiana Blob, ad esempio, deriva dal détournement situazionista.

Certamente non è questo il risultato del film di Pasolini. Ma si avrebbe torto a pensare che ciò derivi dallo choc del montaggio.[15] Anche nella Rabbia si creano spesso forti attriti tra le immagini: la processione col figurante di Cristo associato al volto di Marilyn, oppure il quadro fisso del teschio che incornicia la sequenza di Ava Gardner che arriva all'aeroporto di Roma. Anche questi sono accostamenti arditi e inediti.

Il punto davvero dirimente è il frame di riferimento, che è diversissimo nei due film. Nella Société du spectacle c’è una temporalità più corta e un cerchio di realtà più piccolo. Le cover girl e le armi, ad esempio, pur essendo in attrito, appartengono entrambe alla dimensione temporale del presente, colta unicamente nella prospettiva storico-sociologica, e sono comunque parte di una realtà omogenea, occidentale, moderna. Il corto circuito che si sprigiona è qui davvero ‘corto’. Non ci sono i tempi lunghi, millenari di Pasolini, né lo «stupido mondo antico», né il mondo non occidentale. Non ci sono profughi né morti né pianti. Non ci sono alluvioni né altre catastrofi naturali, da cui pure gli uomini continuano a essere colpiti anche nel tempo della società dello spettacolo. Pasolini invece prende anche quelle dentro al quadro, commentandole così: «Il male della vita è libero. Esso può rovesciarsi dal cielo, secondo le vecchie abitudini dei millenni, nel sonno dei continenti».

Nella Rabbia il mondo sembra insomma avere un’estensione più grande che nel film di Debord. Perciò anche l’attrito tra le immagini crea un corto circuito diverso, non così ‘corto’, facendo scontrare la Storia degli storici – vista da una prospettiva unicamente sociale, politica, economica – con una storia più vasta, in cui sta anche ciò che la prima non riesce a spiegare, la sofferenza, le lacerazioni, i conflitti, la disperazione, la speranza, i sogni. E questa prospettiva, più ampia, portata dalla forma tragica, fa sembrare l’altra un po’ angusta, come la terra vista dal cosmo.

Quindi, pur usando la stessa tecnica di Debord, Pasolini sembra aprire un’altra via, che io sento a noi oggi più vicina, in questa nuova era senza nome che si è aperta dopo la modernità, e dopo il crollo delle sue categorie fossilizzate. Questa via, aperta da Pasolini, non ha avuto continuatori negli ultimi decenni del secolo scorso, come invece li ha avuti Debord. Anche perché la forma tragica, come visione dell’uomo dentro alla storia – con tutto ciò che essa implica – non era in sintonia con la sensibilità e le strutture di pensiero dominanti in quel tempo, ed è stata estraneo al pensiero critico di tradizione sia hegeliana che marxiana.

 

5. Concludendo, possiamo quindi dire che La rabbia possiede tre dei tratti fondamentali della tragedia: mostra fatti e personaggi già noti; li accompagna con un coro poetico (la voce fuori campo in versi e in prosa); si carica di un pathos tipicamente tragico, con forti accensioni liriche e emozioni che arrivano fino alla pietà e al compianto. Sui primi due ci siamo già soffermati. Ora riflettiamo su quest'ultimo.

Il sonoro della Rabbia non ha solamente le due voci, una in prosa e in poesia, incarnate dalle voci di Bassani e di Guttuso. Di tanto in tanto si sente anche una terza voce fuori campo: è quella originale del cinegiornale, che nella sceneggiatura Pasolini indica come «voce ufficiale». Nel sonoro del film viene chiamata anche «voce dell'insincerità, voce della menzogna». E fin qui Pasolini non si discosta da ciò che Debord e molti pensatori critici successivi sostennero dei media e della televisione e del loro ruolo falsificante o de-realizzante. Ma a un certo punto del film viene anche indicata come «voce senza pietà». Questa è una notazione che invece non troveremmo negli altri critici della cultura, ed è in effetti il punto più saliente dell’intuizione di Pasolini e delle motivazioni artistiche che lo spingono a ricreare la tragedia, e in particolare il coro tragico, con i mezzi del cinema. I cinegiornali di allora, e i telegiornali di oggi, ci mostrano quotidianamente, in un rapido montaggio, guerre, ingiustizie, delitti, disastri, sofferenze planetarie, fame, violenze sui deboli, sulle donne, sui bambini. E subito dopo inizia la pubblicità. Non c’è nessun coro che ne accompagni il tormento. Ma ricevere tutte queste atrocità senza potersi soffermare su ognuna per comprenderla e compiangerla, senza nessuna elaborazione emotiva, senza che si alzi un coro ad accompagnarne lo strazio – senza nessun corifeo che dica "Edipo, degno di compianto sei", come in Edipo a Colono – è qualcosa di disumano. La televisione non solo manipola la verità, non solo sostituisce alla realtà un'irrealtà, ma, quando ci racconta il mondo nei notiziari, finisce anche per atrofizzare la facoltà del compianto, inducendo a un’accettazione paralizzata del male. I cinegiornali di allora, così come i notiziari televisivi di oggi, sono come una tragedia senza coro.

Quel commento poetico con cui Pasolini ha accompagnato le immagini montate nella Rabbia è stato a volte considerato troppo lirico o troppo enfatico.[16] Non era in effetti il tipo di commento che ci si aspettava da un film di montaggio, in nessuna delle due linee, né in quella del documentario storico né in quella del cinema sperimentale. Ma non appena lo consideriamo come coro tragico, possiamo capirne il senso e apprezzarne l’efficacia. È il corifeo che ci parla, non l’Io lirico moderno.

La differenza tra La rabbia e La société du spectable rivela così anche due formae mentis diverse, quasi opposte.[17] La diagnosi di Debord sul tardo capitalismo non è meno drammatica e allarmante di quella di Pasolini. Entrambi parlano di cambiamenti epocali in atto, che si aprono su di un futuro che si immagina terribile. Eppure è in Debord, non in Pasolini, che emerge chiaramente quella che ho chiamato la forma mentis apocalittica, che attraversa in vari modi gran parte del pensiero critico del secondo Novecento. Si tratta di una forma chiudente, che legge l’evoluzione sociale, anche nel suo andare verso nuove forme terribili di dominio, sotto il segno della necessità storica. Debord, come la grande maggioranza dei critici della cultura novecenteschi, descrive forme di dominio pervasive e totalizzanti a cui niente si può sottrarre. Meccanismi inarrestabili, capaci di riprodursi all’infinito e espandersi senza incontrare resistenze o controspinte: la «società amministrata» (Adorno), la «società dello spettacolo» (Debord), il virtuale che si mangia il reale (Baudrillard). Ognuno indica un dominio privo di incrinature che riesce a neutralizzare ogni antagonismo. Alle loro analisi mancava quindi qualcosa. Mancava il sentimento delle lacerazioni causate da quelle macchine di potere dentro al tessuto della vita. Dalle loro analisi spariscono la sofferenza, le lacerazioni, le lacrime, e quindi anche il conflitto. Anche Debord ci descrive il nuovo potere che domina il mondo, la società dello spettacolo, come un dominio perfetto, che ingloba tutto, persino il vero (divenuto un momento del falso), un potere che non lascia una crepa, una via di fuga, e quindi nessuna possibilità di resistenza. E ce lo annuncia come un’apocalisse inevitabile. Il suo è uno sguardo che capitola sotto l’idea della necessità storico-sociale della macchina di dominio che sta denunciando.

Quella di Pasolini invece è una forma mentis tragica, che non solo si fa canto, e dà voce alla pietà per il dolore degli uomini travolti dai nuovi poteri, ma ci fa anche percepire l’odierno corso della storia come non storicamente necessario. Terribile, certo, ma intollerabile – quindi non necessario. Nel film La rabbia ci sono anche forze che vanno in un’altra direzione, che fanno resistenza, come la bellezza di Marilyn o le guerre di liberazione in Africa: forse destinate a fallire, come tanti altri sogni dell’uomo, ma resta comunque forte per tutto il film anche il momento del sogno e della gioia, anch’essi presi dentro al canto.

Lo si può vedere anche nel finale del film. La rabbia non si chiude sotto il «funebre cappuccio» della bomba atomica, e ancor meno nell’«irrealtà» della vita risucchiata dentro all’«enorme accumulazione di spettacoli» di cui parla Debord. Si riapre invece su un’insolita e toccante sequenza cosmica, che mostra le immagini del primo volo spaziale, avvenuto il 12 Aprile 1961, con il volto di Jury Gagarin che guarda, per la prima volta, la terra dal cosmo.

 Fotogramma de La rabbia Fotogramma de La rabbia

 

Il commento presta la voce all'astronauta russo, che riferisce a Kruscev quello che ha visto, e spiega come da lassù gli uomini gli apparissero tutti fratelli. È un altro allargamento della prospettiva, questa volta da intendersi anche in senso proprio, non solo figurato. Come scrive Pasolini nelle righe finali del Trattamento:

Sembra non esservi soluzione da questa impasse, in cui si agita il mondo della pace e del benessere. Forse solo una svolta imprevista, inimmaginabile... una soluzione che nessun profeta può intuire... una di quelle sorprese che ha la vita quando vuole continuare... Forse il sorriso degli astronauti: quello, forse, è il sorriso della vera speranza, della vera pace. Interrotte, o chiuse, o sanguinanti le vie della terra, ecco che si apre, timidamente, la via del cosmo.[18]

Una svolta imprevista, che riapre, che rilancia.

 

* Testo di una conferenza tenuta al Palazzo delle Esposizioni di Roma il 29 maggio 2014, in concomitanza con la mostra Pasolini e Roma. Un primo nucleo di questo saggio è uscito in Tràgos - Pensiero e poesia nel tragico, a cura di N. Novello, Pasian di Prato, Campanotto Editore, 2014, con il titolo Il corpo tragico della storia. Note su “La rabbia” di Pasolini e “La società dello spettacolo” di Debord.


1 Mondo libero era stato diretto da Gastone Ferranti, che fu anche il produttore della Rabbia. Egli, come è noto, impose a Pasolini un taglio drastico, mentre già stava lavorando al film, per far posto a una seconda parte del film diretta da Giovannino Guareschi. L’idea del produttore era di fare un film bipartisan, secondo lo schema del ‘visto da sinistra e visto da destra’, da lui forse ritenuto di maggiore impatto commerciale. In realtà il film, così combinato, non ebbe alcun successo e fu ritirato dalle sale poche settimane dopo l’uscita. Così La rabbia non ebbe una regolare distribuzione all’epoca. Nel 2008 il regista Giuseppe Bertolucci ha tentato una ricostruzione della parte iniziale del film – quella che fu sacrificata per far posto a Guareschi – seguendo la sceneggiatura di Pasolini e attingendo le immagini dallo stesso repertorio.

2 Un altro esempio italiano è Cavalcata di mezzo secolo di Luciano Emmer, del 1950.

3 Dichiarazione di Pasolini uscita su Paese sera del 14 aprile 1963, ora in P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, pp. 3066-3067.

4 Anche Woody Allen nel suo primo film, What’s Up, Tiger Lily?, del 1966, prese un film di spionaggio giapponese di Senkichi Taniguchi e lo rieditò completamente, con un nuovo sonoro e nuovi dialoghi, con effetto comico.

5 Infatti, negli studi dedicati al cinema di Pasolini, questo aspetto resta spesso in ombra.

6 In una conferenza tenuta a Ginevra il 9 marzo 2013, intitolata Film, essai, poéme. A propòs de La Rabbia de Pier Paolo Pasolini, e visibile in rete (http://head.hesge.ch/cinema/SMS-4-Pier-Paolo-Pasolini-La), Georges Didi-Huberman ha parlato della «rabbia poetica» di Pasolini come di un’insolita unione di poetico e di politico. Ma non fa alcun riferimento alla forma tragica, né al coro dell’antica tragedia, che fondeva in sé, sostanzialmente (e non dialetticamente), queste due anime. E infatti per Didi-Huberman il film La rabbia ha una doppia faccia (la «face politique» e la «face poétique») tra cui si creano attriti e una dialettica interna. Secondo la mia lettura le due facce sono invece una sola. La visione tragica non è internamente divisa, ma sussume anche il politico e lo storico nel suo più ampio orizzonte. (Una sintesi delle idee espresse nella conferenza di Ginevra si trova in G. Didi-Huberman, ‘Rabbia poetica. Nota su Pier Paolo Pasolini’, in A. Mengoni (a cura di), 'Anacronie. La temporalità plurale delle immagini’, Carte Semiotiche, 1, ottobre 2013, pp. 70-79).

7 G. Leopardi, Zibaldone, 21 giugno 1823: «Le massime di giustizia, di virtù, di eroismo, di compassione, d’amor patrio sonavano negli antichi drammi sulle bocche del coro, cioè di una moltitudine indefinita, e spesso innominata [...]. Esse erano espresse in versi lirici, questi si cantavano, ed erano accompagnati dalla musica degl’istrumenti. Tutte queste circostanze, che noi possiamo condannare quanto ci piace come contrarie alla verosimiglianza, come assurde, ecc., quale altra impressione potevano produrre, se non un’impressione vaga e indeterminata, e quindi tutta grande, tutta bella, tutta poetica?».

8 P.P. Pasolini, ‘Sceneggiatura di La rabbia’, in Id., Per il cinema, p. 370. Secondo la sceneggiatura, le immagini dei funerali di Togliatti avrebbero dovuto comparire nella parte iniziale del film, ma furono sacrificate dal taglio imposto dal produttore. Per le citazioni successive, trascrivo invece direttamente il sonoro del film, che Pasolini ha lievemente variato in fase di lavorazione, rispetto alla sceneggiatura originaria.

9 Cfr. oltre nota 17.

10 C’è però chi legge questa sequenza, secondo me erroneamente, come un tributo di Pasolini alla rivoluzione cubana.

11 Corsivi miei.

12 G. Agamben, ‘Il cinema di Guy Debord’, ora in E. Ghezzi, R. Turigliatto (a cura di), Guy Debord (contro) il cinema, Milano, Il Castoro, 2001, p. 104.

13 Cfr. ivi, p. 106: «Non si tratta tanto di una pausa, quanto di una potenza di arresto, che lavora dall'interno l’immagine stessa, la sottrae al contesto narrativo per esporla in quanto tale».

14 Ivi, p. 104.

15 Il diverso esito non può neppure essere fatto dipendere dall’accompagnamento musicale, che qui non analizziamo nel dettaglio, ma che mi pare non differisca molto nei due film. Certamente, l’Adagio di Albinoni nelle sequenze sulla guerra d'Ungheria contribuisce a innalzare le immagini dei cinegiornali, e i rumori di artiglieria e che accompagnano il comizio di De Gaulle hanno un forte effetto straniante, ma analoghi effetti li raggiunge anche il film di Debord, con un commento musicale altrettanto ‘innalzante’ o straniante.

16 Ad esempio il critico letterario Alfonso Berardinelli scrive «Più che un film che si guarda, La rabbia è un film che si ascolta. Spesso il ragionamento si spezza, si perde, e quando l’interpretazione politica gli sembra (gli suona) scontata o azzardata, Pasolini rimedia mettendo in azione il suo elementare, ossessivo, iterativo apparato metaforico e retorico. Pasolini come artista non era tecnicamente all’altezza di se stesso e delle sue visioni» (A. Berardinelli, ‘Se il mondo intero si riassume nella «rabbia» di Pier Paolo Pasolini’, Avvenire, 20 settembre 2008.

17 Ho spiegato con maggior dettaglio la differenza tra visione tragica e visione apocalittica nel libro Disumane lettere, Roma-Bari, Laterza, 2011, in particolare nel secondo capitolo, Storie di conflitto, storie di capitolazione.

18 P.P. Pasolini, Per il cinema, p. 411.