1.«Possa ognor, felice appieno, teco l’Anglia giubilar!»
Uneasy lies the head that wears a crown.
William Shakespeare, King Henry Fourth, Second part, III, 1 (1598)
Nobile e silente, l’ombra di un cervo si aggira sul palcoscenico. Rappresenta il richiamo della natura, violata e assente, un eden d’incorrotta perfezione. Ma fors’anche qualcosa in più: è la prima di una lunga serie di citazioni con cui Davide Livermore costella la sua produzione di Elisabetta regina d’Inghilterra di Gioachino Rossini, nell’agosto del 2021, per il cartellone del Rossini Opera Festival di Pesaro.[1]
Programmato (casualmente?) nel 2020, in tempi di Brexit, il dramma per musica rossiniano è stato ‘recuperato’ l’anno successivo: appuntamento lungamente atteso per la caratura storica dell’opera, titolo di esordio del Pesarese a Napoli, il 4 ottobre del 1815, «giorno onomastico di Sua Altezza Reale il Principe ereditario delle Due Sicilie», come recitava il frontespizio del libretto del debutto; ma anche atto di battesimo di un settennato che avrebbe consacrato, al tempo stesso, la gloria imperitura di Rossini e le fortune di Domenico Barbaja, impresario dei Reali Teatri di Napoli.[2] Su libretto di Giovanni Schmidt, Elisabetta era dunque il primo titolo di quell’«engagement» che presto si sarebbe rivelato come il più significativo e duraturo nella carriera di Rossini, perfezionato proprio dopo il successo dell’opera in un contratto destinato a estendersi su «plusieurs années»,[3] fino al 1822.[4] Di più: dietro la scelta del soggetto, di fonte francese e italiana, si celava il desiderio di un uso celebrativo del «Teatro del Re», che proprio nelle tormentate vicende della regina Tudor coniugava un tributo alle milizie britanniche, strategiche nella restaurazione dell’ancien régime, come alla clemenza del nuovo – e al tempo stesso vecchio – corso, di cui si esaltava programmaticamente la lungimiranza politica.[5]