Marilyn, la diva ri-mediata con il «materiale della poesia»

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Il contributo analizza la presenza fugace ma indimenticabile di Marilyn in una sequenza del film di montaggio La rabbia (1963). Pur non trattandosi di un’esperienza di direzione attoriale, l’incontro di Pasolini con la diva più celebre di tutti i tempi suggerisce un modello esemplare di assunzione di volti e corpi dello star system nelle maglie della scrittura del «cinema di poesia», che qui si intende mettere a fuoco guardando sia al fronte della sceneggiatura e dunque dell’immaginario evocato dalla parola scritta, sia a quello del montaggio e della più specifica retorica visiva e cinematografica.

The essay analyzes the fleeting but unforgettable presence of Marilyn in a sequence of the montage-film La rabbia (1963). Although it is not an experience of directing actors, the encounter between Pasolini and the most famous diva of all time suggests an exemplary model of involving the faces and bodies of the star system into the writing of «cinema di poesia», which here is underlined looking both at the front of the screenplay (and therefore of the imagery evoked by the written word), and at that of editing and the more specific visual and cinematographic rhetoric

 

Pur prediligendo nei suoi film un cast formato prevalentemente da attori non professionisti, Pasolini non disdegna di lavorare con i divi e le dive del grande schermo: da Anna Magnani a Orson Welles, da Totò a Silvana Mangano, da Maria Callas a Elsa de’ Giorgi, i volti e i corpi delle star sfilano accanto a quelli dei ragazzi di borgata andando a comporre quel variegato paesaggio antropologico rappresentato dalla filmografia pasoliniana. Al di là della possibile individuazione di diverse fasi che segnano lo stile della direzione attoriale del regista, per lui il lavoro con l’attore – come egli afferma nel corso di un’intervista trasmessa dalla Televisione della Svizzera Italiana il 29 aprile del 1975 mentre sta lavorando a Salò – costituisce sempre la fase della «raccolta di materiale» (Pasolini 2001, p. 3016) grezzo che prenderà forma nel corso del montaggio. È in questa prospettiva che la fugace presenza di Marilyn in una breve ma intensa sequenza de La rabbia, può essere letta, per paradosso, come un esempio particolarmente significativo della poetica attoriale pasoliniana.

L’immagine della diva che Pasolini introduce nelle maglie del suo film di montaggio è in quel momento, a pochi mesi dalla tragica conclusione della sua esistenza, al culmine del processo di iconizzazione: l’operazione seriale di Warhol, infatti, aveva trasformato il volto dell’attrice nell’emblema della mercificazione dei soggetti umani dell’epoca postmoderna, di cui le stelle del cinema rappresentano appunto il simbolo più appariscente («come Marilyn Monroe […] vengono esse stesse mercificate e trasformate nella propria immagine», Jameson 2015). Monroe diviene dunque rapidamente la personificazione di un tempo e del suo destino crepuscolare, ma sono soprattutto il suo carattere eccentrico e la sua improvvisa scomparsa a catturare l’attenzione di scrittori e intellettuali – quali appunto Pasolini – che puntano lo sguardo sulla sua personale e individuale tragica sorte.

L’incontro di Pasolini con il volto e il triste destino di Marilyn si compie attraverso la mediazione di un’altra stella, la diva-antidiva da lui più amata e cioè Laura Betti. I versi dedicati alla dumb-blonde pochi mesi dopo la sua morte vengono scritti infatti per il recital Giro a vuoto n. 3 (messo in scena al Teatro Gerolamo di Milano il 12 novembre 1962), nel corso del quale Betti canta e recita testi di varia provenienza. Il componimento intitolato Marilyn viene eseguito una prima volta nel 1962 con l’accompagnamento musicale di Marcello Panni e poi reinterpretato nel 1995, in occasione del ventennale della morte di Pasolini, con il commento strumentale di Luigi Cinque. In mezzo alle due esecuzioni di Betti si inserisce la fondamentale ripresa del poemetto da parte dell’autore che, con poche varianti (lo spostamento di alcuni versi e soprattutto l’aggiunta di una colonna visiva composta da immagini fotografiche della diva tratte dai rotocalchi), lo inserisce nel commento sonoro de La rabbia.

Pur non trattandosi dunque di un’esperienza di direzione attoriale, la relazione (ri)mediata di Pasolini con la stella più luminosa del firmamento hollywoodiano suggerisce un modello esemplare di assunzione di volti e corpi dello star system nelle maglie della scrittura del suo cinema di poesia, che qui si intende mettere a fuoco guardando sia al fronte della sceneggiatura e dunque dell’immaginario evocato dalla parola scritta, sia a quello del montaggio e della più specifica retorica visiva e cinematografica.

 

1. La stella della leggerezza

Il testo scritto per Betti, indirizzato alla star («tu povera sorellina minore») con un ‘tu’ che punta sulla empatica comprensione del suo iter di ascesa divistica, è costituito da tre gruppi di versi intervallati da un refrain che, con lievi variazioni, rappresenta la dialettica e crudele frizione fra la bellezza ingenua di Marilyn e le leggi del ‘mondo’ dello spettacolo:

 

Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro ai fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,
e si mette addosso le loro sciarpette,
tocca non vista i loro libri, i loro coltellini
 
tu sorellina più piccola,
quella bellezza l’avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.
Sparì, come un pulviscolo d'oro.
 
Il mondo te l’ha insegnata,
così la tua bellezza divenne sua (Pasolini, 2003, p. 1322).

 

Già dalla prima strofa emerge con chiarezza come questo frammento, che troverà posto nel film di montaggio, metta a tema, attraverso la figura della diva, «quella bellezza tragica, mortale e mortifera, che Pasolini non ha mai smesso di interrogare, da Accattone agli incubi sessuali di Salò» (Didi-Huberman, 2021, p. 94). Non si tratta però di «un’allegoria astratta […] e men che meno [di] un melodramma all’americana»; la sparizione di Marilyn incarna invece – come ha notato giustamente Georges Didi-Huberman – «un’antropologia politica del mondo contemporaneo», rispetto al quale la star mostra un ambivalente posizionamento, come «figura anacronistica tesa fra il “mondo antico” e il “mondo futuro”» (ivi, pp. 96-97). La seconda strofa, infatti, insiste sulla collocazione della bellezza dell’attrice fra due universi connotati negativamente (l’uno definito «stupido» e l’altro «feroce»), perché incapaci di accogliere l’innocenza barbarica di una bellezza che non può appartenere a nessuno dei due.

 

Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.
E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci ragazze del tuo mondo...
le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.
Sparì come una colombella d’oro.
 
Il mondo te l’ha insegnata,
e così la tua bellezza non fu più bellezza (Pasolini, 2003, pp. 1322-1323).

 

È in virtù di tale precario equilibrio fra temporalità diverse, in questo essere «una forza del Passato» e «più moderna di ogni moderna» (potremmo dire citando i celebri versi di Una disperata vitalità, che Pasolini fa recitare ad Orson Wells ne La Ricotta), che il poeta riconosce la propria sorellanza con Marilyn. Inoltre, se nelle prime due lasse di versi la contrapposizione fra la diva e i due mondi fra i quali si trova a lottare è rappresentata in modo molto netto, nella terza, che segna l’epilogo della tragica vicenda, attraverso la trama aggettivale Pasolini allude alla inevitabile compromissione di Marilyn: nel suo concedersi allo sguardo del pubblico, nel suo obbediente «sorriso fra le lacrime», con la stupidità e la crudeltà delle due polarità storico-antropologiche entro le quali è possibile leggere il senso della sua scomparsa.

 

Ma tu continuavi a essere bambina,
sciocca come l’antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.
La portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime,
impudica per passività, indecente per obbedienza.
L’obbedienza richiede molte lacrime inghiottite.
Il darsi agli altri,
troppi allegri sguardi, che chiedono la loro pietà.
Sparì come una bianca ombra d’oro.
 
La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne un male (ibidem).

 

Nella strofa conclusiva Pasolini guarda allo scenario post-mortem dell’attrice e vede in lei l’incarnazione di tutta un’epoca e del suo tramonto, quasi che l’intenso e drammatico percorso della star ne preannunci l’apocalittico destino di dissoluzione:

 
Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: «È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?»
Ora sei tu, la prima, tu sorella più piccola,
quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte (ibidem).

 

Pasolini dà dunque il suo addio alla diva sulla soglia di un tempo di là da venire, immaginandola come «figura (laica) della Nuova storia» (Bazzocchi, 2021, p. 156), dialogando con il suo fantasma sul confine estremo dell’altro mondo, intuendo con empatica commozione quel grumo di infelicità irriducibile che traspare dietro le quinte del successo e della fama, e che si rivela essere il prezzo da pagare alla grande macchina dello spettacolo.

In questo denso requiem in versi Pasolini rappresenta inoltre l’attrice nella sua seducente corporeità, mista ad una leggerezza che appare misteriosamente incoerente rispetto alla pesantezza di una morte tanto improvvisa e crudele. La sua immagine è tutta scolpita da lemmi che, attraverso l’insistenza di diminutivi e vezzeggiativi, offrono un ritratto segnato dalla fragilità, dalla piccolezza. In più, nei versi di chiusura di ciascuna strofa, vengono evocate figure evanescenti per raccontare il mistero della scomparsa dell’attrice. Il «pulviscolo», la «colombella», l’«ombra» sono tutte metafore brillanti e luminose come l’oro; pur trasfigurate dagli accenti della poesia, tutte colgono il significato profondo e la natura fantasmatica della star persona nonché il valore illusorio della luce dell’universo divistico rispetto al quale, nella contrapposizione netta fra lo splendore del successo, l’inquieta esistenza e la tragica fine, Marilyn rimane l’icona più rappresentativa. Il ritratto en poete della Marilyn pasoliniana contribuisce a definire i toni e i confini della costellazione di tropi della leggerezza attraverso i quali molti scrittori hanno ritratto l’eccentricità della diva: si pensi all’inafferabilità del volo del colibrì ricamata da Capote, o ancora alle sfuggenti immagini della libellula di Parise o della farfalla di Tabucchi.

 

2. La poesia del montaggio

La ri-mediazione cinematografica del poemetto, operata nel commento per La Rabbia, approfondisce e avvalora quanto già contenuto nei versi regalati a Betti. L’apparizione del primo piano di Marilyn [fig. 1] fra le sequenze che compongono il decoupage del film del 1963, oltre a raffigurare uno dei momenti più alti della mitologia poetica della venere bionda, si offre come l’esempio più rappresentativo del dialettico embodiment di eccentricità ed esemplarità che rappresenta per Pasolini il modello divistico dell’attrice. Il mediometraggio è realizzato a partire dal collage di frammenti del cinegiornale Mondo Libero, cuciti insieme attraverso una sapiente e originalissima operazione di risemantizzazione messa in atto in moviola, ed è scandito da un testo scritto per l’occasione, metà in prosa e metà in versi, affidato a due speaker d’eccezione del calibro di Renato Guttuso (che recita la «voce della prosa») e Giorgio Bassani (che presta il proprio accento a quella della poesia). Per Pasolini si tratta soprattutto di un esperimento orientato verso l’estrema valorizzazione dell’operazione del montaggio e che offre, altresì, la possibilità di una resa artistica del materiale grezzo su cui lavora, anche grazie alla colonna sonora costituita dal commento della voice over. L’autore stesso considera il film come una prova della sua personale ricerca formale e ritiene la breve sequenza dedicata all’attrice la parte più riuscita di tale sperimentazione. Come dichiara in un’intervista rilasciata a Maurizio Liverani e pubblicata su Paese sera il 14 aprile 1963:

 

Attratto da queste immagini ho pensato di farne un film, a patto di poterlo commentare con dei versi. La mia ambizione è stata quella di inventare un nuovo genere cinematografico. Fare un saggio ideologico e poetico con delle sequenze nuove. E mi sembra di esserci riuscito soprattutto nell’episodio di Marilyn. Ho lavorato per settimane e mesi: è stato un lavoro massacrante perché la moviola è già di per sé un lavoro terribile (Pasolini, 2001, p. 3067).

 

I quattro minuti dedicati alla diva sono composti dal montaggio di fotografie tratte dai rotocalchi, che si ripropongono a volte in sincrono con le ripetizioni di versi, creando una fitta trama iconotestuale tenuta insieme da echi, corrispondenze e «rime iconiche» (Bazzocchi, 2021, p. 155). La destinazione orale del componimento poetico (in entrambe le versioni) spiega, in parte, le caratteristiche della struttura sintattica e metrica. La ripetizione degli stessi moduli lessicali, entro cui si innesta una modificazione modulata dai lemmi aggettivali, risalta in vario modo nelle performances vocali di Betti e di Giorgio Bassani (lo speaker ingaggiato insieme a Renato Guttuso per l’interpretazione della voice over del film), contribuendo a far emergere le polarità all’interno delle quali è situato il ritratto di Marilyn e l’interpretazione della sua «starità» (Morin, 1995, p. 54).

Le inquadrature del volto e del corpo di Marilyn si alternano allo scorrere di immagini che raffigurano una processione religiosa, inquietanti manichini disarticolati, un incendio colossale e alcune apparizioni di Clarke Gable con una statuetta in mano, accostate analogicamente attraverso il commento musicale dell’adagio in sol maggiore di Albinoni e la mediazione di un commento tutto costruito su un Leitmotiv che ritorna nella matrice audio-visiva, ossessivamente, con lievi variazioni, sulla bellezza fragile e mortale dell’attrice.

I ritratti di Norma Jeane bambina e ragazzina [figg. 2-4] aprono e chiudono la sequenza e si alternano a quelli di Marilyn ormai divenuta una celebrità. Le foto che rappresentano l’immagine pubblica della diva sembrano tutte accomunate dal sorriso obbediente cui allude il testo [fig. 5]. Pasolini pare insistere sull’esibizione del corpo consegnato agli sguardi impietosi del pubblico dei fan cui si riferiscono altri scatti, muovendo la mdp sulla superficie della pagina del rotocalco, mettendo a fuoco i dettagli della ingenua offerta della nudità da parte dell’attrice, indugiando per esempio sui suoi «piccoli seni di sorellina», sul suo «ventre così facilmente nudo» [fig. 6]. Nei tre momenti in cui vengono pronunciati i versi che richiamano l’improvvisa scomparsa della star («Sparì come un pulviscolo d’oro», «Sparì come una colombella d’oro», «Sparì come una bianca colomba d’oro») l’obiettivo sembra accarezzare il corpo di Marilyn, che indossa un candido vestito ornato di piume, distesa sul sofà, nel ritratto realizzato da Richard Avedon nel 1957 [figg. 7-8]. Il biancore che si aggiunge all’oro nella versione del commento sembra proprio un’emanazione della foto. La scelta, l’accostamento e il lavoro compiuto da Pasolini nell’assemblaggio delle fotografie, oltre a creare un supporto visivo e a suggerire le fonti delle tessere che compongono l’immaginario mediatico entro cui ha preso vita e ha trovato la morte la star persona di Marilyn nell’interpretazione consegnata ai versi per Betti, possono essere considerate come un pattern estremamente rappresentativo dell’operazione di risemantizzazione che il regista ha attuato ogni qual volta ha scelto di accostarsi ai volti e ai corpi di attori e attrici ormai celebri. Quello che Pasolini scrive a Maria Callas nel 1969, in una lettera composta durante la lavorazione di Medea, vale come dichiarazione della poetica attoriale sperimentata in passato, che probabilmente nel collage delle immagini di Marilyn realizzato per La rabbia ha già trovato il suo esempio paradigmatico.

 
Cara Maria,
stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un’angoscia leggera leggera, non più che un’ombra, eppure invincibile. […] Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata “adoperata” (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch’io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare. Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più “intera” ancora. Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia.
È appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so. Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l’intera, intatta luminosità. […] (Pasolini, 2021, p. 1383).

 

L’operazione compiuta ‘per ordinare’ la sequenza di Marilyn appare allora come una sorta di mise en abyme inconsapevole del metodo pasoliniano nella direzione di attori e attrici: le foto utilizzate per il montaggio de La rabbia riproducono il processo tipico dello star system, che “adopera” persone che si lasciano “adoperare”, ma lo riscrive e risemantizza in funzione della propria intenzione espressiva. I frammenti di Marilyn sui quali Pasolini lavora non sono il frutto del suo shooting, teso a neutralizzare e a decostruire le abilità performative degli attori (come nel caso di Anna Magnani, di Totò o altri celebri interpreti), ma appaiono i residui di un cannibalico processo messo in atto dalla società dello spettacolo. Eppure le «mille schegge» raccolte dal suo sguardo poetico colgono un attimo decisivo del «fulgore» della diva e ci restituiscono, anche se condensata in pochi minuti, l’«intatta luminosità» della sua icona.

 

Bibliografia

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