Il tempo delle immagini ha una struttura neurologica e psichica ogni volta diversa e funzionale sia alle intenzioni espressive dell’autore sia agli obiettivi – estetici e teoretici – dell’opera. I corti di Dario Marzola[1] lo dimostrano. Essi costituiscono infatti una testimonianza artistica e scientifica che dà conto dei volti (alla lettera) che la memoria può assumere, del suo scorrere ora come un fiume luminoso e sereno ora invece del tramutarsi in incubo, urlo, paura.
1. Coscienza e memoria
Ben lontana dal costituire una serie di fotogrammi statici, la coscienza somiglia a un film che proietta con grande velocità le immagini e i dati percettivi creando in tal modo la varietà e la ricchezza della vita consapevole. In questo senso, la temporalità umana scaturisce immediatamente dal flusso di percezioni corporee che identifica il Sé e gli offre stabilità pur nel velocissimo coacervo delle trasformazioni che ristrutturano continuamente l’io nei suoi rapporti con l’ambiente. Se la coscienza è la manifestazione fondamentale della nostra persona e del nostro esserci nel mondo, è perché essa dà un senso al flusso temporale. Coscienza e memoria sono infatti due espressioni diverse della stessa identità profonda che fa di un umano una parte di mondo consapevole di sé. Essere coscienti significa ricordare. Dalla congiunzione di tempo e memoria nasce anche la capacità di formulare astrazioni e di farlo in un modo immediatamente linguistico. La struttura della mente linguistica, e dunque anche estetica, è del tutto temporale e corporea. A parlare è sempre il corpo. Il nesso fondamentale è pertanto quello tra il cervello, il corpo e il Sé, in quanto senza un senso del Sé non si dànno ricordi e il Sé è costituito dall’insieme della memoria corporea, cioè dall’insieme di eventi che non solo i neuroni ma l’intera corporeità ha percepito, ha registrato, a cui ha reagito. Anche per questo un ‘cervello nella vasca’ non potrebbe elaborare pensiero alcuno, poiché è l’intero corpo che recepisce ed elabora i dati provenienti dall’ambiente. Lo spazio nasce dal corpo isotropo poiché il corpomente che siamo è per ciascuno di noi il centro del mondo, dello spazio e del tempo. È da esso che si dipartono i luoghi e le loro distanze, il tempo con le sue memorie e le attese. Il corpomente consiste in una dinamica simile a quella che vediamo quando lanciamo un sasso sull’acqua: dal punto in cui esso cade si originano dei cerchi concentrici che si ampliano sempre più. Questi cerchi sono lo spaziotempo di ciascuno di noi. La struttura della coscienza è pertanto composta da ricordi semanticamente densi il cui fluire plasma il Sé nell’articolazione di passato, presente e futuro; configurazioni temporali che trovano la loro unitarietà nella corporeità vivente e vissuta.[2]
Che cosa ci assicura al risveglio, ogni mattina, che siamo ancora noi? Che cosa fa dell’incrocio spaziotemporale di materia una persistenza più forte di ogni cambiamento? Da che cosa dipende e con che cosa è in relazione l’identità del nostro nome? Di tutti questi processi è elemento centrale la memoria, la quale garantisce la continuità nel tempo della molteplicità che ciascun umano è. La mente è infatti plurale, consiste anche in una convivenza di credenze e desideri fra di loro spesso incompatibili e il cui conflitto interno genera i comportamenti che solitamente vengono definiti ‘irrazionali’. L’io è un coacervo, è il risultato assai sofisticato – per quanto sempre fragile – di una serie di strategie incrociate di controllo, nelle quali a volte prevale una tendenza e altre vince quella opposta. La memoria costituisce uno dei pochi, efficaci strumenti di permanenza del sé al di là dei conflitti e del tempo. I confini del soggetto sono pertanto i limiti della sua memoria. Anche per questo è molto importante e fenomenologicamente plausibile la distinzione proposta da Derek Parfit tra continuità (continuity) e connettibilità (connectedness). La continuità senza fratture e senza svolte fra intenzioni, decisioni e azioni del soggetto non dura mai troppo a lungo e più spesso si dà invece «un legame solo parziale fra gli stati mentali successivi di una persona», tanto da trovare «naturale, o quantomeno poco insolito, affermare che la persona che siamo oggi è solo parzialmente connessa a quella che eravamo durante l’adolescenza».[3]
L’io non è soltanto cangiante nel tempo e nello spazio ma è anche costitutivamente legato all’alterità, poiché gli altri – la loro esistenza, la presenza, l’ostacolo e la possibilità che essi sono – lo precedono sempre e, in un rapporto di tensione e di gaudio, lo plasmano. La radice più profonda della soggettività, della memoria, dell’essere persona, risiede sempre nel corpo temporale, nel percorso che il grumo di materia che siamo traccia e lascia dietro di sé e che lo identifica sempre, nonostante gli enormi cambiamenti che esso subisce dalla nascita alla fine. È ciò che Husserl definisce, con efficacia, come la sfera «primordinale» del corpo proprio, che costituisce la prima dimensione non estranea ma consustanziale all’io, la quale fa sì che il Körperhaben, l’avere un corpo, sia cosa assai diversa dal Leibsein, dall’essere una corporeità irriducibile alla mente cognitiva e costituente invece la mente incorporata e situata in un mondo anche culturale e sociale.[4]
L’ipotesi fenomenologica risulta assai feconda poiché la coscienza fenomenologica – provare qualcosa sapendo che la si sta provando, la consapevolezza del come – è molto diversa rispetto alla sola coscienza cognitiva – la percezione del che. Se gli stati mentali sono concettualmente e nomologicamente irriducibili a quelli fisici, pur essendo ontologicamente identici a essi, la ragione è radicale: non si tratta di un semplice dualismo linguistico dei parlanti ma di un’opacità della coscienza a se stessa.[5]
2. Memorare, le streghe, i volti
È anche questa opacità che l’opera di Marzola riesce a restituire in immagini la cui misura temporale favorisce il raggiungimento di livelli assai profondi sia dell’espressione artistica sia della comprensione scientifica. Lamia, Memorare, Worn by Time mettono infatti in scena la mente e il tempo, la struttura temporale della mente. È significativo che anche la gestazione di questi corti sia intrisa di tempo in un modo particolare. Essi nascono da un’opera unitaria che è stata poi ricreata in tre storie diverse sul piano narrativo, fotografico e sonoro. E tuttavia la coerenza del narrato è molto forte: le tre storie sono autonome, ciascuna perfettamente compiuta, ma legate tra di loro da nessi che i dialoghi e le immagini suggeriscono lasciando a chi guarda la possibilità di generare da sé la semantica della vicenda.
Lamia[6] narra la leggenda di una donna serpente – una strega un demone un’antenata? – la cui presenza si intreccia con la vita di una giovane coppia e della loro anziana vicina. Una presenza che a volte diventa farfalla e penetra negli spazi e negli amori dei due. Incubo, delirio e realtà sembrano scolpire il tempo dei protagonisti. Emmanuele chiede a Francesca «Racconta», «Ancora?» «Sì». Dalle parole della ragazza e dalle voci che la accompagnano emerge la memoria profonda delle paure, delle leggende, dei miti. Da questa memoria individuale, di coppia e archetipica, si dipana il terrore di perdersi, di essere divorati dalla passione, dal tempo, dalle tenebre.
Memorare[7] è invece tutto luce. È un luminoso ricordo d’estate, quando la madre conduceva Emmanuele bambino presso un santuario per farlo assistere al volo nuziale delle formiche. Volo mortale per tutti i maschi. Quell’antico evento ricompare di continuo nei giorni del bambino divenuto adulto. Come un mantra, come una litania ritornano le parole della madre alla domanda sul perché si muore: «Perché la vita continui». A caro prezzo quindi il vivente – le formiche come gli umani – paga i pochi istanti dell’amore, della memoria, dell’orgasmo, della luce. Nel momento in cui il bambino e l’adulto sembrano fondersi – ed è questo, credo, il cuore dell’opera di Marzola – Francesca chiede a Emmanuele «Chi sei?» «L’amante degli insetti» «E io?». Qui non c’è risposta. Risposta che tenteremo più avanti.
In Worn by Time[8] un architetto non riesce a completare il progetto al quale lavora. Le linee geometriche del disegno sembrano sfuggirgli così come il volto di Francesca. Eppure gli occhi di lui sono perfettamente integri. Lei chiede: «Guardami» ma il risultato è un groviglio di linee che formano un oggetto frammentato, non un volto.
L’uomo soffre di prosopagnosia, una malattia che impedisce di riconoscere i volti. Nella sua mente, quindi, soltanto ombre e nessuna emozione.
Per loro, i volti (come interi) non esistono. Queste persone sono capaci di vedere le singole caratteristiche del volto di una persona (il naso, il colore delle guance, i denti, la dimensione di occhi e narici, la curvatura delle sopracciglia, il numero di rughe) ma non riescono a cogliere il significato totale di un volto. Il risultato è che queste persone vivono in un mondo senza volti. Se tutti gli abitanti della terra venissero colti dallo stesso disturbo quelle cose che chiamiamo volti cesserebbero ipso facto di determinare effetti e quindi, a rigore, cesserebbero anche di esistere. Nessuno saprebbe di avere un ‘volto’.[9]
La profondità temporale dei vissuti, del percepito, del sentito, dell’immaginato, del pensato, si stratifica negli engrammi e nei ricordi. Esistere significa in gran parte accumulare memorie. Si tratta di una dimensione così centrale e tanto complessa da rendere necessario l’uso del plurale: la memoria degli umani si articola, in realtà, in una ricchezza di forme e di funzioni. Non si tratta soltanto della capacità di conservare le informazioni acquisite ed elaborate, da poter poi utilizzare ogni volta che sia necessario. Tale capacità può descrivere la funzione della memoria ma la sua struttura coincide, di fatto, con la stessa mente come coagulo dei vissuti temporali. Tanto è vero che una delle caratteristiche della memoria è la sua dimensione dinamica, creativa, continuamente rinnovata. I ricordi, infatti, non rimangono sempre identici dal momento della loro creazione ma cangiano di continuo indebolendosi, dissolvendosi, rafforzandosi, mutando significato e persino contenuto. Eventi e pensieri che attribuiamo alla memoria – e che dunque costituiscono per noi ciò che è rimasto di un vissuto – sono in realtà spesso creati a posteriori, frutto di una complessa interazione fra desideri e timori personali, informazioni acquisite nel tempo, racconti e opinioni di altri soggetti, a partire – certo – da un evento dato, del quale rimane però una traccia continuamente sottoposta a revisione, cancellazione, reinvenzione.[10]
3. L’oblio e la memoria corporea
Per il corpomente la memoria è una facoltà preziosa e necessaria così come lo è l’oblio, il dimenticare. In un individuo ipermnesico, che dimentica con difficoltà, la mente si trasforma in un coacervo di sensazioni, immagini, emozioni, prive di un significato coerente poiché è anche la selezione dei ricordi, il loro continuo essere cancellati e riscritti, a dare un senso attivo, vitale, funzionale alla memoria. L’oblio è anche un dono degli déi, un modo per annullare il dolore degli eventi, dissolvere l’angoscia degli errori compiuti e subiti e, quindi, vivere ancora proiettati nella cura del futuro. È questo dono che manca a Ireneo Funes, il personaggio borgesiano che
sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Río Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. […] Ricordava non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata […] Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità.[11]
Le ragioni neurologiche dell’oblio sono soprattutto due: il decadimento della traccia e il fenomeno dell’interferenza. Con traccia si intende un qualsiasi evento immagazzinato nella memoria. Come ogni cosa col tempo trascolora, che sia la pagina di un libro o una roccia del Caucaso, allo stesso modo anche l’evento più vivido, il fatto più importante, il volto più amato, subiscono l’ingiuria degli anni e tendono a dissolversi. L’interferenza è invece l’accavallarsi e il confondersi dei ricordi. Può essere proattiva quando i ricordi più vecchi ostacolano l’acquisizione di materiali nuovi e retroattiva quando, al contrario, dei nuovi dati tendono a sostituirsi ai precedenti sino a cancellarli.
L’oblio – che è non solo fisiologico ma anche assolutamente necessario – degenera in amnesia, fenomeno complesso quanto la memoria stessa. Come, infatti, quest’ultima può essere ulteriormente distinta in retrograda (concernente i fatti che precedono un determinato punto del tempo) e anterograda (rivolta agli eventi successivi a un riferimento temporale), così l’amnesia può essere globale ma può anche riguardare solo gli episodi che precedono un qualche trauma organico o psichico – e dunque amnesia retrograda – o può costituire l’incapacità di fermare nella mente i dati successivi a un certo avvenimento, e allora si chiama amnesia anterograda. Nel primo caso a dissolversi è l’identità, la storia, il fascio di ricordi che è un essere umano. Nel secondo tipo l’esistere sembra fermarsi a un certo istante dell’esserci stato e diventa impossibile continuare a vivere nel tempo, pur mantenendo inalterata la capacità di capire i significati delle parole e degli eventi, di praticare attività ormai acquisite in forma procedurale, di ricordare a breve termine. Nella condizione amnesica si esiste, insomma, in uno Specious Present – l’intervallo oscillante tra i cinque e i dodici secondi che per James è l’original experience dello stare al mondo – ampliato a qualche minuto, si esiste nel passato remoto ma diventa davvero difficile progettare un futuro, poiché esso attinge dalla unitarietà di tutte le fasi temporali, dalla profondità senza pari del tempo vissuto e fattosi carne.[12]
L’oblio sta al centro di Albatross, un’opera multimediale realizzata da Marzola nel 1999 e nata dalla confluenza tra La ballata del vecchio marinaio e il Vangelo secondo Matteo. In essa l'albatros di Coleridge diventa Emmanuele, un Cristo affetto da una sorta di amnesia di fissazione. Ogni giorno, infatti, gli viene detto che sarà ucciso ma all’alba dimentica tutto quello che ha vissuto il giorno prima. È un condannato a morte che dimentica di esserlo. Proprio perché la memoria corporea è assai più profonda di quella soltanto cognitiva, Emmanuele dimentica i ricordi ma non le emozioni, dimentica gli eventi ma non l’angoscia associata ai frammenti di vita. Lo spettacolo mescola videoproiezioni, teatro e danza in un modo che non si limita all’aspetto formale ma diventa nella sua interezza una dolorosa meditazione sul rapporto che ogni umano ha con i propri ricordi, sulla necessità di dimenticare e non soltanto di memorare.
L’essere umano è infatti prima di tutto un animale che ricorda; che parla perché ricorda; che pensa perché parla; che dimentica ciò che pensa – e che vive – e proprio per questo può ancora ricordare. La memoria e l’oblio rappresentano delle condizioni entrambe fondamentali. La privazione progressiva e totale del ricordo conduce alla demenza e alla morte, la distruzione del sé prepara e produce la fine dell’unità psicosomatica che ogni umano rappresenta. La memoria costruisce infatti l’io, fa l’identità di ciascuno, consente di rimanere la stessa entità nel mutare dei luoghi e dei tempi. Ma per ogni agire – come sapeva Nietzsche – ci vuole oblio. La centralità della memoria consiste anche nel suo peso. I ricordi sovrastano il soggetto e lo dominano. Se non venissero progressivamente cancellati lo ucciderebbero paralizzandone l’attenzione, l’attesa, il futuro. In modo molto preciso, Valéry afferma che «l’oblio è l’adattamento della mente a essere nel presente».[13]
La memoria è quindi il tempo stesso dell’uomo. Memoria, tempo, mente, corpo costituiscono una costellazione inscindibile di senso. Il corpo è lo spazio fisico e fenomenologico nel quale la mente e il mondo si toccano nel punto esatto del ricordo, tanto è vero che una progressiva perdita della memoria – causata da traumi cranici o dalla costante e veloce morte dei neuroni che si verifica nei malati di Alzheimer – comporta il progressivo venir meno del significato del sé, e cioè del proprio corpo – alla fine non più riconosciuto, dimenticato come altri corpi, altri oggetti, altri eventi – e della propria identità, dell’io. La memoria e il tempo vissuto, gli Erlebnisse, i vissuti temporali di cui parla Husserl, sono tutto per un essere consapevole; perdendoli si smarrisce il significato stesso della vita e dell’esserci. Si fa dunque chiaro che il corpo è radicalmente intriso di spazio e di tempo e cioè delle coordinate prima di tutto mentali con le quali siamo capaci di sincronizzare i movimenti sinaptici del nostro cervello con il divenire della realtà e con le trasformazioni degli enti, i quali non sono solo un aggregato di atomi, di particelle, di forze gravitazionali ed elettromagnetiche ma costituiscono anche un’interpretazione. Un volto non esiste se non nello sguardo di chi lo fissa; una forma disegnata su un foglio è tale – ha un valore semantico al di là della materia spalmata sulla carta – per chi la osserva. La mente non rispecchia il mondo né lo crea ma si autoproduce insieme a esso. La mente è il luogo fisico, emotivo, espressivo e logico di incontro fra la coscienza autoconsapevole e la realtà della quale essa è la consapevolezza.
4. Sindromi per immagini
Riconoscere un volto è un’attività di tipo aleatorio e non computazionale. La sua soluzione comporta infatti una completa definizione del singolo ente/evento attraverso tutte le possibili alternative, laddove, invece, un algoritmo è una procedura applicabile a innumerevoli casi. Risolvere un problema aleatorio come il riconoscimento di una forma nello spazio o di un volto umano tra tanti comporta il memorizzare tutte le opzioni possibili in modo da trarre dal database della memoria una soluzione che vale solo per quel caso specifico e non per quelli che sono sì ‘analoghi’ (tutti gli altri volti) ma anche irriducibilmente ‘diversi’. Volti e memoria non si incontrano dunque soltanto nello spazio ma costituiscono nella loro relazione l’identità della coscienza con il tempo. Essere riuscito a dire tutto questo attraverso immagini attraversate da poche essenziali parole è uno degli elementi più specifici e fecondi dell’opera di Marzola: un volto non è una raccolta di pixel su uno schermo ma è il luogo fisico e semantico nel quale l’esistenza e i pensieri di un soggetto si condensano; una melodia non si riduce alle note che la compongono o una frase ai suoi lessemi, poiché ciascun componente si spiega, si giustifica, acquista senso solo all’interno dell’intero nel quale viene collocato. Ogni forma di riduzionismo, tesa a spiegare la mente o con la sola struttura fisico-chimico-elettrica del cervello o con processi computazionali di pura comunicazione sintattica, rimane quindi ben al di sotto dei processi insieme biologici e logici che alla mente danno vita e che spiegano perché una faccia non è ancora un volto e «una goccia di liquido che si condensa» non è ancora «una lacrima».[14]
È anche a causa di tali profonde interrelazioni che l’analisi delle anomalie neurologiche e comportamentali può aiutare a comprendere come si strutturi il cervellomente e quanto ricche siano le sue funzioni e possibilità. Mediante l’analisi di alcune sindromi (di Capgras, di Cotard, l’asimbolia del dolore, la prosopagnosia dell’architetto di Worn by Time, l’anasognosia); di fenomeni come l’arto fantasma e la visione cieca; di particolari modalità percettive quali la sinestesia, gli studi neurologici dimostrano l’inseparabilità della sfera emozionale più arcaica e di quella razionale più recente ma sulla quale quest’ultima in gran parte si fonda. La mente non è autonoma dal più ampio contesto antropologico, sociale, culturale, che rappresenta l’humus del cervello, il quale non è soltanto l’organo più complesso del nostro corpo, non è solo uno dei più plastici sin dentro l’età adulta ma è anche fatto in modo tale che le sue stesse anomalie costituiscono una paradossale e tuttavia preziosa strada per conoscerlo meglio e comprendere chi siamo. Le anomalie neurologiche anche più bizzarre sono fondamentali per intendere in modo migliore l’inseparabilità di ragione ed emozioni, la profonda convergenza nell’umano della sfera emozionale filogeneticamente più arcaica e di quella razionale, che è più recente ma che si fonda in gran parte sulla prima.[15]
Emmanuele non riesce più a entrare in dialogo con Francesca perché la prosopagnosia da cui è affetto dissolve a poco a poco l’empatia, la quale affonda le sue radici nello strato più profondo della corporeità autoconsapevole, generata anche dal contributo dei mirror neurons, da quei neuroni che si attivano non soltanto quando un soggetto compie un’azione ma anche quando vede altri compiere gli stessi gesti. I neuroni specchio contribuiscono a fornire una spiegazione neurologica di una serie di fenomeni come la percezione dello spazio, il linguaggio, l’intersoggettività, le emozioni. L’esistenza di tali neuroni mostra, infatti, «quanto radicato e profondo sia il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi»,[16] un Da-sein senza il Mit-sein.
La correlazione profonda tra la semantica dei gesti e l’unità dell’azione viene confermata a livello anche neuronale. Tutto il nostro corpo è coinvolto sempre e a fondo nell’azione; il sistema motorio non è un semplice esecutore di comandi ma è attivo, in particolare nella percezione e decodifica dello spazio in cui la corporeità esiste, si trova, agisce. Già Merleau-Ponty aveva intuito e osservato il legame profondo tra il corpo-proprio (il Leib) e lo spazio, il quale è formato non dai soli luoghi ‘oggettivi’ ma anche dalle nostre intenzioni e dai nostri gesti. Non soltanto lo spazio ma anche il tempo viene coinvolto in questa creazione continua di significati del corpo enattivo. Il lavoro nell’ambito delle neuroscienze mostra sempre più la sua stretta correlazione con alcune delle tematiche classiche della filosofia e della psicologia – la semantica, l’intersoggettività, lo spazio/tempo, il linguaggio, le emozioni – e non solo nella direzione che dalle scienze va alla filosofia ma anche in quella inversa.
A una delle sindromi più estreme – quella di Cotard, nella quale il malato è convinto di essere morto e non c’è modo di fargli intendere l’assurdità di tale asserzione – Marzola va dedicando un’attenzione costante, che si è espressa sinora nella maniera più compiuta in un’opera realizzata nel 2009 con il patrocinio della Sezione «Arte, Musica, Teatro, Cinema e Mass Media» della Società Italiana di Psichiatria: Mnemosyne, la donna che credeva di essere morta.[17] La spiegazione neurologica più plausibile di tale sindrome fa riferimento a un’assenza totale di emozioni da parte del soggetto che ne viene colpito. Il corpomente cerca di trovare una giustificazione a tale deserto emotivo e lo fa arrivando alla paradossale conclusione di essere morto. Per la protagonista, infatti, «tutto quello che tocca, vede, sente e odora non suscita più nulla»; lei ha una «certezza totale di essere morta. E i morti non vanno dal dottore». L’intero mondo si dissolve insieme ai volti e al senso. La difficoltà di rendere per immagini una condizione così estrema è stata superata da Marzola – in occasione della proiezione dell’opera – mediante «un particolare dispositivo immersivo articolato in proiezioni multiple e costituito da uno schermo a 360° in forma di spirale logaritmica. Lo spettatore entra, può muoversi e ne rimane completamente avvolto» (come si legge nella scheda tecnica del film). In questo modo l’opera raggiunge un risultato impensabile: le immagini sembrano proprio scaturire dall’interiorità di una persona che si crede morta. I colori, le ombre, gli sguardi assenti, trovano il loro culmine nella figura di una Pietà il cui cadavere è la donna.
Mnemosyne è figlia di Urano e Gea, della Terra e del Cielo. Senza di essa, infatti, non c’è spazio, non si dà tempo. Come ci ha insegnato Proust, ogni oggetto è anche un evento. In esso si posano, addensano e stratificano gli istanti vissuti e diventati dunque ricordo. Più di ogni altro ente, è il volto umano a costituire la perfezione profonda di tale ricordo poiché in esso lo spazio si fa mobile e il tempo si incarna. Guardarci allo specchio significa anche scoprire di volta in volta l’orologio del mondo, di quel mondo che nato con noi è con noi che finirà. L’impossibilità di riconoscere i volti da parte del protagonista di Worn by Time è dunque drammatica perché è l’impossibilità di scandire l’eventuarsi della vita. Vita fragile e immortale come quella di una farfalla. Questo simbolo, questo insetto, questa presenza, percorrono tutti e tre i corti. La figura intensa e sfuggente di Francesca è probabilmente l’incarnazione umana di questa farfalla/fenice che in pochi istanti consuma il proprio volo ma che rinasce di continuo nello spazio della luce. La donna serpente e farfalla, capace di insinuarsi strisciante nei meandri della memoria e di librarsi nell’aria del presente, è dunque il simbolo più denso con il quale Marzola ha espresso in queste opere la potenza dei corpi e la tenacia della vita.
Tale complessità del corpomente, della memoria, dell’oblio, dell’incontro di due volti e di due storie, è narrata da Marzola attraverso la libertà temporale offerta da un corto. Se infatti il corto può dare l’impressione di un eccesso di vincoli, esso apre in realtà a una densità formale che in questo regista diventa – come abbiamo visto – l’occasione per una riflessione al confine tra cinema e neurologia. Nel dipanarsi delle immagini emergono alcuni elementi costanti e fondanti l’estetica di questo artista: la sapienza della luce sia negli interni, nel loro chiaroscuro pastoso, antico e affilato, sia nella splendida corsa del bambino di Memorare tra i campi; la capacità di trasformare una relazione tra le tante nella magia arcaica della memoria e delle paure (Lamia); lo spaziotempo di un flusso di coscienza che cerca di andare oltre la prosopagnosia e viene inesorabilmente richiamato alla necessità della forma (Worn by Time). Un raffinato eros, infine, pervade tutti e tre i corti e dà ai corpi umani la densità stessa della luce.
1 Il regista italiano Dario Marzola è attivo nei campi della produzione cinematografica e multimediale e della divulgazione scientifica. Alcuni temi trattati nelle sue opere sono la cecità per i volti (Fuochi Fatui, 2008), l’incapacità di creare nuovi ricordi (Albatross, 1999), le allucinazioni (Jerusalem, 2000), la perdita di contatto con le emozioni (Mnemosyne - la donna che credeva di essere morta, 2009). Come autore ha firmato sia script originali che drammaturgie tratte da importanti opere letterarie come The Rime of the Ancient Mariner di S.T. Coleridge e la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. La sua ricerca artistica si caratterizza per l’interazione organica tra linguaggi differenti, in particolare cinema, recitazione e musica. Ha collaborato con numerosi compositori, tra cui Valentino Corvino e Andrea Mannucci, e con le coreografe Simona Bertozzi e Silvia Traversi. Esperto di video-proiezioni e della loro interazione con lo spazio architettonico, ha ideato Stultifera navis, Battaglie d’ombre e Sinfonia, per l’omonimo spettacolo di danza sulla Sinfonia n. 2 di Robert Schumann. Ha realizzato opere di video danza e animazioni, quali The spectre bark e Heavenly creatures. Nel 1999 fonda a Bologna Horizon – Centro per la Ricerca dei Linguaggi Interattivi di cui è stato presidente per oltre dieci anni. Ha collaborato con istituti di alta formazione artistica e con il Servizio di Neuropsichiatria infantile assieme allo psicologo Luca Casadio. È autore del volume Visionaria. Il cinema fantastico tra ricordi, sogni e allucinazioni (Falsopiano, 2008) con il patrocinio della Fondazione Federico Fellini.
2 Alcuni degli strumenti concettuali che utilizzo in questo testo – come corpomente, cervellomente e incrocio spaziotemporale –, e più in generale la relazione costitutiva tra il corpo e il tempo, sono stati da me più ampiamente spiegati e analizzati in Temporalità e Differenza, Firenze, Olschki, 2013, al quale si rinvia per una loro fondazione teoretica.
3 D. Sparti, Identità e coscienza, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 86. Di Parfit si vedano Personal Identity, «Philosophical Review», 80, 1971, pp. 3-27 e Reasons and Persons, Oxford, Clarendon Press, 1984.
4 Sulla questione del corpo primordinale: E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa [1911], trad. it. di F. Costa, Pisa, ETS, 1990, pp. 65 e 69; Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Volume I. Libro primo. Introduzione generale alla fenomenologia [1913], nuova edizione a cura di V. Costa, Torino, Einaudi, 1965 e 2002, pp. 47 e pp. 227-228; Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale [1954], trad. it. di E. Filippini, Milano, Il Saggiatore, 1975, p. 244. Sulla relazione tra coscienza e tempo cfr. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo [1966], a cura di A. Marini, Milano, Franco Angeli, 1998, testo integrativo n. 51, p. 332; Id., Meditazioni cartesiane [1950], trad. it. di F. Costa, Milano, Bompiani, 1989, p. 105.
5 L’interazione tra le prospettive fenomenologiche e quelle neurobiologiche rappresenta uno degli ambiti interdisciplinari più fecondi della ricerca contemporanea. Il nucleo della neurofenomenologia consiste nella necessità di coniugare anche a livello epistemologico ciò che è ontologicamente unitario: la mente e la realtà. Per una prima sintesi, che presenta il testo fondante di Varela Neurofenomenologia. Un rimedio metodologico al “problema difficile” e numerosi contributi su entrambi i versanti, si veda M. Cappuccio (a cura di), Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell'esperienza cosciente, Milano, Bruno Mondadori, 2006. I saggi, pur diversi, che compongono questo volume sostengono tutti che la filosofia della mente debba affrancarsi da ogni pregiudizio riduzionistico, compreso quello implicito in un’espressione quale Naturalizing Phenomenology. Stiamo infatti assistendo «allo sviluppo di un approccio neuroscientifico alle esperienze in prima persona, che mette al centro della propria indagine il ruolo svolto dal sistema sensori-motorio», tanto da rendere «molto più interessante fenomenologizzare le neuroscienze cognitive che naturalizzare la fenomenologia» (V. Gallese, Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività. Una prospettiva neuro-fenomenologica, ivi, p. 294).
6 Titolo originale: Lamia; Anno di produzione: 2011; Paese di produzione: Italia; Genere: fantastico/horror; Durata: 10 min. 46 sec.; Casa di produzione: Horizon; Interpreti: Cristiana Raggi (Lamia), Marco Continanza (Emmanuele); Regia: Dario Marzola; Soggetto e Sceneggiatura: Dario Marzola, in collaborazione con Roberta Romagnoli; Fotografia: Michele D’Attanasio AIC; Musica: Fabrizio Fontanot, Paola Samoggia.
7 Titolo originale: Memorare; Titolo ingl: The Ants’ Lover; Anno di produzione: 2011; Paese di produzione: Italia; Genere: fantastico; Durata: 8 min. 07 sec.; Casa di produzione: Horizon; Interpreti: Davide Morale (Emmanuele bambino), Valentina Masi (Madre di Emmanuele); Marco Continanza (Emmanuele adulto), Cristiana Raggi (Fidanzata); Regia: Dario Marzola; Soggetto e sceneggiatura: Dario Marzola, in collaborazione con Roberta Romagnoli; Fotografia: Michele D’Attanasio AIC; Musica: Fabrizio Fontanot.
8 Titolo italiano: Usura; Titolo ingl.: Worn by Time; Anno di produzione: 2011; Paese di produzione: Italia; Genere: psicologico/fantastico/sperimentale; Durata: 14 min. 07 sec.; Casa di produzione: Horizon; Interpreti: Marco Continanza (Emmanuele), Cristiana Raggi (Francesca), Tanino De Rosa (Neurologo); Regia: Dario Marzola; Soggetto e sceneggiatura: Dario Marzola, in collaborazione con Roberta Romagnoli; Fotografia: Michele D’Attanasio AIC; Musica: Fabrizio Fontanot, Paola Samoggia.
9 R. Manzotti, Teoria della Mente Allargata: un approccio esternista per costruttori di menti e cervelli, «Il Giornale della Filosofia / 14», V, 2, Mente, Oltreumano, Cyborg. Prospettive del post-umano, a cura di A.G. Biuso, maggio-settembre 2005, p. 10. Per questi e altri problemi al confine tra fisiologia e patologia della percezione si veda anche S. Gallegher, D. Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive [2008], trad. it. di P. Pedrini, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009.
10 Sulla memoria è assai utile l’introduzione di C. Papagno, Come funziona la memoria, Roma-Bari, Laterza, 2003. La memoria costituisce l’esserci umano nella sua interezza; è anche per questo che neurologia, psicologia, neuropsicologia e le altre scienze affini si limitano di fatto a descrivere il mondo dei ricordi ma sono incapaci di curare i suoi disturbi: «medicine per curare la memoria non esistono, né esistono farmaci che la migliorino» (ivi, p. 161). La complessità del ricordo, le sue basi fisiologiche, la sua centralità nella letteratura – in particolare in Proust – sono indagate da J.Y. Tadié, M. Tadié, Il senso della memoria [1999], trad. it. di C. Marullo Reedtz, Bari, Dedalo, 2000. La memoria «esplorando il passato, prepara l’avvenire identificando il presente». Anche per questo essa «da un lato, assomiglia ad una grande città, dall’altro è sempre in movimento con costruzioni nuove, abbellimenti e restauri, ma anche abbandoni e distruzioni» (ivi, pp. 297 e 123).
11 J.L. Borges, Funes o della memoria [1944], in Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano, Mondadori, 1991, I, pp. 712-714.
12 Sullo Specious Present, e sulla discussione da James a McTaggart e oltre, consiglio lo studio di E. Paganini, La realtà del tempo. Un’analisi concettuale del divenire temporale, Milano, CUEM, 2000.
13 P. Valéry, Quaderni [1988], a cura di J. Robinson-Valéry, trad. it. di R. Guarini, Milano, Adelphi, 1988, tomo III, pp. 495 e sgg.
14 E. Mazzarella, Ermeneutica dell’effettività, Napoli, Guida, 2001, p. 161.
15 Su queste e altre sindromi si vedano gli studi di Antonio Damasio (usciti in Italia tutti da Adelphi) e le Reith Lectures tenute da V.S. Ramachandran nel 2003, pubblicate in italiano con il titolo Che cosa sappiamo della mente, trad. it. di L. Serra, Milano, Mondadori, 2004.
16 G. Rizzolati, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Raffaello Cortina, 2006, p. 4.
17 Titolo: Mnemosyne. La donna che credeva di essere morta; Tipologia: opera multimediale (performance con dispositivo per videoproiezioni multiple); Anno di produzione: 2009; Durata: 15 min.; Opera live con Cristiana Raggi; Musica: Paola Samoggia; Scenografia, videoproiezioni e regia: Dario Marzola; Realizzata da: Horizon – Centro per Ricerca dei Linguaggi Interattivi. Con il patrocinio di: Società Italiana di Psichiatria - Sezione Speciale Arte Musica Cinema Mass-Media; AUSL di Modena; AUSL di Bologna - Dipartimento di Salute Mentale.