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Dare un quadro complessivo del volume Cultura visuale in Italia. Immagini, sguardi, dispositivi, a cura di Michele Cometa, Roberta Coglitore e Valeria Cammarata (Meltemi, 2022), non è un compito facile, visto l’ampio spettro di questioni che le oltre quattrocento pagine di questa raccolta di saggi contengono al loro interno. Si potrebbe iniziare dicendo che Cultura visuale in Italia non è una ricapitolazione o un’introduzione al tema che il titolo annuncia: piuttosto si tratta di dar conto della ricchezza (e della vitalità) di un campo di studi relativamente giovane (o, almeno, così è in Italia), attraverso la presentazione delle ricerche o della discussione di nodi teorici ancora irrisolti e che stanno al centro delle riflessioni di studiosi e studiose che a questo libro partecipano. Al netto della ricercata eterogeneità degli argomenti, ci sono alcuni interrogativi che continuamente ritornano, e che non a caso sono in parte esplicitamente richiamati, in apertura, dal saggio di Mitchell e che sono quasi sempre di natura relazionale: il rapporto fra parola e immagine, quello fra immagini e eventi storici, fra sguardi e dispositivi, fra arte e vita, fra media, circolazione e contesti, fra significati culturali e forme espressive e via dicendo.

Sono domande, per certi versi, vecchie, che da sempre si ripropongono a chi si occupi di teoria letteraria o di estetica, ma che qui vengono affrontate da prospettive diverse, in grado di aprire dibattiti pienamente (e positivamente) interdisciplinari, cercando di ragionare su un campo estetico che non può più essere considerato nelle sue singole componenti atomizzate, ma solo come uno spazio, appunto, di forme ‘rappresentazionali’, dispositivi, media, oggetti estetici continuamente in dialogo fra loro: non per obliarne le specificità, evidentemente, ma per meglio metterne a fuoco le caratteristiche distintive, come mostrano, appunto, i casi di studio presentati nel volume.

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Il libro di Daniela Brogi, contrariamente a quanto uno sguardo frettoloso al titolo potrebbe far pensare, è molto più che un’indagine sulla cultura figurativa che Manzoni dispiega nei Promessi sposi. Lo conferma l’ampia sezione di tavole collocata alla fine del volume, non una semplice appendice da sfogliare a supporto del testo, ma un vero e proprio saggio per immagini, un testo visuale diviso in otto paragrafi tematici integrati col resto dei capitoli e al tempo stesso autonomi da essi. Le tavole, infatti, vanno certamente consultate durante la lettura ma, così organizzate, sviluppano percorsi narrativi e associazioni che arricchiscono quanto esplorato nei cinque capitoli del libro e sui quali il lettore, trasformandosi in spettatore, si immerge nuovamente in maniera intensiva a lettura ultimata. È una scelta coerente con l’assunto di metodo fondamentale che ispira ogni singola pagina del saggio: il rapporto tra parole e immagini, testi letterari e testi visivi non si definisce mai solo in termini di influenza o dipendenza filologica, piuttosto si dispiega all’interno di un «ecosistema», per riprendere le premesse teoriche di W.J.T Mitchell che Brogi opportunamente assume (p. 38). Un romanzo per gli occhi è, da questo punto di vista, un’esplorazione audace e innovativa dell’ecosistema culturale all’interno del quale I promessi sposi si colloca, un circuito di immagini, procedimenti formali, narrazioni e pratiche dello sguardo che ha il suo sostrato fondamentale in una certa area della cultura barocca, in una rete di pratiche devozionali di matrice controriformata fondate sul primato assoluto della visione sull’espressione verbale, in una certa idea di realismo che ha la sua massima incarnazione nelle opere di Caravaggio. Un’operazione antiquaria, dunque, quella di Manzoni? Al contrario, Brogi insiste sulla collocazione romantica, cioè moderna, del capolavoro manzoniano, che dialoga ora frontalmente, ora obliquamente, con una stagione straordinaria della cultura artistica e religiosa lombarda, recependone gli stimoli fondamentali e consegnandoli al suo tempo nella forma del primo romanzo moderno della tradizione letteraria italiana. E obliquamente Brogi affronta questa rete di relazioni, per scarti, spostamenti allegorici e movimenti circolari: per osservare Caravaggio in Manzoni si parte da Velázquez e Gadda; per capire cosa è il romanzo storico si descrivono le foglie accartocciate della Canestra di frutta di Caravaggio; per esplorare lo spazio dell’interiorità che nel romanzo è al centro di alcune pagine straordinarie si indagano i luoghi e le pratiche spirituali inaugurate nell’età della Controriforma, dai Sacri Monti al rosario; per capire il realismo cristiano manzoniano si osservano il buio e la luce delle tele caravaggesche.

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Immagini nella rete. Ecosistemi mediali e cultura visuale (Mimesis, 2016) propone uno studio delle pratiche visuali contemporanee che tenta di spostare l’asse teorico e analitico dagli oggetti visivi al sistema instabile di cui fanno parte. Nel panorama postmediale, frammentato e interconnesso, la visualità può essere definita come un «set ecologico» (p. 175), un modello necessario per tenere in considerazione tutte le (re)azioni degli elementi in gioco.

Nella cornice introduttiva e conclusiva l’autore espone il percorso circolare svolto all’interno del testo. Nel primo capitolo si analizzano le sistematizzazioni teoriche sulla visualità per comprendere la loro attualità all’interno dello scenario contemporaneo, definire l’oggetto di studio e il senso metodologico di una convergenza interdisciplinare. Ugenti esplicita così i presupposti che stanno alla base dell’individuazione, nel secondo capitolo, di una serie di strumenti d’indagine applicati a uno specifico ambiente mediale: l’iconosfera online delle piattaforme del web 2.0. La comprensione delle sue strutture e dinamiche consente infine, nel terzo capitolo, l’analisi delle pratiche che investono una tipologia di immagini (amatoriali, personali e occasionali). Le trasformazioni in atto delle relazioni, dei processi e delle logiche tra soggetti, oggetti visivi e ambienti mediali innescano secondo l’autore un cortocircuito pratico e analitico. Il loro complesso movimento osmotico diventa parte integrante dell’ecosistema visuale contemporaneo e porta a un necessario ripensamento del concetto stesso di visualità, da cui Ugenti era partito.

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From January to June 2016, Federica Pich enjoyed sabbatical from her lectureship at the University of Leeds to take up a visiting position at the Courtauld Institute of Art. While resident in London, Federica taught an interdisciplinary MA course on the art and literature of the Italian Renaissance (in collaboration with Scott Nethersole). During that time, she also came across the writings of Michael Squire, who works on the interface between Graeco-Roman visual and literary cultures – and who happened to be based next door on the Strand, in the Department of Classics at King’s College London… As a scholar of the same generation, but trained in different disciplinary, institutional and national frameworks, Michael stood out to Federica as an interesting interlocutor for a conversation on ekphrasis and intermediality. There followed a series of art historical and literary exchanges, parts of which are recorded (in lightly re-worked form) in the present essay. The dialogue came about while Federica was thinking about intermediality and the importance of cross-disciplinary collaboration, and while Michael was working with Courtauld colleagues to organize the 2018 Annual Meeting of the Association of Art Historians (co-hosted by the Courtauld and King’s). No less importantly, the conversation took shape against the bitter nadir of the British European referendum debate – that is, at exactly the time when Britain was raising its isolationist drawbridge and turning its back on European friends. If nothing else, we hope that the following dialogue captures the spirit of a more engaged, outward-looking and pluralist perspective…

 

Federica Pich: I’d like to start our conversation with a quote from Michael Baxandall’s Patterns of Intention (1985: 4): «Past tense and cerebration: what a description will tend to represent best is thought after seeing a picture». I suspect a literary scholar would have been unable to capture the essence of verbal description – the shift that is implied in any attempt to represent a picture into words – as poignantly as this particular art historian does here. It is a question of perspective, of positive displacement – of being able to see more when we step outside the realm of our own discipline. My experience here at the Courtauld has been quite unique in this respect. Besides rekindling my interest in intermediality, conversations with students and colleagues have changed the way I look at pictures and, perhaps more surprisingly, the way I read texts.

It was that same search for new perspectives – facilitated by the chance to spend more time in London’s libraries over the last few months – that first led me to your work, Michael. When I read your article on the epigrams on Myron’s cow (Squire 2010a), for example, and your chapter on ekphrasis for the Oxford Handbooks Online in Classical Studies (Squire 2015b), they both stood out to me as much more intellectually refreshing and helpful than many theoretical contributions I had come across during my own research on ekphrastic poetry in the Italian Renaissance. I felt that your view of the subject could speak effectively to someone with a different expertise – precisely because your thoughts were moving from specific objects and texts, which you analyzed in great depth, while never losing sight of wider issues. This made me wonder how you first got interested in themes of image and text. Was it your interest in individual authors or texts that led you to themes such as ekphrasis and visual poetry, or was it rather the interest in these themes that guided your selection of texts? For that matter, what took you to classical materials in the first place?

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