2.3. L’eccezione Gomorra

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1. Ciò che maggiormente colpisce, ripensando al fenomeno Gomorra nelle sue varie incarnazioni, è quanto l’esito forse artisticamente più alto della ‘filiera’, il film di Matteo Garrone, sia stato alla fine quello con meno conseguenze sull’industria culturale e sull’opinione pubblica. Anzi, già il successo del film aveva preso alla sprovvista gli stessi produttori, che non si aspettavano un incasso così trionfale: 10 milioni di euro, decimo posto dei film più visti nella stagione. Da allora, nessun film italiano che non fosse una commedia ha raggiunto quelle cifre.

Colpisce soprattutto la difficoltà che la critica, italiana e straniera, ha avuto a collocare il film. Per lo più, si è insistito molto sul realismo di fondo, arrivando a parlare di ‘neo-neorealismo’, trascurando il lavoro svolto da Garrone sulla messinscena, e il suo peculiare metodo. La novità del film stava infatti anzitutto nel rifiuto della tradizione del cinema politico e di denuncia italiano, di ogni didascalismo come del frequente i metodi del poliziesco o dell'indagine ai problemi sociali.

Il successo del film si è poi proiettato sull’intera opera del regista, fino a costituire un equivoco critico. Garrone è diventato ‘il regista di Gomorra’¸ il narratore realista di un mondo degradato. L’equivoco si è proiettato sul film successivo, Reality, che dunque (pur essendo forse il capolavoro dell’autore, intreccio di allegoria e fiaba incarnato in luoghi iperrealisti) è stato ascritto a un grottesco di fondo: il critico di un quotidiano descrisse addirittura la scena iniziale come «un matrimonio di camorristi». Invece, a leggere nell'insieme la sua opera, è proprio lo sfondo sociale così determinato a costituire un’eccezione nell’opera del regista. Il quale, dopo le prime prove costituite da una narrazione più aperta, tentata dalla commedia, ha strutturato sempre più il proprio cinema a partire da un conflitto tra il copione e la regia, facendosi cantore di ossessioni radicate in un set forte, in cui echeggia la sua formazione di pittore. L’imbalsamatore, Primo amore, Reality, Il racconto dei racconti sono altrettante fiabe italiane, tendenti al gotico con qualche accenno di grottesco, e insieme costituiscono, senza alcun affondo sociologico, una forma mediata di antropologia di un paese e di una interazione tra set e personaggi del tutto peculiare, più prossima al cinema sperimentale che all’uso corrente dei luoghi nel cinema italiano e non solo.

2. Già la celebre scena iniziale di Gomorra (dovuta anche al contributo dell'aiuto regista Gian Luigi Toccafondo, pittore),[1] più che un attacco a effetto, è un passo verso l’astrazione, una messa in crisi della visione realistica, con i suoi blu da fantascienza [fig. 1]. Le parti successive catapultano lo spettatore in una realtà quotidiana, che non è quella di sparatorie e scene d’azione, ma del funzionamento economico di un sistema visto dal basso, e di un luogo come le Vele di Scampia. Dall’astrazione scioccante e iperrealista si passa a una visione quotidiana che scavalca ogni modello televisivo ma dal basso anziché dall'alto, arrivando all’astrazione per un sovrappiù di prossimità, di promiscuità anzi con ciò che viene narrato. Il set non è un fondale, ma qualcosa di inestricabile dalle vicende narrate, qualcosa che gli spettatori sentono di abitare con angoscia, e in cui vige quella «totale identificazione del personaggio con l’ambiente in cui vive»[2] tipica del cinema di Garrone.

Il nemico del film è insomma la spettacolarità, il sensazionalismo televisivo ma anche quello del ‘genere’ (su cui invece lavorerà esplicitamente la serie televisiva). Il film crea una tensione stando addosso ai personaggi con la camera a mano, o tenendosi lontanissimo, ma mai a quella distanza ‘media’ che costituisce il fondamento di una narrazione legata meramente ai meccanismi della suspense. Privo di musica[3], costruito in un sofisticato equilibrio narrativo, ritmico e luministico, Gomorra è uno dei grandi film italiani del decennio, dei più complessi ma anche dei più difficili da analizzare, proprio perché l’urgenza del tema, che non ha accecato lo sguardo del regista, rischia invece di fare da velo a quello degli spettatori e dei critici.

Dietro questa operazione, non lo si sottolineerà mai abbastanza, c’è una precisa visione del regista come autore collettivo, e della pratica registica come continuo aggiustamento in corso d’opera, laboratorio. Pierpaolo De Sanctis cita al riguardo la frase di Sklovskij sull’autore come «semplice punto geometrico di intersezione di linee, di forze generate al di fuori di lui».[4] Del metodo-Garrone fanno parte la lunga ambientazione nei luoghi (i 10 mesi trascorsi a Vicenza per Primo amore, l’immersione nelle zone di Gomorra) e la creazione di una équipe che proprio in Gomorra trova il punto di massima articolazione. Oltre a Saviano, in fase di sceneggiatura al collaboratore abituale Massimo Gaudioso e Gianni Di Gregorio, e a Ugo Chiti, si aggiungono Maurizio Braucci, figura fondamentale per la comprensione delle dinamiche profonde di quei luoghi, il citato Toccafondo come aiuto-regista, e i collaboratori abituali Marco Spoletini (montaggio), Marco Onorato (fotografia), più Maricetta Lombardo (suono) e Paolo Bonfini (scenografie) arrivati con il passaggio alla Fandango all’epoca de L'imbalsamatore.

A monte di questo doppio movimento rosselliniano e ‘impressionista’ c’è, a complicare il quadro, una strutturazione narrativa estremamente complessa, ottenuta in parte in fase di sceneggiatura e in parte in fase di montaggio. Francesco Crispino[5] ha analizzato l'intrecciarsi delle vicende (in 27 sintagmi narrativi) distinguendo la maniera in cui sono collegati attraverso vari tipi di montaggio, e le differenze stilistiche all’interno di ciascuno di essi: dall’episodio del sarto Pasquale, quello in cui piano-sequenza e macchina a mano sono più utilizzati, a quello degli smaltitori di rifiuti, in cui l’immersione/adesione del regista è minore e dunque la macchina da presa è spesso fissa e il montaggio interno più classico.

3. Inizialmente, il film Gomorra era stato pensato come sei episodi per la televisione,[6] per poter contenere la serie di storie che nel film vengono mostrare in parallelo. In quel caso si sarebbe trattato di episodi autoconclusi, mini-film accomunati dall’ambientazione. Gomorra - La serie, invece, segue le regole della serialità con personaggi raccontati di puntata in puntata, anche se con equilibri mutevoli all’intero dei loro rapporti, morti, nuove entrate in scena ecc.

Alle spalle c’è la consapevolezza di lavorare all’interno di un genere, il mafia movie, specie nella sua variante tragica, elisabettiana (Il padrino) o ‘greca’, come più di recente avevano fatto Fratelli di Abel Ferrara o Luna rossa di Antonio Capuano (forse il modello più diretto, per quanto poco citato, della serie). Gli antecedenti diretti nel mondo delle serie sono evidentemente il capostipite I Sopranos, e il più prossimo Romanzo criminale. La direzione è quella del gangster movie più classico, con una saga familiare che intreccia le vicende di più clan, muovendosi quasi esclusivamente all’interno delle loro dinamiche (con qualche puntata negli addentellati politici ed economici, come nel V episodio della prima serie, ambientato a Milano diretto da Francesca Comencini, che sembra quasi uno spin-off del suo A casa nostra). La direzione è esattamente opposta a quella del film: personaggi tratteggiati in maniera riconoscibile secondo le logiche del genere, colpi di scena, uso ‘energetico’ della musica, set come fondale che potenzia l’azione. (Anche il dialetto è assai meno aspro di quello del film, più addolcito e comunicativo). E, inevitabilmente, il rischio sempre connesso al film di gangster di appassionarsi alle vicende dei protagonisti come eroi. In Gomorra - film, ricordiamolo, uno degli elementi di maggiore originalità e rischio era proprio di essersi concentrati non sui camorristi ma sulla ‘zona grigia’ [fig. 2], sull’indotto per così dire, mostrando il quotidiano anti-eroico di una piccola borghesia e di un nuovo proletariato normali, ma inseriti in un contesto criminale che appariva tanto più pervasivo perché quasi invisibile (i veri boss non si vedevano mai).[7] In fondo, si è opinato, i suoi personaggi potrebbero anche diventare quel che Tony Montana di Scarface di De Palma era per i ragazzi del Gomorra di Garrone [figg. 3-4].[8]

Come ricorda lo sceneggiatore Gaudioso: «Matteo parte subito dal dirti tutto quello che non gli piace. E allora noi sceneggiatori ci arrovelliamo per cercare qualcos’altro, qualcosa di inaspettato, di sorprendente».[9] Tra le strade che il regista sceglie di non battere c’è ovviamente in questo caso la strada del genere, della narrazione diretta del mondo della camorra, che lo stesso Gaudioso giudica difficile e pericolosa per i rischi del già-visto da un lato, e dell’apologia del crimine dall’altra.

Guardare Gomorra - la serie, dunque, oltre al piacere del genere e all’interesse per lo studioso di analizzare un modello riuscito di narrazione seriale all’italiana, offre anche un’opportunità supplementare. Permette infatti di vedere una versione alternativa e opposta del testo di partenza, alcune strade (più facili, ma non per questo non percorribili) che si paravano davanti a un adattamento del libro di Saviano. Di vedere, insomma, ex post il film che Matteo Garrone ‘ha evitato di fare’, per cercare qualcosa di più profondo e difficile, e che dunque è rimasto un unicum nella storia del nostro cinema.


1 L’uomo delle storie. Conversazione con Massimo Gaudioso, a cura di P. De Sanctis, in Non solo Gomorra. Tutto il cinema di Matteo Garrone, a cura di P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch, Cantalupo in Sabina, Edizioni Sabinae, 2008, p. 127.

2 L. Pallanch, ‘Terre di mezzo, Ospiti, estate Romana’, in Non solo Gomorra, p. 25.

3 Ecco come spiega la scelta il regista: «Quando abbiamo provato a inserire una colonna sonora, tutto si trasformava in commedia o in una presa di posizione verso le immagini. Con la musica, il bambino che spaccia ne veniva fuori con un commento didascalico, come a volere che lo spettatore si commuovesse. Lo stesso vale per il montaggio, lì ho quasi sempre prediletto i piani-sequenza» (‘Gomorra, il film. Conversazione con Matteo Garrone’, a cura di M. Braucci, Lo straniero, 96, giugno 2008, pp. 64-65).

4 Il crepuscolo della bellezza. Lo sguardo e il metodo di Matteo Garrone, in Non solo Gomorra, p. 12.

5 F. Crispino, ‘Gomorra’, in Non solo Gomorra, pp. 45-53; ma si veda anche P. De Sancits, ‘Da Saviano a Garrone. Oltre lo specchio: Gomorra visionaria’, ivi, pp. 35-44.

6 L’uomo delle storie, p. 122.

7 «Se fai un film di denuncia contro questi boss non puoi fare Quei bravi ragazzi di Scorsese: quello è un film meraviglioso dove però in qualche modo l’autore sposa totalmente il pensiero di queste persone, le vede dal di dentro, e comunque finiscono male. Nel nostro caso la storia italiana è molto diversa da quella americana. Non si può mettere in scena un personaggio come Riina partendo dal suo punto di vista perché c’è di mezzo la nostra Storia, gli attentati, le stragi, le morti di chi lo ha combattuto... parlare di un delinquente è una cosa difficile e complessa, soprattutto se si parte da un libro di denuncia così onesto e sincero come quello di Saviano. Con Matteo ci siamo subito trovati d’accordo nel mettere da parte la denuncia, per cercare le cose che davvero ci interessavano del libro: l’umanità dei personaggi, i luoghi, gli scenari...» (L’uomo delle storie. Conversazione con Massimo Gaudioso, p. 122).

8 Che in questo film ci possano essere degli elementi di fascinazione e di apologia del mondo del crimine, mi pare innegabile e per così dire compreso nelle regole del genere. Il problema dell’emulazione è invece più complesso: cfr. Gomorra e il rischio dell’emulazione «Troppi ragazzi imitano la fiction», www.corriere.it, 16 maggio 2016. Su Scarface è intervenuto a più riprese Saviano spiegandone il fascino e l’efficacia, e rivendicando la necessità di raccontare il male: R. Saviano, ‘Così Scarface è diventato un mito per tutti i boss’, la Repubblica, 29 settembre 2011.

9 L’uomo delle storie, p. 102.