Mi pare significativo che Repubblica, per introdurre il nuovo libro di Roberto Saviano, La paranza dei bambini, abbia parlato di «un romanzo vero, un romanzo-romanzo: con tanto di invenzione e fantasia». Quasi una forma di riconoscimento, indiretta e retrospettiva, della difficoltà a considerare Gomorra un romanzo vero e proprio, anche se molti – vedere per credere la pagina di Wikipedia – a suo tempo lo giudicarono e definirono tale. Per capire il senso di quello che nel frattempo è diventato l’universo mediatico di Gomorra, credo allora sia opportuno partire da qui, da questa domanda: qual è l’identità del libro di Saviano? A quale genere appartiene?
Fosse stato scritto negli Stati Uniti, cadrebbe nella categoria del new journalism, col quale condivide il tratto fortemente soggettivo dell’inchiesta giornalistica: il reporter non espone i fatti, al contrario li metabolizza in chiave narrativa per renderli appassionanti e, a dispetto della loro comprovata evidenza, vagamente improbabili [fig. 1]. In Gomorra la soggettività di Saviano trapela soprattutto dalla scelta di dare ai suoi reportage un tono elegiaco, di rimpianto, che corre sotto traccia lungo tutto il libro. Una vena dolente attraversa i capitoli, quasi che l’autore si rammaricasse costantemente, pur senza mai dichiararlo esplicitamente, del triste destino toccato in sorte alla sua terra. Sullo sfondo dei delitti e dei misfatti, dei crimini e degli scempi edilizi, è tangibile l’amarezza per lo sfacelo cui è andato incontro un luogo che avrebbe potuto conoscere un destino diverso («È strano come con chiunque parli, qualunque sia l’argomento, appena dici che stai per andartene via ricevi auguri, complimenti e giudizi entusiasti. “È così che si fa. Fai benissimo, lo farei anch’io”. Non devi aggiungere dettagli, specificare cosa andrai a fare. Qualunque sia il motivo, sarà migliore di quelli che troverai per continuare a vivere in queste zone»).