1. Prologo
Piccole fiammelle tremolanti illuminano la ribalta. Sull’arcoscenico campeggia la frase Ei blot til, lyst, che in italiano significa «non per il solo piacere», un invito, che è anche un ammonimento. I personaggi sono figurine di carta colorata. Un bambino, Alexander, con occhi pieni di immaginazione, contempla il proprio teatrino, prima di alzarsi in piedi, chiamare Fanny ed esplorare la casa della nonna, che tra lampadari di cristallo, tende, drappeggi, antichi quadri alle pareti, un letto con il baldacchino e sedie di legno intagliato che sembrano dei troni, appare, agli occhi del bambino, una reggia. La prima scena del film Fanny e Alexander di Ingmar Bergman (1982)[1] ha un sapore iniziatico. À rebours la scelta della compagnia ravennate – fondata dieci anni dopo l’uscita del film, nel 1992, da Luigi De Angelis e Chiara Lagani – di utilizzare come proprio nome, e marchio di fabbrica, il titolo del film di Bergman, appare quanto mai esatta. Le forme, le atmosfere e i temi ci sono già tutti, o quasi: l’archetipo dell’infanzia, la potenza dell’immaginazione e dell’arte, il piacere della macchineria artigianale e della meraviglia, la costruzione di dispositivi della visione, la complicità di una coppia, un fratello e una sorella… E poi dell’immaginario di Bergman si potrebbero aggiungere i contrasti tra eros libertino e rigore nordico, amore per le grandi opere e ossessione per il dettaglio, fascinazione per una raffinata tradizione borghese e carica innovativa nella rottura delle forme.[2] Fanny & Alexander nasce richiamandosi a un grande regista cinematografico e teatrale, che è soprattutto un artista-intellettuale creatore di mondi.
I film di Bergman, infatti, sono dei veri e propri mondi che lo spettatore è invitato a frequentare. Qualche volta, come dice Oscar, direttore del teatro locale e padre di Fanny e Alexander, «capita il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio».
2. Ada o il cinema da camera
La potenza dell’immagine è una delle sfide decisive del teatro di ricerca. Il teatro immagine[3] degli anni Settanta ha rappresentato un connubio esplosivo tra scena e arte visiva, che non ha avuto paragoni nei decenni successivi, basti pensare ad esempio al ruolo propulsivo delle gallerie d’arte nella produzione di opere teatrali e performative. Gli scambi tra artisti visivi, registi, performer sono stati frequenti e i settori disciplinari si sono mescolati con una certa naturalezza e reciproca soddisfazione. La rottura dei linguaggi è passata soprattutto dalla potenza delle immagini, capaci di differenziarsi dagli stili più noti del teatro di regia e di produrre nuovi immaginari, soprattutto in relazione con le dinamiche di liberazione dei corpi. A ben guardare, pur nelle inevitabili differenze, un linguaggio teatrale che metta al centro la potenza dell’immagine si ritrova solo negli spettacoli e nelle poetiche delle compagnie della cosiddetta Romagna Felix[4] che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, danno vita a una stagione particolarmente vivace del teatro italiano, tra le più importanti a livello europeo. La Socìetas Raffaello Sanzio, costruendosi un immaginario sorprendente tra mondi arcaici e fantascienza – con in testa più Jung che Freud –, rivoluziona ancora una volta la lingua del teatro assorbendo modalità provenienti dalle arti visive e guardando molto alla fotografia, oltreché attuando potenti operazioni di montaggio con riferimenti diretti a certo cinema sperimentale.
A differenza di come spesso si è ripetuto, non è esatto – o almeno non è esaustivo – dire che l’arte visiva sia stata la sponda ideale delle compagnie della Romagna Felix (dalla Raffaello Sanzio a Teatro Valdoca, Teatro delle Albe fino alla generazione successiva di Motus, Teatrino Clandestino, Masque Teatro, Fanny & Alexander). La vera novità è consistita nell’aver elaborato un linguaggio teatrale ibridato soprattutto con il cinema.[5] Tramite la presenza di sofisticate proiezioni o pensando e costruendo la scena come un vero e proprio set o ‘film teatrale’, queste compagnie hanno saputo giocare con un elevato grado di finzione e realtà, con la dimensione live e registrata, con l’evocazione di mondi, con nuovi immaginari, con scritture drammaturgiche inedite (stralci di romanzi, poesie, diari, etc.), e poi con montaggi, dissolvenze, piani di visione, voci off, registrate, sovrapposte, riverberate… Ed è con gli elementi di scrittura cinematografica che si è dato vita ad una nuova forma di scrittura scenica, aperta a differenti codici però strutturalmente chiusa, perché permeabile alla dimensione performativa, ma di fatto coerentemente organizzata e finalizzata all’opera conclusa.[6]
Fanny & Alexander in questo senso gioca un ruolo fondamentale, perché cura, con estrema attenzione, la componente visiva e in particolare elabora un proprio stile, immediatamente riconoscibile, che mira a immergere lo spettatore in un’atmosfera conturbante, sofisticata, estremamente attraente, ma a tratti repulsiva, morbosa. L’orizzonte cinematografico non serve solo ad offrire un serbatoio di immaginario, e nemmeno a potenziare la scena con l’amplificazione tecnologica degli schermi e dei suoni. Il ‘cinema teatrale’ di Fanny & Alexander in realtà è una pellicola scomposta, che serve soprattutto ad immergere lo spettatore dentro l’immagine. Si cerca di offrire la possibilità di ‘attraversare lo specchio’, citando Lewis Carroll, uno degli autori più importanti per Fanny & Alexander, o di precipitare nel proprio inconscio, vedendo per un attimo l’invisibile, come se la scena fosse una macchia di Rorschach, altro riferimento da non dimenticare. L’obiettivo è riuscire a creare sul palco un’immagine vivente che sia estremamente densa e dentro la quale sia fissata l’impressione e la memoria degli eventi, secondo le parole di Aby Warbug, il terzo e più importante riferimento iconografico, citato con costanza dalla compagnia soprattutto per Mnemosyne Atlas. Le immagini hanno una loro storia e sono in stretta relazione con la cultura e la memoria di un’epoca. Le immagini possono ‘sopravvivere’ e mostrare permanenze inaspettate lungo la storia dell’arte. Ed è proprio guardando a Warbug che Fanny & Alexander costruisce il proprio repertorio iconografico sulla scena, lavorando continuamente di interpolazioni e citazioni. I riferimenti visivi solitamente sono esplicitati, perché rispondono non tanto a un gusto postmoderno di erudizione o di parodico ribaltamento, quanto piuttosto al tentativo di indicare le permanenze di un gesto e di una forma.
Il progetto che meglio sintetizza e porta a compimento questa scrittura di ‘immagini in movimento’, dal forte sapore cinematografico e artistico, è senza dubbio Ada, cronaca familiare (2003-2006), realizzato a partire dal romanzo di Vladimir Nabokov Ada o ardore.[7] Il progetto si articola in dodici momenti differenti, spettacoli, installazioni, concerti, e in particolare i primi due lavori sono esemplari.[8] Ardis I (Les Enfants maudits), che ha debuttato al Ravenna Festival nel giugno del 2003, è ambientato in una piccola stanza. Van, il protagonista maschile, siede immobile su una seggiolina ad ascoltare e osservare una parete sulla quale sono appese cornici prive di quadri. La scena è raccolta e appare quasi bidimensionale.
All’improvviso si aprono tra le cornici piccole feritoie da dove compaiono parti del corpo, bocche e orecchie, lingue e occhi. Non ci sono video, ma le azioni sono inquadrate dalle cornici. La scena è fissa, però la parete suggerisce dei primi piani attraverso aperture di sportelli che rivelano inedite profondità. Tutto si svolge come in superficie, anche se l’immagine complessiva creata dalla scena è come se volesse catturare lo spettatore, risucchiarlo, farlo ‘entrare dentro’. E così accade fisicamente con Van il quale, alla fine dello spettacolo, sparisce dietro la parete. Non è un caso che il sottotitolo reciti «cinema da camera per voci, pianoforte, ondes Martenot e macchine del suono».
Ardis II, che debutta al Kunsten Festival des Arts di Bruxelles nel maggio del 2004, in qualche modo è come se diventasse tridimensionale, e il ‘costo’ della tridimensionalità dello spazio sembra essere quello dell’intrusione di un vuoto opprimente.
La scena è strutturata su tre centri composti da scatoloni impilati. Non vi è più un muro, è come se fosse crollato. Le facce degli scatoloni sono dipinte e vanno a comporre nel vuoto una piccola scenografia artificiale. Così vediamo le scale, la porta, il lampadario, la vasca da bagno, ma anche parti del corpo: un orecchio, un occhio, l’ombelico. Due video al centro (realizzati da Zapruder filmmakersgroup) mostrano dei rebus e dei palindromi (costruiti con la collaborazione di Stefano Bartezzaghi) che vengono piano piano risolti dalle voci degli attori, i quali lentamente – lettera dopo lettera – scandiscono parole e frasi.
Sono immagini eccessive e dissonanti – quelle dei video – dove il gesto di una mano o la torsione di un busto viene accelerato e iterato a tal punto da acquisire un’energia meccanica e inquietante. Gli scatoloni scivolano sulla moquette, e compongono figure accostandosi l’uno all’altro. Lo spazio, come un discorso, pare suddividersi in vere e proprie unità linguistiche, costretto quasi fisicamente a ricostruire un tessuto (o testo) andato in pezzi. Come lo spazio così anche il linguaggio appare destrutturato in lettere e sillabe: risolvere i rebus e i palindromi significa tentare di sciogliere l’enigma, instaurando un linguaggio altro sulla scena, fatto di associazioni oniriche e intuitive.
3. Oz e il potere dell’immaginazione
Per comprendere il procedimento multi-stratificato che Fanny & Alexander utilizza sulle immagini è esemplare seguire l’evoluzione del progetto dedicato a Il Mago di Oz, che inizia nel 2007 e si sviluppa fino al 2010, attraverso nove appuntamenti tra spettacoli e performance.[9]
Dietro le quinte, davanti al pubblico, inginocchiato in atto di preghiera, è sempre Lui: piccolo, onnipresente, in carne e ossa o in fotografia, a ricordarci che il mondo che vediamo è solo opera sua. L’articolato viaggio di Fanny & Alexander nell’opera di Frank L. Baum sembra passare proprio da qui, un’intuizione visiva incarnata in personaggio: il mago di Oz ha il volto di Hitler, quegli stessi capelli e quegli stessi baffetti incrinano in ogni momento l’aria di favola del romanzo, e funzionano come perenne e inquietante punto interrogativo. Richiamare le sembianze di Hitler per dar corpo al mago di Oz è maneggiare una vera e propria bomba semantica, piena di implicazioni e di rischi. È dar vita a un cortocircuito che apre costantemente la visione, non tanto verso una lettura critica, quanto verso un piccolo ‘motore questionante’ che mescola zone discontinue: potere e arte, speranza e mistificazione, orrore e pietà. A complicare ulteriormente quest’immagine vi è la sua posizione inginocchiata, che ricalca, come una citazione, Him, l’opera di Maurizio Cattelan: un piccolo Hitler crucciato colto nel gesto della pietà o della preghiera. A strato si aggiunge strato e la faccenda si complica, poiché il corpo di un attore diventa specchio di una scultura contemporanea che riflette un’immagine della Storia. Così il mago di Oz appare negli spettacoli Him (2007), Dorothy. Sconcerto per Oz (2007) e Emerald City (2008), anche se ogni volta il suo ruolo muta sottilmente, acquisendo nuove sfumature.
In Him Oz (Marco Cavalcoli) è il ‘grande doppiatore’ e presta la sua voce a tutti i personaggi del celebre film The Wizard of Oz di Victor Fleming (1939); vero e proprio impostore, o grande burattinaio, pare quasi costretto a rispettare quell’ingrato compito, in una sorta di estenuante agone o di feroce maratona. Così è per Dorothy. Sconcerto per Oz, in cui il nostro omino infallibile dall’alto detta il ritmo a quella che potrebbe essere una versione musicale della Zattera della Medusa. Anche qui il ‘Grande Capo’ (come nel film di Lars Von Trier, uscito pochi anni prima, dove si sottolineava il potere di persuasione dell’attore, ma anche la sua capacità di essere riprovevole) è alle prese con un doppiaggio, conduce e custodisce il brulichio sottostante, folle direttore d’orchestra di uno ‘sconcerto’ di vizi e virtù. In entrambi i casi quel ‘Grande dittatore’ ci appare in ginocchio: a volte sembra chiederci scusa, a volte è solo un’effigie enigmatica che galleggia in un angolo della nostra mente.
In Emerald City è proprio l’enigma di quel volto a far da assoluto protagonista, conducendoci in un viaggio attraverso le emozioni umane con la sua millimetrica competenza muscolare. Come un tragico oggetto di culto il piccolo Him viene travolto da una babele di voci misteriose, che confessano intime vicende personali e chiedono un cuore, un fegato, un cervello. Qui pare esserci un maggior grado di astrazione, la piccola sala potrebbe sembrare una cappella o un luogo di preghiera, così la frizione provocata dai richiami al mago nei panni di Hitler si fa ancora più feroce e metafisica. Da una parte sembra che Him sia costretto ad ascoltare i lamenti dell’umanità, come in una sorta di contrappasso, dall’altra ci si potrebbe trovare davanti all’immagine che rivela l’imbroglio dell’esistenza: un eterno padrone nel ruolo del padre eterno. Ma Emerald City è anche la città della mistificazione, della manipolazione degli sguardi, della bellezza finalizzata a un controllo sociale e mentale. Oz appare allora anche in 3D e, invitando il pubblico a indossare gli appositi occhialini, attira su di sé tutti gli occhi con un fare pubblicitario e subliminale. È qui che il volto di Hitler sembra addolcire certe asperità e rifarsi a modelli attuali, più demagogici che demoniaci, modelli politici quasi promozionali, propagandistici.
Figura composita dunque, sfaccettata e sfuggente, Him era già apparso anche nel luogo di partenza di quel viaggio, quel grigio Kansas (2008) che per Fanny & Alexander ha l’aspetto di una galleria d’arte. Il piccolo uomo appare qui sempre all’improvviso, nell’ombra dei cambi di scena, nascondendosi dietro le quinte. Trascina dietro di sé l’intera scenografia, come se fosse il suo giocattolo, il suo mondo in miniatura, dentro il quale Dorothy crede di poter vivere esperienze di libertà. Oz qui è l’immagine dell’artista, il creatore di un mondo-opera, ma nello stesso tempo un ‘grande fratello’, un occhio che guarda e controlla quello che accade sulla scena.
La forza di questa figura è dunque quella di mantenere all’interno dei tanti episodi un ruolo che acquista sempre maggiori sfumature, e una forma pluridimensionale e mobile.
Ad esempio in East (2008; il titolo si riferisce al primo dei punti cardinali) ne veniva declinato l’aspetto temporale: il protagonista, l’Uomo di latta, vestiva i panni di un soldato, mentre Oz era ridotto ad allusiva icona storica, schiacciato nelle due dimensioni di una fotografia incorniciata e appesa ai muri della stanza-prigione, esattamente come si fa con le immagini dei grandi politici o dittatori. Alle due dimensioni dell’immagine si accompagnava la profondità tonante della voce che dettava al soldato ordini e comandi, come se fosse in guerra.
L’icona che appare appesa in South (2009) è invece adesso un’immagine imponente, di non immediata lettura, perché disposta per la visione 3D: a tratti pare un poster o un cartellone pubblicitario, virato di verde e di rosso, di fronte a cui Dorothy (Fiorenza Menni) si confessa e chiede di non sentire più il cuore. L’immagine di Oz, che a poco a poco si spegne chiudendo gli occhi, qui sembra funzionare solo da misterioso ingresso, via di sprofondamento nel buio cieco del mondo tutto sonoro di South. E quell’immagine, scomparendo, funziona davvero da porta magica per l’avvento di un ciclone musicale che mette al centro lo spettatore come se si trovasse, per uno strano incantesimo, nelle pieghe sonore di un radiodramma. Del resto se South fosse un radiodramma (e certo in parte si richiama allo statuto di questo genere) scardinerebbe la sua natura unidimensionale,[10] quella che opera solo nella direttrice della profondità, per scatenare la terza dimensione, il 3D del suono, anticipata da quella visiva dell’icona introduttiva, capace di far precipitare il pubblico nella tempesta delle immagini sonore: un ‘radiodramma tridimensionale’, per lo spettatore un’immersione totale del corpo e dei sensi.
A questo catalogo pluridimensionale lo spettacolo North (2009) aggiunge forse l’estrema delle immagini di Oz: quella invisibile. Non ci sono più immagini calate dall’alto, o appese alle pareti, né voci tonanti a porgere domande: quest’icona che non c’è si costruisce lentamente, affiorando come ombra insopportabile sul volto della stessa Dorothy (Chiara Lagani), volto che, osservato attraverso una grande lente, appare gigante e terribile, oltre che con i baffetti e lo sguardo spiritato propri del dittatore tedesco. Sempre una presenza al di fuori della scena o comunque autonoma e ben determinata, Oz è forse ancora più terribile, perché l’inferno che adesso abita è sepolto dentro di noi, come fosse un archetipo o un pensiero, generato e partorito da un’immaginazione pericolosa e senza limiti. E la natura di questo viaggio è forse ancora quella di un ‘parto di fantasia’ terribile e inquietante, un filo rosso che ancor più stringe Dorothy ad Oz, con un inevitabile ribaltamento di piani: il potere dell’immaginazione si confonde con l’immaginazione al potere, un’arte capace di liberare tramite un’etica che non sa controllare.
4. Eterodirezione: parola e gesti
Him rappresenta un importante momento di svolta per Fanny & Alexander, non solo per l’intuizione visiva che permette la costruzione di un personaggio complesso e dalla lunga vita, ma anche perché qui viene utilizzato per la prima volta un dispositivo sonoro che verrà sperimentato in quasi tutti i lavori successivi, diventando per la compagnia uno strumento metodologico e poetico fondamentale, un marchio di fabbrica, una tecnica da brevettare. Him segna la nascita della cosiddetta eterodirezione, cioè di una tecnica, inventata dalla compagnia ravennate, che serve prima di tutto a dirigere gli attori, ma che incide anche nella composizione drammaturgica e registica.
Il mago di Oz, il grande truffatore, è anche un grande doppiatore. Indossando le cuffie e osservando il film di Fleming che scorre su un piccolo schermo, l’attore doppia interamente la pellicola, prestando la propria voce a tutti i personaggi con uno straordinario virtuosismo e una qualità ‘atletica’, perché il ritmo è forsennato, le voci si susseguono una dietro l’altra senza pause, i momenti per prendere fiato sono ridotti al minimo. Ecco che la performance attoriale ricorda, anche se il mago di Oz rimane per tutto il tempo in ginocchio, una vera e propria corsa: nulla deve sfuggire al suo controllo, non c’è tempo per pensare. Sembra una sfida, e il traguardo apparirà solo alla fine con il ‘the end’ proiettato sullo schermo e la dissolvenza delle voci e dei rumori. Il mondo sonoro passa per le cuffie indossate dal mago, e tutto viene ripetuto da lui istantaneamente. Si tratta perciò di un’eterodirezione dispotica e atletica.
In West (2010), ultimo spettacolo del ciclo Oz, il dispositivo dell’eterodirezione è messo a tema dello spettacolo. È quindi come se fosse questo il vero e proprio inizio: cominciare a esplorare le molteplici possibilità offerte da tale dispositivo. Rispetto a Him tutto si complica, perché in cuffia vengono trasmessi, oltre alle parole che l’attrice deve pronunciare, anche i gesti che deve compiere. Orecchio destro e orecchio sinistro seguono due canali separati. La stereofonia però sfiora la schizofrenia, perché la protagonista, interpretata da una straordinaria Francesca Mazza (vincitrice del Premio Ubu 2010), è una Dorothy imprigionata nelle gabbie della persuasione occulta della società occidentale: scegliere sembra essere un atto impossibile.[11] I movimenti che il personaggio deve compiere hanno un ritmo iper-nevrotico e accelerato. Lo scrollare delle mani, il tamburellare delle dita, il tremolio della gamba, e poi ancora lo sventolare l’aria per il troppo caldo o il salterellare freneticamente sono gesti che appartengono al campo semantico dell’ansia e della nevrosi.
La novità è che questa sorta di catalogo di movimenti prossemici non è precisamente coincidente al discorso che viene pronunciato. Il gesticolare delle mani non accompagna didascalicamente le frasi, ma è come se queste facessero parte di un sovra-discorso più ampio, che allarga i confini del senso offrendo sfumature nuove al testo rappresentato.
I gesti e le parole sono trasmessi come ordini negli auricolari indossati dell’attrice, che è quindi costretta a ripeterli. I gesti entrano in un orecchio, le parole in un altro. Sia gli uni che le altre, però, possono cambiare da spettacolo a spettacolo, anche se vengono scelti a partire da un ampio gruppo di possibilità preselezionate. Le storie che si raccontano perciò mutano, così come i gesti. Quest’aspetto di imprevedibilità rende l’attrice incapace di memorizzare la partitura, compiendo una performance di straordinaria abilità di coordinazione.
La cifra compositiva è la dissociazione. Le parole e i gesti viaggiano su binari separati, ma continuano a dialogare, anzi trovano punti di intersezione inediti. Prevale un ritmo spezzato e l’immagine che emerge, infine, è quella di una Dorothy in lotta con un potere sottile, invisibile, capace di influenzare le scelte a livello neuronale, una sorta di ‘biopotere’. La performance, però, non ha i caratteri del Grande Fratello, cioè non si rappresenta il controllo come peso schiacciante, ma come insidiosa manipolazione. Tra il forsennato susseguirsi di ordini e la loro nevrotica esecuzione si avverte inoltre una piccola ‘intercapedine’, che è lo spazio autoriale dell’interpretazione attoriale. È uno spazio minuscolo, eppure dall’effetto gigantesco. In questa fessura si sviluppa lo stile attoriale che Fanny & Alexander comincia ad adottare in quasi tutti i suoi spettacoli. La recitazione si asciuga sempre di più, ci si allontana dalle cantilene espressioniste, dalle distorsioni vocali di tutta la prima frase del gruppo, per raggiungere un tono il più possibile iperrealista, a tratti cinematografico, molto attento a seguire il senso di ciò che viene detto, senza divagazioni sonore. È come se la ripetizione delle parole fosse un atto da compiere così rapidamente da costringere la voce a farsi più essenziale.
In West l’attrice lascia il suo segno non per forza di volontà e di resistenza, ma per tenace capacità di abbandono. Dentro la gabbia di ordini stringenti, l’attrice è una corda spezzata che continua a vibrare. È questa un’eterodirezione in funzione pervasiva e nevrotica.
West è la porta di ingresso per il progetto successivo di Fanny & Alexander, Discorsi (2011-2014), che sposta l’attenzione sulla parola pronunciata in un’assemblea di persone, e sull’attore inteso come presenza dell’hic et nunc, esposta di fronte ad un pubblico. Ogni spettacolo vede in scena un solo attore o attrice, e si confronta con la retorica del discorso pubblico. In particolare il dittico Discorso grigio (2012) e Discorso giallo (2013) affronta rispettivamente il tema della politica e dell’educazione. In tutti i casi si utilizza sempre la tecnica dell’eterodirezione.
In Discorso grigio Marco Cavalcoli interpreta un nuovo presidente impegnato a pronunciare il suo discorso alla Nazione. La drammaturgia di Chiara Lagani è composta da un collage estremo di frasi estrapolate da discorsi pubblici di uomini politici della contemporaneità, da Berlusconi a Renzi, da Monti a Bossi, La Russa, Bersani, etc. La lingua del nuovo uomo politico è perciò costruita attraverso le parole della vecchia politica, a dimostrazione di uno scenario immobile e inerziale. L’attore riceve in cuffia gesti e parole, queste ultime estratte da registrazioni autentiche, di natura televisiva, a volte riproposte nella ‘poltiglia’ del web, per cui egli si trova a ripetere non solo le frasi, ma anche il tono, il timbro, l’intonazione delle voci.
In Discorso grigio e Discorso giallo l’eterodirezione agisce sull’attore creando una sorta di ‘impronta’. Quel che accade è una sorta di trasformazione mimetica dei performer, impegnati a rincorrere le voci di politici, nel primo caso, o di celebrità televisive, nel secondo (in particolare il maestro Manzi, Sandra Milo e Maria De Filippi). Il discorso pubblico qui è proposto sempre come discorso televisivo, discorso letteralmente ‘mangiato’ dalla televisione. Perciò i personaggi evocati sono celebrity da riconoscere, creature che sembrano esistere solo nello spazio mediale. Si esplora un territorio più ricco dell’imitazione, perché la selezione drammaturgica distilla le caratteristiche dei personaggi, ma meno espressivo della parodia, poiché la finalità non sta nella derisione ma in un riconoscimento che ha il sapore della piccola rivelazione – e al contempo nell’angosciante e inevitabile rispecchiamento di un modello culturale di massa –. L’impronta che identifica l’attore è prima di tutto di natura vocale. È la dimensione orale a trascinare dietro di sé anche la componente fisica e corporale. Nel progetto Discorsi l’eterodirezione diventa quindi un dispositivo di riconoscimento, in funzione mimetica e mediale.[12]
Negli ultimi anni con i progetti Storia di un’amicizia (2017-2019), tratto da L’amica geniale di Elena Ferrante, e Se questo è Levi (2018-2019), tratto dalle interviste di Primo Levi, il dispositivo dell’eterodirezione trova una nuova e inedita declinazione.
Nel progetto Discorsi i personaggi evocati sono tutti reali, ma vengono citati nella loro dimensione televisiva. E in un certo senso Berlusconi, Renzi, Grillo, Maria De Filippi, etc. è come se esistessero solo nella sfera mediatica, come se fossero loro stessi prigionieri del mondo del piccolo schermo. La lingua dei discorsi è perciò, in negativo, una neo-lingua dal sapore orwelliano, acrobaticamente tesa a girare su di sé senza senso, priva di referenti reali e plasticamente piegata a costruire vuoti di significato.
Con gli ultimi due progetti, invece, si ritorna alla letteratura. Perciò le parole sono utilizzate al contrario, cioè per costruire in modo calibrato narrazioni dense di senso. La parola, in positivo, costruisce architetture significanti capaci di produrre storie, racconti e pensieri.
In Storia di un’amicizia sono soltanto due le attrici in scena, Chiara Lagani e Fiorenza Menni. Il loro compito è di dar voce a Lila e Lenù, le ‘amiche geniali’ protagoniste del romanzo di Ferrante, e a tutti gli altri personaggi, soprattutto a quelli maschili.
L’obiettivo delle attrici è riuscire ad evocare l’intero mondo dell’opera ferrantiana. Le voci che ascoltano in cuffia e che ripetono non sono più di persone reali, ma sempre di personaggi letterari. C’è dunque in partenza un’autorialità nella scelta delle voci.
In realtà, però, quel che colpisce di più è la densità letteraria della performance, e il movimento che la scena riesce a restituire tramite il minuzioso incastonarsi delle voci. L’eterodirezione qui sembra funzionare come transfert dalla pagina alla scena, e le due attrici, ‘attraversate’ dal testo di Ferrante, sono presenze fantasmatiche, come dei medium che permettono questo passaggio. Qui si può dire che l’eterodirezione opera in funzione evocativa e fantasmatica.
L’ultima esplorazione del dispositivo è nello spettacolo Se questo è Levi. I testi di partenza sono le interviste di Primo Levi che l’attore, Andrea Argentieri, ascolta in cuffia. Lo spettacolo si svolge in luoghi non teatrali, in ambienti raccolti e reali, adeguati alle storie che racconta lo scrittore, che non sono solo quelle legate alla sua vita nel campo di concentramento, ma sono anche ricordi delle sue esperienze da chimico, e più in generale riflessioni sulla memoria, proposte di fronte a studenti. C’è dunque una sorta di iperrealismo della scena, e l’impressione che si produce è di essere realmente accolti da Levi, che appare non come un fantasma ma in carne ed ossa, come una figura vivente. Non c’è parodia, non c’è gusto fantasmatico; è una rievocazione storica, o, per usare una delle parole-chiave della scena contemporanea internazionale, un reenactment.
La cura dei dettagli, tuttavia, non è maniacale come in certe rievocazioni storiche, perché l’obiettivo non è propriamente ricreare un momento del passato, bensì riattivare una relazione presente. Ecco allora che Levi, nell’ultima delle tre tappe dello spettacolo, risponde a delle domande degli spettatori. È tutto scritto e definito prima, tutto è già accaduto. Sono domande che veramente furono poste a Levi, e l’attore adesso ripete la sua voce registrata mentre la ascolta in cuffia. Grazie a questa rievocazione si riattiva, evitando scivoloni nel kitsch, una relazione diretta con lo spettatore dall’esito davvero commovente, poiché le parole sembrano essere pronunciate per la prima volta. L’eterodirezione opera in funzione di rievocazione e riattivazione esperenziale.
5. Nota finale
La messa a fuoco di un dispositivo, o di un nodo formale-tematico, è alla base di un metodo che procede per minuziose esplorazioni e successive stratificazioni. La complessità dei lavori di Fanny & Alexander è dovuta etimologicamente a un susseguirsi di ‘pieghe’ che allungano il ragionamento, ma sono pieghe frutto di un processo duraturo e intenso.
È esemplare, pertanto, la scelta di procedere per progetti pluriennali, individuando figure o archetipi che possono permettere estesi viaggi artistici. L’eterodirezione, in particolare, è uno strumento che ormai da oltre dieci anni contraddistingue il lavoro della compagnia, avvicinandola sempre di più a una riflessione drammaturgica intrecciata alle qualità e alle strutture della letteratura.
1 La casa editrice Ubulibri, fondata e diretta da Franco Quadri, è molto attenta all’opera di Ingmar Bergman. Nel 1987 traduce e pubblica il romanzo del film: I. Bergman, Fanny e Alexander. Un romanzo, Milano, Ubulibri, 1987.
2 A cento anni dalla nascita la rivista Hystrio (4, 2018) ha dedicato a Bergman un dossier, curato da Giuseppe Liotta e Roberto Rizzente. In particolare si segnala l’intervento di G. Fofi, ‘Il mio Bergman’, in Bergman in Italia: gli spettacoli, la critica, gli adattamenti, a cura di G. Liotta, R. Sacchettini.
3 G. Bartolucci, La scrittura scenica, Milano, Lerici, 1968; G. Bartolucci, Teatro-corpo, teatro-immagine: per una materialità della scrittura scenica, Padova, Marsilio, 1970; L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Roma, Bulzoni, 2003; S. Margiotta, Il Nuovo Teatro in Italia 1968-1975, Pisa, Titivillus, 2013; V. Valentini, Nuovo teatro Made in Italy, Roma, Bulzoni, 2015; E.G. Bargiacchi, R. Sacchettini (a cura di), Cento storie sul filo della memoria. Il “Nuovo Teatro” in Italia negli anni ‘70, Pisa, Titivillus, 2017; C. Tafuri, D. Beronio (a cura di), Ivrea cinquanta. Mezzo secolo di Nuovo Tetro in Italia 1967-2017. Atti del Convegno (Genova, 5-7 maggio 2017), Genova, Akropolis Libri, 2018.
4 S. Chinzari, P. Ruffini, Nuova scena italiana, Roma, Castelvecchi, 2000; R. Molinari, C. Ventrucci (a cura di), Certi prototipi di teatro: storie, poetiche, politiche e sogni di quattro gruppi teatrali, Milano, Ubulibri, 2000.
5 A questo proposito si veda il secondo numero della rivista di cinema Brancaleone, a cura di Vincenzo Buccari, Emiliano Morreale, Luca Mosso e Alberto Pezzotta, intitolato Il cinema e il suo doppio: «Il punto su cui vorremmo riflettere è un altro: siamo convinti che una certa tendenza del teatro italiano contemporaneo (Motus, Teatro delle Albe, Teatrino Clandestino, i precursori della Socìetas Raffaello Sanzio, Kinkaleri, Fanny & Alexander, Pippo Delbono, Danio Manfredini, Armando Punzo, Emma Dante...) costituisca, per certi versi, quel che il cinema di oggi non sa e non riesce a essere. Detto altrimenti: oggi, in Italia, spesso il teatro è il cinema che ci manca» (Brancaleone, 2007, 2, p. 9).
6 R. Sacchettini, ‘Il teatro di oggi, la memoria dei Settanta’, Alfabeta, 8 aprile 2018 <https://www.alfabeta2.it/tag/rodolfo-sacchettini/> [accessed 22 febbraio 2020]; O. Ponte di Pino (a cura di), Teatro e cinema: un amore non (sempre) corrisposto, Milano, Franco Angeli, 2018.
7 A questo proposito si veda Fanny & Alexander, Ada. Romanzo teatrale per enigmi in sette dimore liberamente tratto da Vladimir Nabokov, Milano, Ubulibri, 2006.
8 Per approfondimenti F. Quadri, ‘I bambini maledetti dentro la scatola magica’, la Repubblica, 30 giugno 2003; R. Palazzi, ‘Gli abissi inquieti dell’adolescenza’, Domenica, supplemento a Il Sole 24 ore, 6 luglio 2003; R. Sacchettini, ‘Ada e Van, insetti incestuosi’, Lo straniero, luglio 2004.
9 Fanny & Alexander, O/Z. Atlante di un viaggio teatrale, Milano, Ubulibri, 2010. Il viaggio della compagnia nel meraviglioso mondo di Oz non si ferma: nel 2017 Chiara Lagani traduce e cura per la collana I millenni di Einaudi il volume I libri di Oz che comprende tutti e tredici i romanzi della saga; Fanny & Alexander l’anno successivo produce il recital I libri di Oz e nel 2019 lo spettacolo per bambini Oz, costruito attraverso una complessa drammaturgia ‘ad albero’: gli spettatori tramite piccoli telecomandi possono far compiere ai personaggi delle scelte che orientano la narrazione (un po’ sul modello di Bandernsacht, puntata interattiva della serie Netflix Black Mirror).
10 Sulla natura unidimensionale del radiodramma rimando a R. Sacchettini, La radiofonica arte invisibile. Il radiodramma italiano prima della televisione, Pisa, Titivillus, 2011.
11 Oltre al classico di Vance Packard, I persuasori occulti (Torino, Einaudi, 1958) si fa riferimento nello spettacolo a R. H. Thaler, C. R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, Milano, Feltrinelli, 2009.
12 Vale la pena ricordare anche la conferenza spettacolo To be or not to be Roger Bernat. In questo caso l’eterodirezione è esplicitamente messa in relazione con Roger Bernat, uno degli artisti più interessanti della scena internazionale contemporanea, che da anni lavora sulla manipolazione degli attori e degli spettatori tramite dispositivi acustici, come le cuffie. L’eterodirezione è inserita in una sensibilità europea propria di una precisa scena teatrale. Ripetere le battute di un copione teatrale è come eseguire degli ordini? Che scelta ha l’attore? Amleto diventa il campo testuale per l’attore Marco Cavalcoli che veste i panni di Bernat, per proporre in modo divertito celebri interpretazioni del principe di Danimarca.