In occasione della prima del suo Otello in scena al San Carlo di Napoli nel dicembre 2021, il regista Mario Martone dichiara:
Sui giornali, quando una donna viene uccisa l’uomo dice che la amava. Un aspetto che prima non si considerava: ma non possiamo non guardarlo. Oggi avrei difficoltà a vedere un uomo che piange la donna che ha ucciso, con la bellezza di Verdi e Shakespeare. Quella bellezza c’è, ma come raccontarla?[1]
La domanda del regista napoletano non nasce esclusivamente dal suo confronto personale con il capolavoro verdiano, un vero e proprio ‘corpo a corpo’ da cui è emersa una Desdemona combattente e affatto angelicata, protagonista di un finale profondamente perturbante e innovativo (come racconta su queste stesse pagine Massimo Fusillo). Quella sollevata da Martone è infatti una necessità che anche nel mondo della lirica è diventata ormai ineludibile: quella di confrontarsi con i nodi politici che sostengono la narrazione operistica, e in particolare con le sue politiche di genere.
Che l’opera lirica, e in particolar modo il melodramma ottocentesco, sia una estenuante litania di morti di donne eccezionali è noto almeno a partire da L’opera lirica, o la disfatta delle donne della femminista francese Catherine Clément (1979), che aveva puntato il dito senza remore contro le dinamiche intrecciate di sadismo e misoginia che permettono al melodramma popolare di celebrare personagge meravigliosamente eccentriche solo per poi godere della loro morte, tragica e spesso cruenta:
le donne, sulle scene dei teatri lirici, cantano, immutabilmente, la loro eterna disfatta. Mai l’emozione è così straziante come nel momento in cui la voce si alza nel canto del cigno. [...] Poche donne accedono al grand’intrigo maschile attorno a questo spettacolo concepito per adorare, e uccidere, il personaggio femminile.[2]
La chiave, per Clément, è proprio nel libretto, che nel suo ruolo apparentemente ancillare rispetto alla pervasività emotiva della musica riesce a far sedimentare in maniera quasi surrettizia il messaggio ideologico: le donne che trasgrediscono l’ordine patriarcale, che desiderino ad esempio la redenzione pur essendo prostitute (Violetta in La traviata); la libertà di lasciare un uomo che non amano più (Carmen); ribellarsi alla violenza anche sessuale del potere (Tosca); o semplicemente essere amate, «di un bene piccolino», e non solo usate come esotici oggetti sessuali (Madama Butterfly)… Tutte devono morire; di una ‘bella morte’ certo, perché su quel cadavere si stabilizzano le ambivalenze, si instaura il confine tra il sé e l’altra, tra il normativo e l’abietto. È inevitabile che il ‘canone’ di Clément sia strategicamente essenzialista, e volutamente ignori ad esempio l’opera buffa, dove la ribellione delle donne di norma viene premiata (spesso con un marito ricco), o l’opera barocca, dove i molti ruoli en travesti rendono il binarismo di genere più fluido, aperto a incarnazioni stratificate e antinormative, come racconta un’altra femminista francese (autrice con Clément del fondamentale La jeune née), Hélène Cixous nel suo Tancredi continua.[3]
La questione, tuttavia, resta aperta. E che a più di quarant’anni dalla pubblicazione del saggio di Clément questo tipo di interrogazione del canone lirico sia ormai imprescindibile lo ha mostrato anche un evento chiave degli ultimi anni, che ha probabilmente segnato un momento decisivo nella nuova metamorfosi dell’opera lirica da genere elitario a forma ‘diversamente’ popolare attraverso il medium televisivo, l’‘eccezionale’ prima della Scala del 2020 che, com’è noto, non ha potuto avere luogo nella sua forma tradizionale a causa della pandemia. Nello spirito che ha animato molte iniziative del teatro e della lirica in questo frangente, si è deciso però di non annullare l’evento bensì di ripensarlo in una forma adatta alla trasmissione televisiva. Non si è trattato di un caso isolato: gli stessi giorni hanno visto la trasmissione del film-opera Il barbiere di Siviglia prodotto dall’Opera di Roma e diretto da Mario Martone; [4] A riveder le stelle, ideato da Davide Livermore per la Scala e andato in onda il 7 dicembre, segue però una strada diversa,[5] che all’allestimento di un’opera intera preferisce uno spettacolo ispirato dalla formula del varietà (in senso non necessariamente deteriore), con arie d’opera per lo più famose interpretate da cantanti tra i più noti dell’attuale panorama internazionale (Luca Salsi, Lisetta Oropesa, Francesco Meli, e anche Placido Domingo nella sua nuova carriera da baritono), con intermezzi affidati ad attrici e attori del piccolo e grande schermo (con in apertura Massimo Popolizio) nonché a intellettuali con il compito di ‘mediare’ le complessità dello spettacolo operistico per un pubblico che sarebbe stato, almeno nelle previsioni della produzione, non di soli appassionati. Previsioni che si possono dire ampiamente avverate, se lo spettacolo ha raggiunto oltre due milioni e mezzo di spettatori solo per la diretta, senza contare (come sempre in questi casi) chi ha fruito di tutto o parti dello spettacolo in differita grazie allo streaming.[6]
Tra queste ‘pillole’ di commento, quella di Michela Murgia, pubblicata sul programma di sala con il titolo ‘La voce ai deboli’, affronta in maniera diretta i nodi problematici della narrazione lirica rispetto alle politiche di genere. Murgia parte dalla natura popolare del genere nel suo momento di massimo splendore: «Sarebbe un errore lasciarsi ingannare dai costumi sontuosi, dall’imponenza della musica o dagli stucchi dorati dei palchi dei teatri: la musica lirica è un’arte per tutti e le classi popolari, anche se in loggione, ci sono sempre andate. La ragione è semplice: ci si riconoscevano».[7] Al pubblico, idealmente altrettanto ‘popolare’, dello spettacolo televisivo Murgia offre una rilettura del canone lirico dal basso, in grado di dare spazio a tre categorie di marginalità: «la servitù, i poveri, e le donne».[8] Qui emerge l’autorevolezza di Murgia intellettuale e commentatrice femminista; all’autrice, che nello stesso anno firma Stai zitta: e altre nove frasi che non vogliamo sentire più,[9] non sfugge certo che «nei libretti d’opera le eroine spesso muoiono, perché nelle società che vengono messe in scena il solo posto di una donna che vuole essere pienamente sé stessa è la tomba».[10] Questo però non rende l’opera ideologicamente insalvabile: al contrario, Murgia ne celebra il potenziale destabilizzante, trasformando l’acuto dell’eroina in punto di morte in un grido rivoluzionario: «il teatro d’opera è il luogo in cui il silenzio dei diseredati si è trasformato in un acuto potente che ha vibrato nei secoli ininterrotto fino a spezzare le certezze cristalline dei signori di ogni tempo».[11]
La posizione di Murgia non è in realtà isolata, ma riecheggia (forse involontariamente) diverse posizioni della corrente nota come ‘new musicology’ a cui ha dato inizio, tra l’altro, proprio la traduzione in inglese del testo di Clément nel 1989.[12] Questa pubblicazione ha sollecitato, nel giro di pochi anni, la pubblicazione di testi seminali come Feminine Endings di Susan McClary (1991), la miscellanea Musicology and Difference curata da Ruth Solie nel 1993, e poi The Queen’s Throat di Wayne Koestenbaum nel 1994, che apre agli studi queer con un’indagine tuttora assolutamente innovativa del fandom omosessuale del melodramma.[13] E se McClary, nella sua monografia sulla Carmen di Georges Bizet, tiene il punto sull’intreccio ideologico che richiede la morte della protagonista in quanto gitana e donna libera,[14] Koestenbaum, insieme ad altre teoriche come Elizabeth Wood e Carolyn Abbate, esplora invece le potenzialità antinormative della voce femminile nel melodramma. In particolare Abbate, nel suo saggio incluso in Musicology and Difference dal titolo Opera, or, the Envoicing of Women, risponde esplicitamente all’argomentazione di Clément e individua nella voce della cantante un principio di agency tutta al femminile, definito attraverso uno dei concetti più noti del femminismo francese, l’écriture féminine: «can we identify what might be called a musical écriture féminine as a female authorial voice that speaks through a musical work written by a male composer?».[15]
La risposta di Abbate è, naturalmente, affermativa: non solo la cantante è l’autrice del suono, in concorrenza con l’onnipotente, eppure silente, voce autoriale (alla base delle letture di Clément e McClary); essa è anche il luogo della non significazione e dell’emergenza del represso, in cui l’oppressione del femminile nella narrazione viene riscattata da una fantasia di potenza. È questa lettura in contrappunto che si ritrova, ‘in pillole’, anche nella posizione di Murgia e nella sua celebrazione dell’opera lirica come genere che dà voce alle marginalità di classe e genere. Però non bisogna dimenticare che di contrappunto si tratta; che questa voce sovversiva può emergere solo in dialogo con quel «grande intrigo» che racconta Clément e che non si può semplicemente dismettere come un vecchio costume di scena. C’è bisogno, insomma, di un’operazione di esegesi, come accade quando nel binarismo musica-libretto si inserisce un terzo termine (quello che sempre provoca la crisi delle categorie, sostiene Marjorie Garber in un noto saggio sul travestitismo),[16] ossia la messa in scena. Queste sollecitazioni trovano infatti ampia risonanza in allestimenti degli ultimi anni, in cui l’opera lirica deve confrontarsi, da un lato, con la contrazione del suo pubblico (l’opera ‘per ricchi’ di cui parla Murgia) e dall’altro con l’attuale problematicità delle vicende che narra.
Martone, insieme ad altre registe e registi come Emma Dante, Robert Carsen, Graham Vick, Valentina Carrasco, coglie la sfida del melodramma oggi: se non si può negare la bellezza di quel «canto del cigno» di cui parla Clément, nemmeno la si può riproporre ignorando – oppure, freudianamente, reprimendo – il messaggio ideologico di cui è intrisa in nome di una acritica celebrazione della differenza, rendendo così la critica femminista un gesto retorico, un automatismo svuotato di rilevanza politica. Questo potrebbe essere il rischio di letture esclusivamente celebrative come quella di Murgia (sicuramente influenzato dal ‘contenitore’ in cui è presentata) o di regie che cercano di cavalcare il dibattito contemporaneo con operazioni forse non felici dal punto di vista drammaturgico ma certo mediaticamente molto efficaci, come la Carmen diretta da Leo Muscato nel 2018 per il Maggio Musicale Fiorentino, in cui nel finale è Carmen ad uccidere Don José.[17] L’aperta contestazione da parte dal pubblico nonché le critiche apparse sulla stampa nazionale, che ne hanno però garantito una certa longevità in un mondo in cui spesso gli allestimenti non durano più di una stagione, dicono molto non solo sulla difficile riuscita di tali operazioni dal punto di vista estetico, ma anche sul rapporto complesso che il pubblico del melodramma ha con questo genere al contempo così lontano e che pure parla in maniera così viscerale al nostro presente.
E dunque, come si racconta la bellezza dell’opera lirica oggi? Dove bellezza sta per esperienza estetica che non si appoggia acriticamente all’autorevolezza del canone lirico (come si pretende di fare con il rispetto di fantomatiche intenzioni autoriali) ma nemmeno cerca soluzioni consolatorie che rendano l’orrore e la sofferenza raccontati dal melodramma più digeribili ad un’ipotetica sensibilità contemporanea. E sono molti gli esempi di regie che si fanno carico e giocano con le ambivalenze e le complessità di una tradizione culturale di peso, con l’obiettivo di offrire uno spettacolo disturbante e di creare una serie di diffrazioni; spesso ricorrendo all’intertestualità che, attraverso un reticolo di rimandi e citazioni, metta l’opera in dialogo con altre forme artistiche e narrazioni della contemporaneità. Tento di proporre, a mo’ di conclusione provvisoria, una breve carrellata di esempi che non pretendono assolutamente di essere esaustivi nemmeno rispetto all’allestimento da cui sono tratti, ma che individuano appunto momenti in cui musica, libretto e allestimento lavorano in contrappunto, creando un effetto di disarmonia e ambivalenza che cerca di raccontare la bellezza del melodramma per il nostro tempo.
Primo esempio: Carmen, diretta da Emma Dante (Teatro alla Scala, 2009). Durante la famosa habanera del primo atto, che presenta la protagonista dell’opera di Bizet come stereotipo di donna esotica creato dal desiderio maschile europeo,[18] Dante veste la protagonista non nel tradizionale rosso, ma in un bianco sporco né allusivo né virginale. Inoltre, la accompagna, oltre che con donne adulte, con ragazzine adolescenti; ed è una di loro a lanciare, non come un dono ma come un’arma inoffensiva e giocosa, il famigerato fiore a Don José. Alla zingara seduttrice e demoniaca, che la musica orientalista ed esotizzante della habanera continua a raccontare, si pone in contrappunto questa rappresentazione ludica, libertina ma tutto sommato innocua del suo desiderio. Una volta disinnescata la caratterizzazione dell’eros di Carmen come predatorio e pericoloso, emerge esplicitamente la violenza feroce e la funzione repressiva della sua morte, a cui resta ben poco di necessario e consolatorio.
Secondo esempio: Don Giovanni, diretto da Robert Carsen (Teatro alla Scala, 2011). Rispondendo a suo modo all’annosa questione «ma Donn’Anna cosa ha voluto?», Carsen ci mostra in apertura i due amanti (Don Giovanni e Donna Anna, per l’appunto) che si rotolano nel letto, in una lotta che non è altro che un gioco di seduzione. L’azione scenica sfrutta l’ambiguità giocosa dello spartito mozartiano, riscrivendo la scena di tentato stupro descritta dal libretto; un passaggio cruciale e complesso, in cui il desiderio femminile è invece spesso rimosso per evitare il rischio di cadere nella trappola ideologica del ‘se l’è cercata’. Carsen sceglie invece di esaltare l’ambiguità della agency nel rapporto tra Don Giovanni e Donna Anna; e questo evita l’appiattimento di Donna Anna nel ruolo di vittima, esplorandone al contrario la complessità psicologica nel passaggio feroce dalla gioia dell’amante al dramma dell’uccisione del padre.
Terzo esempio: Rigoletto, diretto da Damiano Michieletto (Teatro dell’Opera di Roma, 2020). Si tratta di una delle prime opere ad essere messe in scena con i limiti dei protocolli imposti dalla pandemia, tra cui l’assenza del coro in scena e l’obbligo di mantenere una distanza tra i cantanti di almeno due metri. Questo conduce il regista ad una scelta rivoluzionaria nella scena finale: quando Rigoletto apre il sacco in cui dovrebbe trovare il Duca di Mantova e invece trova la figlia che si è fatta uccidere per salvare l’uomo che amava, Gilda appare dalle quinte in forma fantasmatica, vestita da sposa, su un palco inondato da una luce che vira dall’azzurro ad un rosso-arancio per nulla celestiale. Questa scelta trasla su un piano sovrannaturale le armonie conciliatorie di Gilda, sottraendole al piano di realtà di Rigoletto. Così il gesto della protagonista resta privato della sua aura sacrificale e si cristallizza un sogno adolescenziale che non entra mai nella maturità: il vestito da sposa è un Leitmotiv di questo allestimento, e già appare durante l’esecuzione di Caro nome in un video che racconta la fantasia di Gilda mentre la ragazza canta, opportunamente, su una enorme giostra. L’effetto è quello di creare uno scollamento irreparabile tra questo livello immaginario e la realtà di Rigoletto, immersa in una violenza criminale che ricorda l’immaginario cinematografico di Arancia meccanica, rispetto al quale nessun sacrificio è necessario perché manca la possibilità di redenzione.
Ultimo esempio: Un ballo in maschera, ultima regia ideata da Graham Vick e completata dopo la sua scomparsa da Jacopo Spirei (Teatro Regio di Parma, 2021). In questo caso, la direzione e la regia hanno operato un’esegesi sinergica: il direttore Roberto Abbado mette in scena la versione non censurata dell’opera di Verdi, nota come Gustavo III, ambientata nella corte svedese invece che nella lontana colonia di Boston. Torna quindi il riferimento, oggetto della censura originaria, ad un regnante realmente esistito: una figura pubblica molto discussa non solo per la sua visione assolutistica del potere monarchico (che lo fece schierare per Luigi XIV durante la rivoluzione francese) ma anche per la sua (vera o presunta) omosessualità. Si potrebbe dire che Verdi rappresenti più il primo aspetto che il secondo, dato che l’opera si concentra soprattutto sulla congiura e sul conseguente regicidio. Tuttavia, la relazione tra il protagonista e il Conte Anckarström (Renato nel Ballo) è caratterizzata da una forte amicizia e dall’amore per la stessa donna (Amelia), in una rappresentazione classica del desiderio triangolare che però ricorda anche molto il desiderio maschile omosociale raccontato da Eve Kosofsky Sedgwick nel suo Between Men.[19] Vick tematizza questa dinamica con un’ambientazione dove, in generale, la maschera è spesso cross-dressing, in particolar modo nel caso del personaggio en travesti, Oscar; ma soprattutto con una citazione diretta, a partire dalla seconda parte del primo atto ambientata nell’antro della strega Ulrica, da un classico del cinema omosessuale (e non solo) come Querelle de Brest di Rainer Werner Fassbinder (1982). La messa in scena riverbera del legame tra desiderio erotico omosessuale e pulsione di morte raccontato nel film di Fassbinder, e così accentua le sfumature omoerotiche del rapporto tra Gustavo/Riccardo e il Conte Anckarström/Renato, senza però rimuoverne le dinamiche violente e in ultima istanza (auto)distruttive. In questo modo l’allestimento si tiene ben lontano da qualsiasi tentazione di pinkwashing (l’uso per l’appunto innocuo e consolatorio di ambientazioni ‘arcobaleno’), esaltando al contrario la potenzialità violenta di un forte legame omosociale in una struttura basata sull’eterosessualità normativa.
Cosa hanno in comune questi esempi? Di non glissare sui ‘cattivi sentimenti’, sulla violenza e l’orrore che sono il cardine dell’esperienza estetica del melodramma; di non sottrarsi nel raccontarne le dinamiche di ingiustizia, violenza, sopraffazione in nome di un’ideologia egemonica; e di provare a farne, ancora e di nuovo, sollecitazione insieme etica ed estetica, di mostrarne dunque la bellezza.
*Questo articolo nasce nell’ambito del progetto di ricerca A.R.I.E. – Audience, Remediation, Iconography, Environment in Contemporary Opera (redatto all'interno del “PIAno di InCEntivi per la RIcerca di Ateneo - PIA.CE.RI. 2020/2022” linea 2) coordinato dalla Professoressa Stefania Rimini (Università degli Studi di Catania).
1 V. Cappelli, ‘Mario Martone sposta l’Otello di Verdi su Desdemona: “Questa è la storia di un femminicidio”’, Corriere della sera, 12 novembre 2021,
2 C. Clément, L’opera lirica, o la disfatta delle donne, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 11-12.
3 H. Cixous, ‘Tancredi Continua’, in P. Bono (a cura di), Scritture del corpo. Hélène Cixous. Variazioni su un tema, Roma, Luca Sossella Editore, 2000, pp. 57-78.
4 Su questi temi si rimanda al contributo di Laura Pernice contenuto all’interno del focus:
5 Per una prima indagine sull’impianto drammaturgico e intermediale dello spettacolo si rimanda a G. Carluccio, S. Rimini, ‘Ri-mappare l’Opera. A riveder le stelle di Davide Livermore’, «Fata Morgana Web», 14 dicembre 2020 <https://www.fatamorganaweb.it/a-riveder-le-stelle-livermore-chailly/> [accessed 10 january 2022].
6 AGI, ‘Lo spettacolo della Scala ha fatto un boom di ascolti’, <https://www.agi.it/spettacolo/teatro/news/2020-12-08/teatro-scala-spettacolo-boom-ascolti-10600054/> [accessed 10 january 2022].
7 M. Murgia, ‘La voce ai deboli’, A riveder le stelle, Milano, Teatro alla Scala, p. 24.
8 Ibidem.
9 M. Murgia, Stai zitta: e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Torino, Einaudi, 2021.
10 M. Murgia, ‘La voce ai deboli’, p. 24.
11 Ibidem.
12 C. Clément, Opera, or the Undoing of Women, London, Virago, 1989.
13 S. McClary, Feminine Endings. Music, Gender and Sexuality, Oxford, Minnesota: University of Minnesota Press, 1991; R. A. Solie, (a cura di), Musicology and Difference: Gender and Sexuality in Music Scholarship, Berkeley, University of California Press, 1993; W. Koestenbaum, The Queen’s Throat. Opera, Homosexuality, and the Mystery of Desire, London, Penguin, 1994.
14 S. McClary, Georges Bizet, Carmen, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.
15 C. Abbate, ‘Opera; or, the Envoicing of Women’, in R. A. Solie (a cura di), Musicology and Difference, p. 229.
16 M. Garber, Vested Interests. Cross-Dressing and Cultural Anxiety, New York and London, Routledge, 1992.
17 G. Moppi, ‘Fischi al Maggio per la Carmen che non muore’, La Repubblica, 8 gennaio 2018, <https://firenze.repubblica.it/tempo-libero/articoli/musica/2018/01/08/news/fischi_al_maggio_per_la_carmen_che_non_muore-186053912/>, [accessed 10 january 2022].
18 Vedi J. Tambling, Opera, Ideology, and Film, Manchester, Manchester University Press, p. 37.
19 Vedi R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita [1977], Milano, Bompiani, 2020; e E. Kosofsky Sedgwick, Between Men. English Literature and Male Homosocial Desire, New York, Columbia University Press, 1985.