2.5. La monnezza che diventa luce: foto del set di Gomorra (Mario Spada)

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Tra le tante storie germinate dalle radici di Gomorra c’è quella raccontata dalle foto di Mario Spada scattate sul set del film di Garrone, che aggiunge un altro episodio alla straordinaria avventura «transmediale» (Wu Ming, 2009) a cui ha dato avvio la penna di Saviano. Lo scrittore napoletano, nelle due pagine che accompagnano il volume che raccoglie gli scatti (Postcart, 2009), disegna il ritratto del fotografo puntando subito l’attenzione sulla prossimità dello sguardo rispetto all’oggetto messo a fuoco:

Mario Spada lo conosco da molti anni. La sua fotografia e la sua vita sembrano sovrapporsi. Mario Spada, con il suo aspetto da zingaro – anche il cognome lascia supporre origini gitane –, giocatore di rugby piccoletto ma massiccio, sempre con la sua Leica appesa al collo, sempre sulla sua vespa rossa. Incapace d’essere indifferente o distratto nei confronti della vita che gli si para davanti. Spadino, come molti lo chiamano, ha raccontato nelle sue foto i volti della ferocia napoletana con l’intento di descriverne il quotidiano, in una città senza pace. […] Sembra che ad attrarlo sia sempre ciò che gli somiglia, per poi accorgersi che in ogni fotografia ha cercato e trovato l’altro. È come se attraverso l’obiettivo fissasse ciò che conosce e si trovasse poi, una volta sviluppato lo scatto, con un’aggiunta imprevista di contorni e significati (Saviano, 2009).

Il discorso di Saviano potrebbe forse essere letto alla luce di quanto Sciascia dice a proposito delle fotografie di Ferdinando Scianna: la capacità del fotografo di Bagheria di cogliere in un istante aspetti riposti della ‘sicilitudine’ deriva dalla consuetudine del suo sguardo immerso in una realtà che conosce bene. Sciascia cita la teoria di Stendhal sull’innamoramento espressa in De l’amour, in cui l’immagine della cristallizzazione del rametto esposto alle intemperie durante l’inverno e trasformato in carbone diviene la metafora della sintesi apparentemente inconciliabile di tempi lunghi e repentini che caratterizzano l’insorgere dell’amore… e per Sciascia anche della fotografia. Spada, come Scianna, conosce bene l’universo sul quale punta l’obiettivo della sua Leica, ma lo ritrae poi nei tempi contratti dello scatto «con un’aggiunta imprevista di contorni e significati», grazie al suo «sguardo discreto e impietoso». È ancora Saviano a notare i tratti del suo stile inconfondibile e a sottolineare la fedeltà ad un’idea della fotografia come ricerca di «luoghi di vita», anche nella eccezionalità delle foto realizzate sul set del film di Garrone, all’interno del quale Spada «si muove come un animale nel suo habitat, in situazioni verosimili, ma questa volta finte. Eppure le ritrae in tutta la loro verità».

La sintonia di Spada con l’universo di Gomorra, non riguarda soltanto l’oggetto su cui entrambi hanno posato gli occhi, ma si estende anche alla comune prospettiva del soggetto dello sguardo che lega il fotografo e lo scrittore. Ambedue raccontano la conoscenza e l’amore che li lega a Napoli e ritraggono un’umanità che sopravvive e resiste nell’inferno. Un inferno che hanno voluto guardare con i propri occhi, ‘malgrado tutto’ (direbbe Didi-Huberman), anche mettendo a rischio la vita stessa. Nel testo che Spada scrive per la pubblicazione di questo libro fotografico l’ostinata volontà di vedere e di documentare quanto ha visto è dichiarata a chiare lettere sin dall’incipit («Io volevo vedere») e sigillata da due ricordi emblematici che raccontano la parabola compiuta da Mario Spada, da inconsapevole osservatore della morte che esplode nelle strade dove è cresciuto a tenace testimone di una violenza che continua a voler guardare dritto negli occhi, affermando fino in fondo la sua volontà di resistere e di sopravvivere. Dal ricordo della prima volta in cui ha visto un morto ammazzato, a tredici anni, sporgendosi dalla finestra di casa e resistendo alla forza delle braccia di sua madre che tentavano di proteggerlo dalla vista di tanto orrore, al racconto dell’ultimo cadavere ritratto con la sua macchina fotografica facendosi largo fra la folla e opponendosi all’azione di censura della polizia. La sua professione di fede («Io volevo vedere. E voglio vedere ancora: questa è la mia vita. E devo vedere, perché adesso questo è il mio lavoro») introduce i pochi cenni alla quotidianità di un mestiere per il quale Spada continua comunque a dover conquistarsi lo spazio di uno sguardo, superando le forze che tendono a negarlo nell’illusione che così possa essere cancellato anche l’orrore. Le foto strappate al divieto della polizia che presidia il luogo del delitto dicono tutto, della strategia di resistenza da cui sono ispirate e della volontà di poter «uscire vivo» da quell’inferno.

In realtà, le pagine scritte da Spada raccontano una storia analoga a quella della voce narrante del fortunato best seller, in cui Saviano opta per un punto di osservazione interno al contesto del racconto («comprendere significava almeno farne parte. Non c’è scelta, e non credo che vi fosse altro modo per capire le cose»). Enumera, a partire dalla prima, tutte le esperienze di osservatore della violenza e della morte e conclude il suo ‘viaggio’ nell’impero della camorra con un ostinato grido di resistenza («Maledetti bastardi, sono ancora vivo»).

È in virtù di questa consonanza etica dello sguardo che Spada è ammesso sul set del film di Garrone, che diventa nelle pagine del libro fotografico il luogo dello scontro (e dell’incontro) a di molti occhi immersi nell’inferno di Gomorra. In altri termini, al fuoco a salve delle pistole che incendiano Scampia Spada risponde con il fuoco della sua macchina fotografica, che si allea con quello della mdp di Garrone e con quello della penna di Saviano. Per certi versi, infatti, la storia raccontata dalle foto, una storia di sopravvivenza e di riscatto che nasce all’incrocio di questi punti di vista diversi diversi (Saviano-Garrone), permette a Spada di ritrovare l’intima vocazione del suo obiettivo che si sporge sullo spettacolo infernale sotto casa. Poco importa se il paesaggio luttuoso e violento sia reale o se nasca da una messa in scena. Molti scatti sembrano accordarsi allo stile visivo di Garrone, che lascia parlare i luoghi come fossero le quinte da cui emerge la recita del gioco al massacro. Lo sguardo di Spada a volte riprende dall’alto [fig. 1] e da lontano [fig. 2] lo spazio della messa in scena. La sua Leica si intona alla poesia delle rovine della ‘ipermoderna’ (Donnarumma, 2014) epopea di Gomorra [fig. 3], si china sulla straordinaria incongruenza degli oggetti [fig. 4], lascia che gli attori si mettano in posa [figg. 5-6], come a comporre il volto sulla maschera del proprio personaggio. Raramente la mdp è presente dentro la cornice degli scatti [fig. 7]; il più delle volte sfogliando le pagine del libro ci si dimentica che si tratta di foto di scena e quel che si intravede è ancora lo sguardo di Spadino che si sporge dalla finestra [fig. 8]. Perché il potere della Camorra è fondato anche sulla messa in scena (Saviano lo aveva già detto chiaramente) ed è una messa in scena che passa attraverso il dare immagine di sé anche nelle foto, nel piccolo schermo della tv, ma sempre guardando al grande schermo del cinema (si veda il capitolo di Gomorra intitolato emblematicamente Hollywood e in particolare le pagine sulla messa in scena del potere di Sandokan).

Di fronte al grande spettacolo della Camorra, del resto, l’alternativa si gioca fra due ruoli ben definiti: essere attori o spettatori. Eppure c’è modo e modo di osservare l’inferno. «Nel restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo» (si direbbe con Pasolini) Saviano e Spada hanno cercato la salvezza. Nella conclusione del testo che accompagna le foto di Spada il giovane virgilio si scopre essere una delle guide che hanno accompagnato lo scrittore nel Viaggio nell’impero economico e del sogno di dominio della camorra, percorso in lungo e in largo con la vespa rossa del fotografo:

Mario Spada è tutto questo: è un amico che mi ha portato ovunque, nei luoghi più immondi, ma degni di essere raccontati dalla mia penna e immortalati dal suo obiettivo. Riesce a strisciare nelle vie del quotidiano senza sporcarsi e a essere sporco allo stesso tempo, riesce a stare tra spacciatori, trafficanti colpevoli di ogni nefandezza senza dare nell’occhio. Poi nelle sue foto quella monnezza diventa luce (Saviano, 2009).

La straordinaria fortuna delle storie di Gomorra sta tutta qui, nel credere ostinatamente che quel mondo sia degno di un racconto, non importa se ‘partorito’ dalla penna, dalla macchina fotografica, dal grande o dal piccolo schermo. Il punto è cercare di trasformare la monnezza in luce.

 

 

Bibliografia

G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto [2003], trad. it. di D. Tarizzo, Milano, Raffaello Cortina, 2005.

R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2014.

R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Mondadori, 2006.

F. Scianna, I siciliani, testi di D. Fernandez, L. Sciascia, Torino, Einaudi, 1977.

M. Spada, Gomorra on set, testi di R. Saviano, G. Di Feo, A. Turetta, M. Spada, Roma, Postcart, 2009.

Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009.