Matteo Garrone, Il racconto dei racconti

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Matteo Garrone ama le sfide impossibili, e le supera sempre brillantemente, ogni volta attraverso strategie differenti. Così è stato per Gomorra, grazie a una cifra visionaria estranea al romanzo di Saviano. Anche portare sullo schermo il capolavoro del barocco napoletano, Lo Cunto de li cunti di Giambattista Basile, affidandolo a un cast internazionale e girandolo in inglese, sembrava un’impresa ardua. Se il trailer faceva presagire una sorta di fantasy, il prodotto finale ne è invece lontanissimo: è un film con una fisionomia molto originale e con una straordinaria potenza visiva (Garrone, va ricordato, ha iniziato come pittore). La sua peculiarità deriva proprio dalla scelta di non percorrere strade già battute (ad esempio da Roberto De Simone), e di non puntare quindi sulla lingua e sulla tradizione napoletana (con cui Garrone ha sempre avuto una sintonia particolare: basta pensare al lavoro con Ernesto Mahieux nell’Imbalsamatore, o a tutto il cast di Reality, che a volte sembra quasi improvvisare davanti alla macchina da presa). Ne è scaturito un interessante impasto potremmo dire glocal: il barocco di Basile viene stilizzato e universalizzato, accentuando la violenza archetipica della fiaba.

Adattare al cinema una raccolta di fiabe, novelle o racconti è un’operazione complessa, soprattutto se si vuole evitare la scansione comoda e un po’ convenzionale del film a episodi. Assieme a un team di scrittori e sceneggiatori esperti (Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso), Garrone ha scelto di intrecciare e alternare fra di loro tre fiabe appartenenti tutte alla prima giornata del Cunto di Basile, La cerva fatata, La pulce, La vecchia scorticata; un’operazione simile a quella che Altman ha fatto a suo tempo con i racconti di Carver, anche se meno sistematica che in Short Cuts. La scelta più felice è stata senz’altro limitare a tre il numero di fiabe prescelte, espandendole con dettagli e sfumature psicologiche, che alimentano una sorta di ‘realismo fiabesco’. Si è evitato così l’effetto di affresco, presentando invece tre percorsi accomunati da una poetica della metamorfosi e dell’identità instabile esposta all’inizio del film dal personaggio del negromante; una poetica che spiega fra l’altro la consonanza fra il barocco e la nostra epoca di cui si è fin troppo parlato. Facciamo un esempio. La prima fiaba, La cerva fatata, contiene il tema del doppio, nella specifica variante del sosia del sovrano, cioè di una somiglianza eccezionale che lega due personaggi appartenenti a strati sociali opposti; una variante che incrina l’assolutezza del potere e che dal teatro barocco spagnolo giunge fino al Principe e il povero di Twain, o a Kagemusha di Kurosawa. Nella fiaba di Basile i due ragazzi, Fonzo e Cannarolo, sono identici perché concepiti grazie al cuore di un mostro marino mangiato dalla madre del primo, la regina di Lungapergola, e cucinato dalla damigella madre del secondo, sulla scorta di un motivo antropologico di lunga durata presente in varie novelle e in alcuni libretti d’opera (da leggere il saggio di Mariella di Maio, Il cuore mangiato: storia di un tema letterario dal Medioevo all’Ottocento, Milano, Guerini e Associati, 1996). La rilettura di Garrone amplifica sia la gelosia persecutoria della regina, sia il legame affettivo fra i due doppi (qui si chiamano Elias e Jonah), legame fortemente contrastato per motivi sociali, dato che il sosia del principe è figlio di un’umile serva (in Basile invece sono entrambi aristocratici: Canneloro alla fine diventa anche lui re). Garrone e i suoi sceneggiatori aggiungono inoltre elementi di conflitto che rientrano in una visione del mondo basata sulla compensazione fra nascita e morte, come spiega più volte il negromante. Troviamo perciò due cambiamenti significativi nell’intreccio: a differenza che in Basile, nel film il re muore dopo aver catturato il mostro marino, che gli infligge un ultimo colpo di coda. Per tentare di eliminare il sosia, anche la regina muore, trasformatasi in un terribile mostro ctonio ucciso dal figlio ignaro, in un finale di grande effetto. Quella che in Basile era una narrazione rapida e pragmatica, dal sapore popolare (soprattutto nel particolare degli oggetti che ‘partoriscono’ altri oggetti assieme alle due donne), diventa in Garrone un dramma ricco di passioni estreme e di violenza primordiale, che culmina nell’uccisione della madre castratrice.

Il realismo e il fiabesco si intrecciano anche e soprattutto nella dimensione visuale del Racconto dei racconti. Daniela Brogi (in Altri orizzonti. Interventi sul cinema contemporaneo, Milano, Artemide, 2015) ha richiamato il trionfo della natura morta all’epoca di Basile, con i suoi giochi di rifrazione della luce. La pittura del Seicento olandese, gli interni e l’esaltazione del quotidiano, riecheggiano più volte nel film, soprattutto nelle ambientazioni povere: le cucine in cui viene scelta la vergine che deve bollire il cuore del mostro marino, o la casa dove abitano le due vecchie sorelle della terza fiaba, ma anche lo studio del re protagonista della Pulce. Nelle scene notturne si sente invece la violenza del contrasto fra luce e buio di Caravaggio e dei caravaggeschi: il funerale del re a inizio del film, prima scena collettiva in cui sono presenti tutti i personaggi delle tre fiabe (l’altra sarà l’incoronazione finale della regina della Pulce), o l’inseguimento del sosia da parte della regina gelosa nella dispensa sotterranea del palazzo, in cui la torcia lancia sprazzi di luce rossastra su una serie di tagli di carne; autentico trionfo di un barocco funebre e notturno, è uno dei momenti più straordinari del film. In alcune scene si ritrova il gusto seicentesco chiaramente sadomasochistico del martirio e del corpo dilaniato, fra Artemisia Gentileschi e Jusepe de Ribera: la principessa Viola con le vesti lacere e con in mano la testa mozzata dell’orco, o la vecchia che vaga per la città con il corpo scorticato alla fine della terza fiaba (affascinante riflessione su eros, bellezza, e potere del tempo).

C’è infine una terza dimensione visiva che si affianca al realismo quotidiano e alla drammaturgia della luce, sganciata questa volta dalla pittura del Seicento: una predilezione per la materia primordiale, per le forme indistinte; la troviamo nella caccia al mostro marino, ripresa dal punto di vista del re dentro allo scafandro, o nella sequenza quasi monocroma e lattiginosa in cui i due giovani doppi nuotano sott’acqua nella stesso luogo in cui è stato catturato il mostro da cui in fondo sono nati - due scene girate nelle Gole dell’Alcantara in Sicilia.

Siamo giunti così forse al vero punto di forza del film: i luoghi meravigliosi in cui è stato girato. Matteo Garrone gioca certo un ruolo importante in quell’uso poetico del paesaggio cinematografico di cui Sandro Bernardi ha tracciato le linee (Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002): basta ricordare la desolazione metafisica del Villaggio Coppola nell’Imbalsamatore. Esaltati da improvvisi campi totali o da movimenti verticali della macchina da presa, potenziati dalla musica rarefatta ed evocativa di Alexandre Desplat, vediamo luoghi fantastici e selvaggi dell’Italia più arcaica, come il castello di Roccascalegno in Abruzzo, il castello di Donnafugata vicino Ragusa, il castello di Sammezzano a Reggello in Toscana, il bosco del Sasseto vicino Viterbo, la falesia di Statte vicino Taranto, e tanti altri.

Il Racconto dei racconti è una sfida impossibile riuscita grazie alla rinuncia a ogni soluzione facile e prevedibile, e a una sinergia continua fra paesaggio naturale, potenza pittorica, e reinvenzione drammaturgica della fiaba. Sono elementi che si possono sintetizzare ricordando una sequenza di cui viene spesso riprodotta l’ultima inquadratura. Sotto lo sfondo di un intarsio bianco su bianco, la regina vestita di nero mangia avidamente il cuore del mostro di un rosso accesissimo: all’inizio domina il bianco assoluto, poi la macchina da presa si avvicina con un lento zoom, dando sempre più forza metafisica al contrasto cromatico. Una mistione inedita di memoria storica, astrazione pittorica e icasticità delle passioni.