3.2. La marionetta intermediale. Pinocchio e Il Casanova di Federico Fellini

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 Nel film di Fellini dedicato a Casanova convivono varie forme di intermedialità, e una pista molto precisa porta a Le avventure di Pinocchio di Collodi. Siamo inizialmente dalle parti di un’intermedialità che chiameremo ‘ristretta’, che apre differenti piste intertestuali e interdiscorsive a partire dalla sceneggiatura (almeno quella scritta da Fellini con Zapponi) fino a giungere al film. Il Casanova di Federico Fellini (1976) sottolinea fin dal titolo una lettura singolare e tendenziosa dei Mémoires di Giacomo Casanova, con i titoli di testa che danno una prima lista di indizi intertestuali, indicando i ‘testi d’autore’ che appaiono nel film. Vi troviamo: stralci dai versi di Andrea Zanzotto per le poesie in veneto e le melodie cantate dalla donna gigante (da Filò); stralci dai versi di Tonino Guerra per ‘La grande Mouna’ (da Cantèda Vintiquàtar); una pièce di Antonio Amurri, La mantide religiosa, interpretata nel film da Daniel Emilfork; una cantata di Carl A. Walken, Il cacciatore di Württemberg; la musica di Nino Rota; infine i disegni di Roland Topor, di cui parleremo.

Come già in sceneggiatura, il film cita direttamente le Rime di Tasso e Il Canzoniere di Petrarca, l’Orlando furioso di Ariosto, ma apre continue allusioni e rimandi a Dante, e soprattutto a Le avventure di Pinocchio. Rispetto alla pista dantesca ricordiamo soltanto, con Brunetta, che «tutta l'opera di Fellini, da quella di sceneggiatore fino agli ultimi progetti non realizzati, si sviluppa sotto il segno di Dante e della Divina Commedia» (Brunetta, 1996, p. 21). Il Giacomo Casanova raccontato da Fellini in effetti entra ed esce da paradisi e inferni, non solo dei poveri ma anche dei ricchi: non è però un Pierrot lunare come in altri film di Fellini, ma un vitalista e un edonista, che ama la bellezza soprattutto femminile (come è noto, in una scena poi censurata del film, ha anche un’avventura omosessuale). Casanova di Fellini è un truffatore e un libertino, che però tiene alla benevolenza papale; un letterato fattosi dal nulla, senza censo né denaro, che cerca occasioni e protettori in un ruolo sociale diventato via via sempre più marginale e umiliante. Sulla stretta relazione tra Casanova e Pinocchio ritorna con insistenza lo stesso Fellini, che definisce il film «la storia di un uomo che non è mai nato, le avventure di uno zombi, una funebre marionetta senza idee personali, sentimenti, punti di vista; un ‘italiano’ imprigionato nel ventre della madre [preso] a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto» (Fellini, 1980, p. 176).

Casanova è per Fellini un personaggio dotato di una ‘vitalità da cavallo’, quasi una marionetta del sesso, che non riesce a diventare adulto (o a umanizzarsi) e anzi, nel finale, si congelerà proprio in una statuina da carillon, una marionetta danzante. Eccoci così a Pinocchio, le cui avventure entrano nel film come sottotesto in molti modi e, in primis, per il trucco imposto a Donald Sutherland, come esplicita la nota di Fellini messa a margine di un suo famoso disegno: «N.B. Dovrebbe ricordare anche Pinocchio a tratti» [fig. 1].

In secondo luogo, chiaramente, Casanova è vicino a Pinocchio per la scena dell’entrata (volontaria) nella balena, situazione da cui tra l’altro Casanova esce pacificato, ma non trasformato come accade a Pinocchio e al suo illustre predecessore Giona. Secondo Paolo Fabbri, che ha più volte sottolineato il parallelismo tra Casanova e Pinocchio, potremmo allargare lo sguardo, consapevoli che in Fellini «il Pescecane diventa una Balena: come recita l’imbonitore: “Il ventre è ancora caldo! Una balena femmina! E anche il mare è femmina!”» (Fabbri, 2011, p. 93). Si tratterebbe così di (Ibidem):

(1) riconoscere il Gatto e la Volpe nelle due prostitute londinesi che spogliano Casanova di ogni suo avere e lo conducono quasi alla morte;
(2) ritrovare nel film l’incontro orgiastico con gli attori veneziani nel teatro di Dresda e confrontarlo con la festa di Pinocchio con i burattini nel loro Gran Teatro, i quali corsero tutti sul palcoscenico e accesi i lumi e i lampadari, come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare: «Era l’alba e ballavano sempre».
E infine (3) capire lo straordinario valzer con la bambola come uno sdoppiamento comparabile a quello dell’ultima scena delle Avventure di Collodi: un uomo e il suo burattino il quale per Fellini, è, ancora una volta, una donna.

Ma nel film di Fellini troviamo anche un’intermedialità più ‘espansa’, da intendersi come un «crogiolo di media e tecnologie» (Mariniello, 2008, p. 22), cioè come dispositivo culturale da cui emerge il cinema. Di questo crogiolo vive la scena della ‘grande Mouna’ in Il Casanova di Federico Fellini: il nostro eroe vaga all’esterno e poi all’interno del ventre della grande balena da baraccone, in uno spazio in cui si mescolano elementi del circo cari a Fellini (clowns, imbonitori, saltimbanchi), ma anche disegni e illustrazioni, pittura, citazioni letterarie e, storicamente ineccepibile, una ‘lanterna magica’. Troviamo dapprima, nella sequenza del film, un maldestro tentativo di suicidio di Casanova, cui segue l’incontro con i teatranti e i circensi e l’ingresso nel ventre della grande Mouna. La sequenza si apre con un momento di massima invisibilità: un offuscamento dovuto alla nebbia. Come accadeva al vecchio nonno di Amarcord, quando si perde di fronte a casa sua, la nebbia qui è portatrice di presagi di morte e di paure, ma è anche come un foglio bianco da scrivere o una tela da dipingere. In questo caso, in effetti, sottolinea i versi del Tasso recitati da Giacomo Casanova, lugubre e magnifico col suo vestito nero dal panciotto dorato, mentre entra nell’acqua del fiume per farla finita. Ma subito ci ripensa. Nel turbinio d’acqua grigia, sullo sfondo del biancore nebbioso, ecco un’apparizione sull’altra riva: una gigantessa – incappucciata come Virgilio – accompagnata da due nani sghignazzanti. Nel momento tragico, recitato a voce alta e compiaciuta da Casanova, che sta pur sempre mettendo in scena la sua dipartita, è la letteratura a fornire una via di fuga con il topos della purificazione e dell’attraversamento dell’acqua, nella ripresa del ‘passaggio iniziatico’ della Divina commedia dal Purgatorio al Paradiso (Manganaro, 2009, p. 301).

Casanova giungerà, nella sequenza successiva, a una momentanea quiete dovuta anche alla lingua materna della gigantessa (il dialetto veneto), e alla sua seduzione invincibile (temuta e desiderata), così rassicurante da trasformarlo in appassionato voyer, dato che lui si accontenterà di sbirciare da un foro nel tendone il corpo nudo di una madre mitologica. Per arrivarci, però, dovrà entrare nel ventre della balena, o «nell’utero-vagina» della grande Mouna (Ibidem), origine del mondo nonché di se stessa, secondo la poesia di Tonino Guerra declamata dall’imbonitore all’ingresso.

Poco prima, perso nella nebbia, appena uscito dall’acqua, a guidarlo verso «il ventre ancora caldo» di una «balena femmina», «il Leviatano di Giona» (come recita l’imbonitore), ecco dei quadri dipinti su grandi cartoni [fig. 2], poi una contorsionista che richiama in forma spettacolare le torsioni del primo incontro sessuale cui abbiamo assistito nel film (tra una monaca e Casanova), ma che appare anche come una terrifica dea Kali dalle molte braccia e gambe. Poi ecco un enorme volto di donna dai capelli turchini sul ventre di un omone tatuato, che lo muove con pigrizia per la gioia di qualche ragazzino, come un Mangiafuoco annoiato [fig. 3]. Da un lato della balena c’è una vorticosa altalena di ridenti puttanone, un richiamo all’altalena di Giulietta degli spiriti (1965), ma anche l’effige di una possibile divinità egizia, che s’intravede sul palo dell’altalena. Poi all’improvviso appare una donna che ci guarda irrispettosa, quasi a sfidarci: ha sulla testa un’enorme maschera di ibis (uccello del Nilo che rappresenta Thot, la divinità egizia della luna e della magia, nonché della misura del tempo). Lo sparuto gruppo di clown e saltimbanchi sta tutto attorno alla grande balena immobile nella nebbia, che ci fissa a sua volta col suo occhio terrifico.

C’è insomma un’atmosfera tra il magico e il misterico, quasi un rito pagano di iniziazione o di passaggio. E vi troviamo perfino una trasfigurazione di Geppetto, secondo le spiegazioni che Fellini dà a Zapponi in visita sul set: accanto alla balena, infatti, una donna accucciata mescola, sceglie e mangia qualcosa da un bacile. Fellini sfida il suo amico: «Quei pesci sono un omaggio a Geppetto… Ti ricordi? Li mangiava vivi…»; gli risponde Zapponi: «…ma tanto vivi che gli scappavano di bocca» (Zapponi, 1995, pp. 96-97). Siamo in un universo narrativo e tematico (lo storyworld, si direbbe oggi) sempre molto caro a Fellini, tra fantasmagoria e sogni di infanzia, ma anche in «un mondo sotterraneo e parallelo che vive nella messa in scena di un irreale fatto di pittura e di pura arte» (Manganaro, 2009, p. 301).

Anche Casanova lentamente sorride, e guarda in macchina come ad accettare la sfida. All’interno della balena, troviamo in azione una lanterna magica, con la proiezione di disegni eseguiti per il film da Roland Topor (il quale, nel 1972, aveva illustrato proprio un’edizione di Pinocchio), che rappresentano donne mostruose e vagine come luoghi del riposo o della perdizione, o come vortici e fauci dentate, dall’aspetto diabolico. Segue l’incontro di Casanova con il saggio Edgar, fumatore di oppio, che cita un antico poema cinese sull’annullamento del sé: quasi una nuova variazione sull’incontro tra Pinocchio e Geppetto nel ventre della balena.

Torniamo però un attimo sui nostri passi. I quadri su cartone che all’inizio della scena guidano il nostro eroe verso la performance circense, cosa rappresentano? Sono perlopiù figure tratte da Le avventure di Pinocchio col burattino con le orecchie d’asino o che si brucia i piedi, ma c’è anche un gatto fantastico che ricorda Alice nel paese delle meraviglie. Ricordiamo che quello di Collodi sarebbe, per la precisione, «un Pesce-cane, grosso come una montagna», un «mostro marino» con tre filari di zanne che «avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte» (Le avventure di Pinocchio, cap. XXIV e cap. XXXIV). Invece, nel film di Fellini, si tratta piuttosto della balena di casa Disney, vendicativa e violenta come Moby Dick. Il totale con cui intravvediamo nella nebbia il profilo della balena, e l’insistenza sul suo occhio aperto che ci guarda, accanto all’imbonitore, richiamano infatti molto da vicino l’apparizione della balena nel Pinocchio a cartoni animati del 1940, quando aspetta nel fondo marino e spalanca improvvisamente un occhio, facendo fuggire banchi di pesci [figg. 4-7].

Sembrano tutti indicatori di una possibile trasformazione, di una morte simbolica. Ma Casanova non sa cambiare. Il personaggio tratteggiato da Fellini è troppo vanesio e superficiale per non proseguire nelle sue avventure, anche se il saggio Edgar lo mette in guardia, dicendogli: «i tuoi viaggi attraverso il corpo delle donne dove ti portano? In nessun luogo».

A ben vedere, i disegni di Topor che vengono proiettati dalla lanterna magica, per quanto eloquenti e terrifici rispetto al mistero e alla paura maschile della sessualità femminile, infida e pericolosa, peccaminosa e quindi diabolica, tra testa di Medusa, vortice marino ecc. [fig. 8], non vanno nella direzione del personaggio che Fellini sta tratteggiando, né del Casanova studiato da chi, come Stefan Zweig, distingue chiaramente tra la figura di Don Giovanni (immortalata da Mozart), che usa le sue conquiste per manipolarle, sedurle e abbandonarle, con un rapporto in fondo sadico e distruttivo, e quella di Casanova, amato invece dalle donne perché le ama a sua volta e le valorizza e, diciamo, le rispetta (certo è anche un puttaniere, e stando alle sue memorie e ai suoi biografi è perfino incestuoso, è un baro, un ladro, ma questo è un altro discorso…). Forse per questo Casanova, una volta entrato nel ventre della balena, ne esce disgustato.

Ricordiamo che anche nella sceneggiatura trovava posto una lanterna magica, ma i disegni proiettati erano più vicini alle donnone di Fellini che ai tratti diabolici di Topor:

Scena 38. Baracconi e balena. Esterno-interno notte.
Casanova è entrato dentro la balena, ed assiste ad una serie di proiezioni d’una lanterna magica posta all’interno. Sono immagini bizzarre e mostruose di donne deformi, dall’aspetto mitico, sempre fornite però di vistosi richiami sessuali: cosce possenti, natiche enormi, seno vistoso. Casanova scuote la testa inorridito, ed esce (Fellini e Zapponi 1976, p. 71).

Bondanella cita un testo di Zapponi (una traduzione inglese parziale: Fellini’s Casanova, New York, Dell, 1977; non corrispondente all’originale), in cui si trova una versione precedente della sceneggiatura rispetto a quella pubblicata da Einaudi nel 1976 (e modificata nel corso delle riprese o in fase di montaggio). L’ingresso di Casanova nella balena è raccontato in questo modo:

Alla fine Casanova è ritornato nel ventre – dice una voce. Chi è stato? Casanova si volta. Non c’è nessuno (La voce era quella di Fellini).
Lo spettacolo che ha luogo nella balena-teatro è intrigante, anche se un po’ sconvolgente. Una lanterna magica proietta immagini di mostri femminili su uno schermo. Ci sono vagine dentate, corpi deformi, e tutte le altre caratteristiche di un tipico spettacolo settecentesco di summa monstruorum
Giacomo osserva affascinato quegli esseri deformi. Non è così poi, in fondo, che sono fatte le donne? Non è forse questa la femminilità archetipica dalla quale lui, l’eterno adolescente, è attratto inconsciamente? Oppure è qualcosa da cui fuggire – la terribile Vagina Dentata della leggenda? (Bondanella, 1992, p. 330. Ricordiamo che c’è almeno un’altra stesura della sceneggiatura, voluta dai produttori americani, scritta con Gore Vidal, come insegna Kezich 2007).

Dal racconto di Zapponi si capisce come Fellini avesse previsto una serie di interventi in prima persona nel film che poi verranno esclusi. Per Bondanella, le figure della ‘vagina dentata’ e della gigantessa e lottatrice rimarcano il tema dell’ambivalenza rispetto alla donna, tra aspetto materno e lato spaventoso, dominatore, determinando così ‘l’ansia da castrazione’ di Casanova. Per quanto estranea alla nostra analisi, va detto che è lo stesso Fellini ad avvalorare l’interpretazione psicoanalitica del film, spiegando a Zapponi che in fondo Casanova non si è mai liberato dal peso della madre, e anzi inserendo nel film una scena in cui egli la porta, letteralmente, sulle spalle. Nella sceneggiatura di Fellini e Zapponi, tuttavia, Casanova riusciva nel suo intento iniziale e faceva l’amore con la gigantessa.

Ecco, per concludere, cosa vorremmo sottolineare: la scena che introduce all’ingresso nel ventre della balena, e all’incontro con le visioni della lanterna magica, è la messa in scena di un dispositivo culturale intermediale, che prelude al cinema. Certo, almeno un secolo prima, ma anche raccontando il Settecento Fellini non si discosta dalle sue passioni, che sono anche le sue marche stilistiche. Continua cioè a raccontare quello che lo affascina del cinema, come l’ingresso in una caverna platonica, l’attesa al buio, la proiezione luminosa, la folla, i turbamenti erotici creati dalle immagini. Se la scena del ventre della balena ci parla di un dispositivo intermediale pre-cinematografico, il cinema come luogo deputato dell’immaginario erotico era già stato reso da Fellini in modo diretto ed esplicito nel suo Amarcord (1973), quando una fila di ragazzini seduti di fronte al grande schermo si masturbava sotto un grande lenzuolo, guardando le dive hollywoodiane.

Parlare di intermedialità espansa, in Il Casanova di Federico Fellini, ragionare sulle affinità con Le avventure di Pinocchio, vuol dire anche poter andare oltre l’intertestualità e l’interrelazione tra le arti per riflettere sulla nozione di medium, sull’esperienza mediale e sull’evento della mediazione.

 

Bibliografia

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