2.2. Oltre Gomorra. Dall’elegia al kitsch

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Mi pare significativo che Repubblica, per introdurre il nuovo libro di Roberto Saviano, La paranza dei bambini, abbia parlato di «un romanzo vero, un romanzo-romanzo: con tanto di invenzione e fantasia». Quasi una forma di riconoscimento, indiretta e retrospettiva, della difficoltà a considerare Gomorra un romanzo vero e proprio, anche se molti – vedere per credere la pagina di Wikipedia – a suo tempo lo giudicarono e definirono tale. Per capire il senso di quello che nel frattempo è diventato l’universo mediatico di Gomorra, credo allora sia opportuno partire da qui, da questa domanda: qual è l’identità del libro di Saviano? A quale genere appartiene?

Fosse stato scritto negli Stati Uniti, cadrebbe nella categoria del new journalism, col quale condivide il tratto fortemente soggettivo dell’inchiesta giornalistica: il reporter non espone i fatti, al contrario li metabolizza in chiave narrativa per renderli appassionanti e, a dispetto della loro comprovata evidenza, vagamente improbabili [fig. 1]. In Gomorra la soggettività di Saviano trapela soprattutto dalla scelta di dare ai suoi reportage un tono elegiaco, di rimpianto, che corre sotto traccia lungo tutto il libro. Una vena dolente attraversa i capitoli, quasi che l’autore si rammaricasse costantemente, pur senza mai dichiararlo esplicitamente, del triste destino toccato in sorte alla sua terra. Sullo sfondo dei delitti e dei misfatti, dei crimini e degli scempi edilizi, è tangibile l’amarezza per lo sfacelo cui è andato incontro un luogo che avrebbe potuto conoscere un destino diverso («È strano come con chiunque parli, qualunque sia l’argomento, appena dici che stai per andartene via ricevi auguri, complimenti e giudizi entusiasti. “È così che si fa. Fai benissimo, lo farei anch’io”. Non devi aggiungere dettagli, specificare cosa andrai a fare. Qualunque sia il motivo, sarà migliore di quelli che troverai per continuare a vivere in queste zone»).

Questo tono elegiaco è assente nell’adattamento cinematografico di Garrone. Lo si potrebbe semplicemente imputare al fatto che il regista, a differenza dello scrittore, non è originario di quei luoghi, ed è dunque impossibilitato a dolersi del degrado umano ed edilizio che li caratterizza. Ma credo che le ragioni stiano anche nella sua consapevolezza di affrontare un testo appunto più saggistico che narrativo, che andava dunque rielaborato con modalità diverse da quelle che di solito caratterizzano le traduzioni visive dei romanzi [fig. 2]. In un certo senso, potremmo dire che Garrone ha finito per muoversi nella direzione opposta a quella di Saviano. Laddove quest’ultimo ha venato di toni elegiaci la sua inchiesta giornalistica, il primo ha raffreddato il materiale di partenza, utilizzando il montaggio per frantumare la continuità delle singole storie e depotenziarne la forza drammatica, così da trasformarle in tasselli di un mosaico che alla criminalità camorrista guarda dall’alto, con lucida imperturbabilità.

Significativo al riguardo è l’episodio del sarto Pasquale. In Saviano il capitolo dal titolo Angelina Jolie si chiude su toni prima drammatici e poi malinconici. Nel salotto di casa, mentre passa distrattamente da un canale televisivo all’altro, il sarto di colpo ammutolisce, essendosi imbattuto nel reportage sulla notte degli Oscar e quindi nell’immagine della Jolie che indossa il ‘suo’ vestito («Nessuno stava parlando ma il silenzio sembrò farsi più denso. Luisa, la moglie, intuì qualcosa, perché si avvicinò alla televisione e si mise le mani sulla bocca, come quando si assiste a una cosa grave e si tappa un urlo»).

Anche dopo avere cambiato mestiere, Pasquale, nell’affabulazione narrativa di Saviano, ogni tanto a casa si apparta e va a riguardarsi la fotografia della Jolie con l’abito confezionato da lui:

sono sicuro che Pasquale, da solo, qualche volta, magari quando ha finito di mangiare, quando a casa i bambini si addormentano sfiancati dal gioco a pancia sotto sul divano, quando la moglie prima di lavare i piatti si mette al telefono con la madre, proprio in quel momento gli viene in mente di aprire il portafogli e fissare quella pagina di giornale.

In quello sguardo è tangibile il rimpianto di un talento sconsacrato, misconosciuto e persino dilapidato, visto che ora il personaggio fa il camionista. Il suo rimpianto – per quello che sarebbe potuto diventare, e non è diventato: nella parole dell’autore, «una felicità rabbiosa» – riecheggia quello di Saviano per la propria terra – per quello che sarebbe potuta essere, e non è stata.

Nel film lo stesso episodio viene prosciugato di ogni nota emotiva. In un autogrill, transitando casualmente davanti ad una tv che trasmette un programma in diretta dalla Mostra del cinema di Venezia, Pasquale nota che la ragazza sulla passerella rossa indossa il ‘suo’ vestito [fig. 3]. Si ferma qualche secondo davanti al monitor, poi prosegue, esce dall’autogrill, sale sul camion e riparte. Volutamente Garrone elude il potenziale drammatico dell’episodio, lasciandolo sullo sfondo, ancorato allo sguardo e al silenzio del personaggio. Potremmo persino leggere il cambio di scenario – dalla Los Angeles degli Oscar alla Venezia della Mostra del cinema – come una scelta di campo, in favore di un cinema pienamente autoriale, che rifugge dai clichés narrativi e dagli stereotipi drammatici in favore di una visione della criminalità campana più compassata ed analitica. Quasi che il regista abbia voluto ricondurre ad una dimensione cronachistica gli stessi eventi che Saviano, complice il legame affettivo con la terra d’origine, non aveva voluto o potuto raccontare in modo del tutto neutrale.

Se Hollywood viene lasciata fuori dalla porta nel film, rientra prepotentemente dalla finestra nella serie televisiva, dove il racconto di genere si afferma in tutte le sue potenzialità drammatiche. Gli ingredienti che nel suo libro Saviano dosava con estrema misura – le lusinghe della ambizione, le ombre della paura, gli abissi del tradimento, ecc. – gli sceneggiatori li utilizzano a pieno regime, senza remore né limiti, costruendo un universo shakespeariano dove i giochi di potere si espandono come cerchi concentrici [fig. 4]. Nello stesso tempo, la discontinuità di personaggi ed eventi che caratterizzava sia il libro che il film lascia il posto, per esigenze di serialità televisiva, ad un senso fortissimo di continuità, dei personaggi ma ancor più dei rapporti che li legano fra loro. L’attendibilità giornalistica del libro, figlia di una costruzione a mosaico che coglieva del fenomeno camorristico diversi aspetti, viene rimpiazzata da una scrittura che guarda al potere e al denaro da una prospettiva drammaturgica, molto più antropologica che sociale (cosa conta di più nella vita di un uomo? Gli affetti o i soldi? Le relazioni familiari o la ricchezza? Il tema peraltro emerge con ancora maggiore evidenza nella seconda stagione).

Ma il punto di maggiore distanza fra il libro e la serie si misura nel rapporto con i luoghi nei quali si svolgono gli eventi. Perché il tono elegiaco di Saviano si è paradossalmente capovolto nel suo contrario. Rimpianto e malinconia qui rimpiazzati da una sorta di meridionalità orgogliosa e smargiassa, le frasi in napoletano dei personaggi cristallizzate e trasformate in suonerie da telefonino e tormentoni da social networks, calamite di un divismo spicciolo che trascende ogni possibile considerazione sociale o politica. Depositati dalla serialità in un universo narrativo che regala loro uno spessore emotivo e un retroterra familiare, i camorristi smettono di essere gli esponenti di un fenomeno vandalico ed endemico che ha rovinato la Campania e diventano la testa di ponte di un marketing meridionalista che genera forme imprevedibili e insospettabili di consenso popolare [fig. 5].