Il teatro e la musica erano un tutt’uno, e poi si sentiva il riferimento a un luogo preciso del mondo che sotterraneamente dialogava con tutti gli altri. [...] In certi passaggi del concerto era impossibile stare fermi; la musica ti comunicava un’eccitazione del corpo incontenibile, la testa ondeggiava veloce, il piede batteva sul pavimento, la poltrona del teatro dondolava.[1]

La musica degli Osanna, scoperta dal protagonista del romanzo di formazione di Silvio Perrella nella città partenopea Giùnapoli è esperienza del corpo. E come tale, potente eccitamento dei sensi e della mente.

Il corpo è ritmo e movimento: ogni esperienza estetica lo attraversa in maniera dinamica, stimolando una percezione della realtà nuova, diversa, multimodale, potenziata, acuita e, al contempo, una produzione di senso determinata dalla pervasività dei sensi e dalla condivisione empatica con gli altri. In questa esperienza sentimento e ragione, emozione e pensiero interagiscono in modalità sempre diverse e irripetibili, in parte determinate dalla soggettività, in parte dall’interazione emotiva e cognitiva con l’altro.

Come era ben noto sin dall’antichità, nella performance teatrale l’esperienza estetica è totalizzante: coinvolge la vista, l’udito, l’olfatto, il battito cardiaco, le ghiandole sudorifere, la salivazione, in breve la dimensione corporea nella sua interezza. E tramite il corpo, che si fa specchio di quello attante in scena, in grado di simulare forti emozioni Ê»artificialmenteʼ indotte dalla tecnica attoriale, sviluppa la sua efficacia empatica di condivisione emotiva e cognitiva con gli altri, come sa bene chi maneggia gli strumenti della scrittura teatrale. Uno per tutti Thornton Wilder, che afferma lucidamente in un’intervista: «I regard the theatre as the greatest of all art forms, the most immediate way in which a human being can share with another the sense of what it is to be a human being».[2]

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L’origine della capacità di costruire storie dell’Homo sapiens, a partire dalle teorie darwiniane, ha dato vita a diverse ipotesi che provano a spiegare come il comportamento narrativo possa avere avvantaggiato il genere umano tra tutte le specie, fino a farne l’indiscusso signore del pianeta. Il libro di Michele Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017), nasce in primo luogo dunque nel tentativo di dare una risposta all’interrogativo posto dal titolo, cioè indagare sulle condizioni e le modalità attraverso le quali la narrazione, la fiction e la letteratura possono essere collocate e comprese entro i paradigmi della teoria dell’evoluzione e delle scienze cognitive, prendendo le mosse da recenti acquisizioni dell’archeologia cognitiva che mettono in relazione la produzione di utensili e lo sviluppo di capacità narrative.

L’innovativa prospettiva dello studio di Cometa propone, inoltre, una riflessione sul perché la narrazione abbia un ruolo decisivo nella costituzione del Sé e delle sue protesi esterne, e sulle possibili risposte che a questa domanda danno i teorici della mente estesa e della cognizione incarnata, mettendo in evidenza il ruolo fondamentale del corpo nello sviluppo del comportamento narrativo. Un contributo importante riguarda inoltre la dimensione necessaria della letteratura come straordinario dispositivo di contenimento dell’ansia, che è alla base della strategia di sopravvivenza della specie umana.

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Lungi dal proporre un ventaglio di tesi riduzionistiche,  ripercorrono ogni aspetto del linguaggio filmico (con specifici rimandi ai movimenti della macchina da presa) attraverso il principio dell’experimental aesthetics, che consente di esplorare «la percezione multimodale del mondo attraverso il corpo».

Il regime della visualità cinematografica trova, grazie alle ricerche incrociate di Gallese e Guerra, nuove declinazioni ma soprattutto una sintesi teorica di grande impatto che si spinge fino al confronto con i dispositivi digitali: l’ultimo capitolo è in realtà la premessa di esperimenti che verranno…

Il volume ha vinto il Premio Limina 2016 come Miglior libro italiano di studi sul cinema.

 

 

Parma, 4 novembre 2015

Riprese audio-video: Maria Rizzarelli; montaggio: Salvo Arcidiacono, Simona Sortino

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The time of images has got a neurological and psychic frame, every time different and related both to the expressive aim of the author and to the aesthetic aims and what else of the work. This issue tries to analyze Dario Marzola’s short films, whose formal density is the opportunity for a consideration on the borderline between cinema and neurology. From the unraveling pictures, some steady and ultimate elements of Marzola’s esthetics come out: wisdom of the light, both in wide-open spaces and in film set; the ability to turn a whatever human relationship into the archaic magic of memory and fears; the spacetime of a stream of consciousness which tries to go over prosopagnosia and is called to the need of form. A refined eros, in the end, spreads all over the here discussed works.

Il tempo delle immagini ha una struttura neurologica e psichica ogni volta diversa e funzionale sia alle intenzioni espressive dell’autore sia agli obiettivi – estetici e teoretici – dell’opera. I corti di Dario Marzola[1] lo dimostrano. Essi costituiscono infatti una testimonianza artistica e scientifica che dà conto dei volti (alla lettera) che la memoria può assumere, del suo scorrere ora come un fiume luminoso e sereno ora invece del tramutarsi in incubo, urlo, paura.

1. Coscienza e memoria

Ben lontana dal costituire una serie di fotogrammi statici, la coscienza somiglia a un film che proietta con grande velocità le immagini e i dati percettivi creando in tal modo la varietà e la ricchezza della vita consapevole. In questo senso, la temporalità umana scaturisce immediatamente dal flusso di percezioni corporee che identifica il Sé e gli offre stabilità pur nel velocissimo coacervo delle trasformazioni che ristrutturano continuamente l’io nei suoi rapporti con l’ambiente. Se la coscienza è la manifestazione fondamentale della nostra persona e del nostro esserci nel mondo, è perché essa dà un senso al flusso temporale. Coscienza e memoria sono infatti due espressioni diverse della stessa identità profonda che fa di un umano una parte di mondo consapevole di sé. Essere coscienti significa ricordare. Dalla congiunzione di tempo e memoria nasce anche la capacità di formulare astrazioni e di farlo in un modo immediatamente linguistico. La struttura della mente linguistica, e dunque anche estetica, è del tutto temporale e corporea. A parlare è sempre il corpo. Il nesso fondamentale è pertanto quello tra il cervello, il corpo e il Sé, in quanto senza un senso del Sé non si dànno ricordi e il Sé è costituito dall’insieme della memoria corporea, cioè dall’insieme di eventi che non solo i neuroni ma l’intera corporeità ha percepito, ha registrato, a cui ha reagito. Anche per questo un ‘cervello nella vasca’ non potrebbe elaborare pensiero alcuno, poiché è l’intero corpo che recepisce ed elabora i dati provenienti dall’ambiente. Lo spazio nasce dal corpo isotropo poiché il corpomente che siamo è per ciascuno di noi il centro del mondo, dello spazio e del tempo. È da esso che si dipartono i luoghi e le loro distanze, il tempo con le sue memorie e le attese. Il corpomente consiste in una dinamica simile a quella che vediamo quando lanciamo un sasso sull’acqua: dal punto in cui esso cade si originano dei cerchi concentrici che si ampliano sempre più. Questi cerchi sono lo spaziotempo di ciascuno di noi. La struttura della coscienza è pertanto composta da ricordi semanticamente densi il cui fluire plasma il Sé nell’articolazione di passato, presente e futuro; configurazioni temporali che trovano la loro unitarietà nella corporeità vivente e vissuta.[2]

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