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Come si racconta la bellezza dell’opera lirica oggi? Laddove con bellezza si intende l’esperienza estetica che non si appoggia acriticamente all’autorevolezza del canone lirico, ma nemmeno cerca soluzioni consolatorie che rendano più digeribili l’orrore e la sofferenza raccontati dal melodramma. Questa è la questione cruciale che il saggio pone e alla quale prova a rispondere percorrendo un doppio binario. Da un lato il ricorso al pensiero della critica femminista francese e della new musicology anglosassone, che hanno considerato i nodi problematici della narrazione operistica in relazione alle sue politiche di genere; dall’altro l’analisi miratamente calibrata in quest’ottica di quattro allestimenti del teatro musicale contemporaneo (Carmer di Emma Dante, Don Giovanni di Robert Carsen, Rigoletto di Damiano Michieletto, Un ballo in maschera di Grahm Vick) che, mettendo l’opera in dialogo interstuale con altre forme artistiche, affrontano la più ardua sfida del presente opersitico: raccontare la violenza e l’orrore che sono il cardine dell’esperienza estetica del melodramma, e dunque provare a farne, ancora e di nuovo, sollecitazione insieme etica ed estetica, esperienza di bellezza.    

How is the beauty of opera told today? Where beauty means the aesthetic experience that does not uncritically rely on the authoritativeness of the opera canon, but neither does it seek consolatory solutions that make the horror and suffering narrated by melodrama more digestible. This is the crucial question that the essay poses and to which it tries to respond by following a double binary. On the one side, there is the recourse to the thought of French feminist criticism and of the Anglo-Saxon new musicology, which have deal with the problematic nodes of opera narration in relation to its gender politics; on the other side, the analysis of four productions of the contemporary musical theater (Carmer by Emma Dante, Don Giovanni by Robert Carsen, Rigoletto by Damiano Michieletto, Un ballo in maschera by Grahm Vick) which, by placing opera in an intertextual dialogue with other artistic forms, face the most difficult challenge of the operistic present: to recount the violence and the horror that are the fulcrum of the aesthetic experience of melodrama, and thus to try to make it, one again, a solicitation that is both ethical and aesthetic, an experience of beauty.

In occasione della prima del suo Otello in scena al San Carlo di Napoli nel dicembre 2021, il regista Mario Martone dichiara:

La domanda del regista napoletano non nasce esclusivamente dal suo confronto personale con il capolavoro verdiano, un vero e proprio ‘corpo a corpo’ da cui è emersa una Desdemona combattente e affatto angelicata, protagonista di un finale profondamente perturbante e innovativo (come racconta su queste stesse pagine Massimo Fusillo). Quella sollevata da Martone è infatti una necessità che anche nel mondo della lirica è diventata ormai ineludibile: quella di confrontarsi con i nodi politici che sostengono la narrazione operistica, e in particolare con le sue politiche di genere.

Che l’opera lirica, e in particolar modo il melodramma ottocentesco, sia una estenuante litania di morti di donne eccezionali è noto almeno a partire da L’opera lirica, o la disfatta delle donne della femminista francese Catherine Clément (1979), che aveva puntato il dito senza remore contro le dinamiche intrecciate di sadismo e misoginia che permettono al melodramma popolare di celebrare personagge meravigliosamente eccentriche solo per poi godere della loro morte, tragica e spesso cruenta:

La chiave, per Clément, è proprio nel libretto, che nel suo ruolo apparentemente ancillare rispetto alla pervasività emotiva della musica riesce a far sedimentare in maniera quasi surrettizia il messaggio ideologico: le donne che trasgrediscono l’ordine patriarcale, che desiderino ad esempio la redenzione pur essendo prostitute (Violetta in La traviata); la libertà di lasciare un uomo che non amano più (Carmen); ribellarsi alla violenza anche sessuale del potere (Tosca); o semplicemente essere amate, «di un bene piccolino», e non solo usate come esotici oggetti sessuali (Madama Butterfly)… Tutte devono morire; di una ‘bella morte’ certo, perché su quel cadavere si stabilizzano le ambivalenze, si instaura il confine tra il sé e l’altra, tra il normativo e l’abietto. È inevitabile che il ‘canone’ di Clément sia strategicamente essenzialista, e volutamente ignori ad esempio l’opera buffa, dove la ribellione delle donne di norma viene premiata (spesso con un marito ricco), o l’opera barocca, dove i molti ruoli en travesti rendono il binarismo di genere più fluido, aperto a incarnazioni stratificate e antinormative, come racconta un’altra femminista francese (autrice con Clément del fondamentale La jeune née), Hélène Cixous nel suo Tancredi continua.[3]

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Il teatro e la musica erano un tutt’uno, e poi si sentiva il riferimento a un luogo preciso del mondo che sotterraneamente dialogava con tutti gli altri. [...] In certi passaggi del concerto era impossibile stare fermi; la musica ti comunicava un’eccitazione del corpo incontenibile, la testa ondeggiava veloce, il piede batteva sul pavimento, la poltrona del teatro dondolava.[1]

La musica degli Osanna, scoperta dal protagonista del romanzo di formazione di Silvio Perrella nella città partenopea Giùnapoli è esperienza del corpo. E come tale, potente eccitamento dei sensi e della mente.

Il corpo è ritmo e movimento: ogni esperienza estetica lo attraversa in maniera dinamica, stimolando una percezione della realtà nuova, diversa, multimodale, potenziata, acuita e, al contempo, una produzione di senso determinata dalla pervasività dei sensi e dalla condivisione empatica con gli altri. In questa esperienza sentimento e ragione, emozione e pensiero interagiscono in modalità sempre diverse e irripetibili, in parte determinate dalla soggettività, in parte dall’interazione emotiva e cognitiva con l’altro.

Come era ben noto sin dall’antichità, nella performance teatrale l’esperienza estetica è totalizzante: coinvolge la vista, l’udito, l’olfatto, il battito cardiaco, le ghiandole sudorifere, la salivazione, in breve la dimensione corporea nella sua interezza. E tramite il corpo, che si fa specchio di quello attante in scena, in grado di simulare forti emozioni Ê»artificialmenteʼ indotte dalla tecnica attoriale, sviluppa la sua efficacia empatica di condivisione emotiva e cognitiva con gli altri, come sa bene chi maneggia gli strumenti della scrittura teatrale. Uno per tutti Thornton Wilder, che afferma lucidamente in un’intervista: «I regard the theatre as the greatest of all art forms, the most immediate way in which a human being can share with another the sense of what it is to be a human being».[2]

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